Le scoperte e i massacri di Ardengo Soffici agli Uffizi: mostra completa, precisa e riuscita


Recensione della mostra 'Scoperte e massacri. Ardengo Soffici e le avanguardie a Firenze', agli Uffizi fino all'8 gennaio 2017.

Cézanne, Renoir, Pissarro, Toulouse-Lautrec, Rousseau, Picasso, Braque. E poi ovviamente lui, il grande protagonista, Ardengo Soffici (Rignano sull’Arno, 1879 – Vittoria Apuana, 1964). I nomi e i presupposti per trasformare la prima monografica di sempre su Soffici in una baracconata in stile “Da Renoir a Picasso: gli anni di Ardengo Soffici” c’erano tutti. Ma la Galleria degli Uffizi, come sa chi la frequenta da anni, è ancora, nonostante tutto, un solido baluardo di serietà scientifica e divulgativa, ragion per cui la mostra, per la quale i curatori Vincenzo Farinella e Nadia Marchioni hanno scelto il significativo titolo Scoperte e massacri. Ardengo Soffici e le avanguardie a Firenze alludendo a uno dei principali libri della produzione di Soffici (Scoperte e massacri appunto, una raccolta di articoli pubblicata nel 1919), è risultata invece in un piccolo capolavoro degno d’ogni lode.

Bisogna subito mettere in chiaro una cosa, però: i veri banchi di prova della gestione Schmidt devono ancora arrivare perché, per le mostre di quest’anno, stiamo ancora parlando di operazioni ideate quando l’attuale direttore probabilmente stava ancora compilando il curriculum da inviare al Ministero per il concorsone del 2015. Il direttore però ha avuto l’intuito di non alterare troppo il vecchio concept di “Un anno ad arte”, inserendo le varie mostre di Uffizi e musei collegati (Galleria d’Arte Moderna, Galleria Palatina) in un contesto comune. La scelta, per adesso, è premiante: certo, è ben presente la mano della vecchia gestione e lo si intuisce anche solo aggirandosi per le sale di Scoperte e massacri. L’impronta di Antonio Natali, tra gli ideatori della mostra, è del tutto evidente (fin dalle scelte lessicali delle descrizioni nei pannelli): ci sarà dunque da aspettare per vedere come saranno le mostre “100% Schmidt”, anche alla luce del fatto che l’ex direttore è andato in pensione, ma si spera che il suo lascito non venga troppo alterato. Nel frattempo, ci possiamo godere questa splendida mostra su Ardengo Soffici che presenta quel taglio lineare, straordinariamente efficace sul piano divulgativo, tipico delle mostre di Vincenzo Farinella (stile Virgilio a Mantova nel 2011 o Dosso Dossi a Trento nel 2014). Una mostra su Ardengo Soffici tanto snobbata e sottovalutata quanto completa, se vogliamo anche divertente, e di sicuro sorprendente, ricca di perle inaspettate e scientificamente inappuntabile.

I pannelli introduttivi della mostra
I pannelli introduttivi della mostra


Una delle sale della mostra
Una delle sale della mostra

Leonardo Bistolfi, Le spose della morte
Leonardo Bistolfi, Le spose della morte (1895; gesso, 275 x 100 cm; Casale Monferrato, Museo Civico, Gipsoteca)
L’Ardengo Soffici che la mostra prende in esame non è il convinto e fascistissimo sostenitore del regime che, dagli anni Venti in poi, restringe fortemente i propri limiti, chiude ermeticamente il suo occhio sull’arte più evoluta e i cui restanti quarant’anni di vita rimangono oggi trascurati dai più. È l’Ardengo Soffici giovane, il bohémien che nella Parigi d’inizio Novecento illustra riviste alla moda e rimane affascinato dagli impressionisti, dai Nabis, da Cézanne, è il critico che organizza la prima mostra impressionista in Italia, è l’attento osservatore che fa scoprire agli italiani Picasso e i cubisti, è il polemista capace di lodare in maniera incondizionata Rousseau e di stroncare con violenza Franz von Stuck, Telemaco Signorini, Giulio Aristide Sartorio e una folta schiera d’altri artisti impietosamente demoliti con critiche spesso al limite dell’insulto. Scoperte e massacri, appunto. Le avanguardie scoperte e portate in Italia, e gli artisti disprezzati, aspramente massacrati, quasi denigrati, spesso perché secondo Ardengo Soffici falsi e costruiti, incapaci di provare sentimenti.

La mostra si apre con un Ardengo Soffici teenager che, neanche diciottenne, visita nel 1896 l’Esposizione dell’Arte e dei Fiori a Firenze, una grande rassegna d’arte (e di orticoltura: sì, all’epoca a volte succedeva) internazionale, dove il giovane Soffici ha modo, per la prima volta, di entrare a contatto con la più recente arte italiana e francese. Rimane colpito da un ritratto di Léon Bonnat il cui soggetto è lo scrittore Ernest Renan (pingue, brutto, con le mani trascurate che si poggiano rozzamente sulle cosce, ma colto con incredibile naturalezza), è affascinato dalle sculture di Leonardo Bistolfi, presente in mostra con le Spose della morte e autore che, caso non infrequente nel percorso di Soffici, verrà dapprima “scoperto”, e quindi “massacrato” (appena tre anni dopo aver scritto un articolo d’apprezzamento, Soffici lo avrebbe bollato come un artista “falso, svenevole e bolso”), ma soprattutto è folgorato dalla vista delle opere di Giovanni Segantini (in mostra con un’opera suggestiva come L’angelo della vita), la cui pittura gli ricorda “lo stile e il modo poetico, georgico del francese Millet”, che è il suo pittore preferito.

Léon Bonnat, Ritratto di Ernest Renan
Léon Bonnat, Ritratto di Ernest Renan (1892; olio su tela, 110 x 95 cm; Tréguier, Maison Natale d’Ernest Renan)


Giovanni Segantini, L'angelo della vita
Giovanni Segantini, L’angelo della vita (1894-1895; olio e gouache su carta, 59,5 x 48 cm; Budapest, Szépmuvészeti Múzeum)

Tanta attrazione per la Francia non può che condurre a un soggiorno parigino, che Ardengo Soffici compie tra il 1900 e il 1907. A Parigi, Soffici scopre Paul Cézanne, Maurice Denis, Pierre Puvis de Chavannes, che diventano i primi punti di riferimento della sua arte: nella terza sala dell’esposizione sono presenti due opere come Les jeunes filles et la mort di Puvis de Chavannes, che Soffici considera “un genio potente che ha colmato il vuoto nauseante del nostro tempo e forma con Segantini e Böcklin la triade luminosa dei più grandi sacerdoti di quell’arte pittorica mediterranea che è stata e sempre sarà così ricca di godimenti perfetti per gli spiriti raffinati” e I pellegrini di Emmaus di Maurice Denis che si collegano in modo chiaro a un’opera di Ardengo Soffici (una delle principali in mostra) presente nella sala precedente, Il bagno del 1905: questa grande tela, unico pannello superstite di una serie realizzata per il Grand Hotel delle Terme di Roncegno, è una formidabile sintesi della rigorosa semplificazione delle forme di Puvis de Chavannes e di quell’estetica della “superficie piana ricoperta di colori disposti secondo un determinato ordine e per il piacere degli occhi” che lo stesso Denis teorizzava nel 1890 e che aveva dato luogo a una pittura semplice, lineare, ricca di forme nette e colori puri che aprirono la strada alle ricerche dell’arte francese degli anni successivi. Impossibile non soffermarsi poi sul terzo elemento della “triade” di Soffici, Arnold Böcklin, presente in mostra, seppur più dimessamente rispetto a Segantini, Denis e Puvis de Chavannes, con un autoritratto che dialoga con un’omologa opera di Ardengo Soffici nella quale l’artista, seppur quasi trentenne, si dipinge con un volto da adolescente. Da segnalare inoltre, per chiudere il cerchio del “Soffici giovanissimo”, un austero ritratto della madre, le illustrazioni che l’artista eseguiva per le riviste francesi al fine di mantenersi a Parigi, e alcuni acquerelli con studi di paesaggi, animali e soggetti vari posti sulla parete di fronte ai Pellegrini di Denis.

Pierre Puvis de Chavannes, Les jeunes filles et la mort
Pierre Puvis de Chavannes, Les jeunes filles et la mort (1872; olio su tela, 146,4 x 117,2 cm; Williamstown, Massachusetts, Sterling and Francine Clark Art Institute)


Maurice Denis, I Pellegrini di Emmaus
Maurice Denis, I Pellegrini di Emmaus (1895; olio su tela, 177 x 278 cm; Saint-Germain-en-Laye, Musée départemental Maurice Denis)


Ardengo Soffici, Il bagno
Ardengo Soffici, Il bagno (1905; olio su tela, 199 x 400 cm; Collezione privata)


Autoritratti di Soffici e Böcklin
Il confronto tra l’autoritratto di Ardengo Soffici (1907; acquerello su carta, 41,5 x 30,5 cm; Firenze, Collezione Adriana Galletti Soffici) e l’autoritratto di Arnold Böcklin (1893-1895 circa; olio su tela, 40 x 54 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)


La parete con gli studi di Ardengo Soffici
La parete con gli studi di Ardengo Soffici


Ardengo Soffici, Il bagno
Ardengo Soffici, Il bagno (1905; olio su tela, 199 x 400 cm; Collezione privata)

C’è un netto stacco, anche fisico, tra la prima sezione della mostra e quella successiva, perché nel momento in cui Soffici scopre Cézanne la sua arte cambia in modo radicale. Soffici non è tuttavia interessato al Cézanne intellettuale, il padre fondatore di tutta l’arte del Novecento, quello che avrebbe posto le basi imprescindibili per pressoché tutte le avanguardie. Al giovane critico e pittore fiorentino interessa un Cézanne intimo, quello che riesce a cogliere l’essenza del soggetto con le sue mirabili sintesi scaturite da una profonda sensibilità riletta da Soffici in chiave primitivista: “il primitivismo d’oggi accumula in sé l’esperienza di molti secoli e per chi sa cogliere questo carattere non sarà difficile cogliere in lui [cioè in Cézanne] la suprema espressione del moderno”. Moderno, Cézanne, perché capace d’assommare nella sua arte una tradizione lunga secoli, forse anche millenni. Soffici è il primo in Italia a parlare dell’artista francese, e uno degli snodi fondamentali della mostra è proprio il confronto tra alcune opere di Cézanne (un Paesaggio provenzale, un gruppo di Grandi bagnanti, una natura morta con una tazza e un piatto di ciliegie) e una serie di dipinti di Ardengo Soffici, tra cui un paesaggio con il Savignone, dove l’artista cerca di rifarsi alle sintesi del grande pittore francese, e una tela con Giocatori di carte che, oltre ad accostarsi a Cézanne nella forma, gli si avvicina anche per il tema scelto dacché i Giocatori di carte sono anch’essi presenti nella produzione cézanniana (sarebbe stato davvero un gran colpo averne un esemplare in mostra). Soffici mira a creare arte da una situazione contingente, quotidiana (come un gruppo di vecchi riuniti attorno a un tavolo a giocare a carte), che gli ispiri un’opera vera e sentita: lo stesso che faceva Cézanne, motivo per cui tra i due c’è un’affinità così spiccata.

Paul Cézanne, Paesaggio provenzale
Paul Cézanne, Paesaggio provenzale (1900-1904; matita e acquerello su carta bianca, 45 x 60,3 cm; Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca)


Paul Cézanne, Natura morta con ciliegie
Paul Cézanne, Natura morta con ciliegie (1900-1904; matita e acquerello su carta bianca, 38 x 49 cm; Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca)


Ardengo Soffici, I giocatori di carte
Ardengo Soffici, I giocatori di carte (1909; olio su cartone, 49,5 x 70 cm; Viareggio, Società di Belle Arti)

La ricerca di un’arte sincera passa inevitabilmente attraverso una delle scoperte più ardite di Soffici, quella dei cosiddetti naïf, in particolare di Henri Rousseau, il celebre Doganiere con cui Soffici intrattiene anche un rapporto d’amicizia e al quale chiede alcune opere d’arte non solo perché erano, tutto sommato, oggetti interessanti, ma anche per coglierne l’essenza: e se la rappresentanza di Rousseau in mostra è un po’ povera (due piccoli disegni, uno di un fattorino e uno di una donna a teatro), abbiamo di Soffici una natura morta d’après Rousseau estremamente significativa. Questo della “stramba galleria” dei pittori incolti, che non avevano studiato nelle accademie, spesso non sapevano leggere e scrivere, e vendevano le loro umili opere nei mercatini di campagna, è un passaggio fondamentale per comprendere come Soffici intendesse l’arte, dato che lui adorava, come scritto in un noto articolo apparso su La Voce nel settembre del 1910, “quella pittura che le persone intelligenti dicono stupida [...]”, ovvero quella pittura “ingenua, candida e virginale”, la pittura “degli uomini semplici, dei poveri di spirito, di coloro che non hanno mai visto i baffi di un professore”. Gli artefici erano “imbianchini, muratori, ragazzi, verniciatori, pecorai mezzi pazzi, e vagabondi”, come il "Fuffa", un non meglio identificato pastore di Poggio a Caiano che mentre guardava le pecore si dilettava nel disegno (in mostra ci sono un paio di suoi schizzi), o come Arturo Pezzella, artigiano specializzato nella realizzazione di semplicissime insegne di esercizi commerciali, come quella dipinta per un cocomeraio e in cambio della quale Soffici avrebbe dato volentieri “la Madonna delle arpie d’Andrea del Sarto, l’Assunzione del Murillo, e tutta, tutta l’opera di Fra’ Bartolomeo”: per il critico-pittore toscano, insomma, un dipinto banale ma vero e frutto esclusivo dell’animo vale più di una pala celebrata ma classicista al punto da sfiorare la devozione.

Ardengo Soffici, Natura morta d'après Rousseau
Ardengo Soffici, Natura morta d’après Rousseau (1939; olio su tela, 38 x 46 cm; Collezione privata)


Arturo Pezzella, Insegna di cocomeraio
Arturo Pezzella, Insegna di cocomeraio, particolare (1908; olio su tela, 109 x 78,5 cm; Firenze, Collezione privata)

Tante scoperte dovevano essere in qualche modo divulgate al pubblico italiano: è così che, nella primavera del 1910, Soffici si prodiga per organizzare, a Firenze, la prima mostra degli impressionisti in Italia. Le due salette che rievocano questa mostra sono da applausi: filologicamente puntuali, in questi ambienti ci vengono presentate da una parte opere di pittura, e dall’altra sculture. Nella prima saletta c’è un paesaggio di Cézanne, c’è una Passeggiata di Toulouse-Lautrec, c’è una perla come l’Approssimarsi della bufera di Camille Pissarro, impressionismo-francese-prima-volta-in-italia-1878.php' target='_blank'>prima opera impressionista mai vista in Italia e all’epoca, ovvero nel 1878, accolta con disprezzo quasi unanime, c’è uno splendido Ritratto infantile di Renoir (il ritratto del figlio Pierre) che dimostra pienamente perché questi fosse probabilmente l’impressionista preferito di Soffici: perché pur essendo sostanzialmente la sua una pittura da “modesto operaio decoratore di maioliche”, nel suo immaginario “giovanile e primaverile” si può ritrovare “la stessa felicità di dare al più reale particolare l’impronta grande e larga, l’originalità definitiva dell’opera d’arte non transitoria ma inalterabile nel tempo”.

Il secondo ambiente invece offre al visitatore una selezione di opere di Medardo Rosso: erano diciassette, le sculture dell’artista torinese esposte a Firenze nel 1910. Artista torinese che, pur potendo godere di un certo successo a Parigi, rimaneva pressoché sconosciuto in Italia, e Soffici ha il merito di introdurlo per la prima volta in modo completo al pubblico italiano con questa serie di opere, tra le quali spiccano l’Ecce puer (in realtà un ritratto di un bambino inglese, Alfred Mond, che “per il suo carattere di grandezza trascende infinitamente le condizioni imposte al ritratto, per divenire come una raffigurazione simbolica dell’umano, indipendentemente dagli accidenti di razza, di sesso e di età”) e quella Portinaia che rappresenta una delle vette più alte dell’impressionismo in scultura, essendo uno dei primi esempi nell’arte di Rosso (e nella scultura impressionista in generale) nei quali la figura comincia a fondersi e a confondersi con l’ambiente.

Paul Cézanne, Campagnes de Bellevue (Paesaggio)
Paul Cézanne, Campagnes de Bellevue (Paesaggio) (1885-1887; olio su tela, 36,2 x 50,2 cm; Washington DC, The Phillips Collection)


Camille Pissarro, L'approche de l'orage
Camille Pissarro, Paesaggio - L’approssimarsi della bufera (1878; Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti)


Pierre-Auguste Renoir, Ritratto infantile
Pierre-Auguste Renoir, Ritratto infantile (1885; olio su tela, 42 x 35 cm; Torino, GAM)


Medardo Rosso, Ecce Puer
Medardo Rosso, Ecce Puer (1908 circa, da un modello del 1906; bronzo, 45 x 34 x 24 cm; Venezia, Galleria internazionale d’Arte moderna di Ca’ Pesaro)

Al pari delle “scoperte” proseguono ovviamente i “massacri”, che anzi si fanno forse più intensi, soprattutto in occasione della Biennale di Venezia del 1910, quando Soffici stronca senza pietà artisti come Giulio Aristide Sartorio (che propone, a detta del critico, una “sala slumacata” con una “sarabanda di corpi nudi o fasciati da veli, gli stessi atteggiamenti epilettici, gli stessi musi inespressivi, la stessa mancanza di disegno, di stile, di poesia e di vita”: ne abbiamo un esempio in mostra con una delle Cariatidi) e Franz von Stuck (la sua sarebbe una “pittura fatta di furto”, menzognera a tal punto da essere “pericolosissima e deleteria”), ma salva invece Gustave Courbet al quale la Biennale, quell’anno, dedicava una retrospettiva: merito di Courbet era quello di aver spogliato la propria arte da ogni residuo di classicismo e di comprendere che il primo “pezzo di terra o di cielo che capita è buono, purché visto con commozione e trasfigurato dalla fantasia”. A questo discorso si collega dunque la saletta attigua: l’uscita, in quel periodo, di una monografia di Maurice Barrès dedicata a El Greco è l’occasione per riflettere sulla poetica del grande artista ellenico che nell’esposizione fiorentina è messo a fianco della celeberrima Visione di Ezechiele di Raffaello. Per Soffici, ostile a tutti gli idealismi, El Greco è stato uno dei più grandi della storia dell’arte in quanto non soggiogato “dalla piovra che già soffocava l’Italia”, ovvero l’adulazione dei grandi del Rinascimento e dell’antichità classica, dunque in quanto capace di evitare di “smarrire la propria tempra originale e genuina per farsi arruolare nella immensa banda dei cortigiani adoratori delle Sibille michelangiolesche [...] e delle gloriose e insulse classicherie e cattolicherie di Raffaello”.

Franz von Stuck, Medusa
Franz von Stuck, Medusa (1908; olio su tavola, 72 x 83 cm; Venezia, Galleria internazionale d’Arte moderna di Ca’ Pesaro)


Gustave Courbet, Le Grand Pont
Gustave Courbet, Le Grand Pont (1864; olio su tela, 97 x 130; New Haven, Connecticut, Yale University Art Gallery)


El Greco, I santi Giovanni Evangelista e Francesco
El Greco, I santi Giovanni Evangelista e Francesco (1600 circa; olio su tela, 110 x 86 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)


Raffaello, La visione di Ezechiele
Raffaello, La visione di Ezechiele (1518 circa; bronzo, 40,7 x 29,5 cm; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina)

Subito successiva è la nuova e ultima grande scoperta di Soffici: il cubismo, rappresentato in mostra da alcune opere di Braque e di Picasso. Del pittore spagnolo, in particolare, Soffici sarebbe diventato un buon amico, e Picasso avrebbe ricambiato la stima inserendo, in una delle sue opere appartenenti alla fase del cubismo sintetico, l’intestazione di Lacerba, la rivista che Soffici aveva fondato nel 1913 insieme all’amico di sempre, Giovanni Papini (l’opera è presente in mostra). E se l’ammirazione nei confronti di Picasso e colleghi è chiara e pacifica, più difficili sono i rapporti con i futuristi, che dapprima Soffici stronca terribilmente nella sua recensione probabilmente più celebre, quella dedicata alla mostra di Boccioni, Carrà e Russolo del 1911 a Milano (“sciocche e laide smargiassate di poco scrupolosi messeri, i quali vedendo il mondo torbidamente, senza senso di poesia, con gli occhi del più pachidermico maialaio d’America, voglion far credere di vederlo fiorito e fiammeggiante, e credono che lo stiaffar colore da forsennati su un quadro di bidelli d’Accademia, o il ritirare in piazza il filacciume del divisionismo, questo morto errore segantiniano, possa far riuscire il loro gioco al cospetto della folla babbea”), attirandosi anche una spedizione punitiva che i tre artisti organizzano a Firenze provocando una rissa al Caffè delle Giubbe Rosse, e con i quali poi comincia a intrattenere rapporti al punto da accogliere elementi futuristi nella sua arte. Soffici diventa così un cubofuturista nei cui dipinti (in mostra abbiamo, per esempio, una Sintesi di un paesaggio autunnale, da mettere a confronto con i Ritmi di oggetti di Carlo Carrà) l’intellettualismo analitico cubista non viene mai del tutto sopraffatto dal senso del movimento tipicamente futurista. Mirabile sintesi di queste esperienze è un altro (l’ultimo, probabilmente) dei punti chiave della mostra: la perfetta ricostruzione delle decorazioni della Sala dei Manichini, un ambiente della casa di Giovanni Papini a Bulciano (borgo toscano nei pressi dei confini con la Romagna), che era stato decorato da Soffici con una frenetica danza di nudi che assomma primitivismo, scomposizione, dinamismo futurista. Una summa di tutte le esperienze del critico e di tutti gli artisti che aveva “scoperto” e fatto scoprire al pubblico.

Pablo Picasso, Pipa, bicchiere, bottiglia di Vieux Marc e Lacerba
Pablo Picasso, Pipa, bicchiere, bottiglia di Vieux Marc e “Lacerba” (1914; collage di carta, carboncino, inchiostro di china, inchiostro da stampa, grafite e guazzo su tela, 73,2 x 59,4 cm; Venezia, Peggy Guggenheim Collection)


Georges Braque, Natura morta con chitarra
Georges Braque, Natura morta con chitarra (1912; carboncino e collage su carta, 62,1 x 48,2 cm; Milano, Museo del Novecento, collezione Jucker)


Carlo Carrà, Ritmi di oggetti
Carlo Carrà, Ritmi di oggetti (1911; olio su tela, 53 x 67 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)


Ardengo Soffici, Sintesi di un paesaggio autunnale
Ardengo Soffici, Sintesi di un paesaggio autunnale (1912-1913; olio su tela, 45,5 x 43 cm; Prato, Farsetti Arte)


Ardengo Soffici, due pannelli dal ciclo della Stanza dei Manichini di Casa Papini a Bulciano

Ardengo Soffici, due pannelli dal ciclo della Stanza dei Manichini di Casa Papini a Bulciano
Ardengo Soffici, due pannelli dal ciclo della Stanza dei Manichini di Casa Papini a Bulciano (1914; tempere murali staccate e riportate su pannelli; Firenze, collezione privata)

Le ultime due sale della mostra, le più stanche dell’intero percorso, che giungono dopo una specie di significativo salto nel vuoto (sono separate da quella dedicata al cubismo da uno stretto e lungo corridoio nero) chiudono le porte sull’Ardengo Soffici più interessante. Alle soglie della prima guerra mondiale, il pittore-critico diviene un acceso interventista e poi, a seguito dell’entrata in guerra dell’Italia, si reca volontario al fronte, sospendendo tutte le attività connesse all’arte (fatta eccezione per l’ideazione di un giornale satirico di trincea, La Ghirba, per il quale si avvale della collaborazione di Carrà e di un giovane Giorgio De Chirico, che rappresenta la sua ultima “scoperta”, se si escludono alcune intuizioni dell’ultima parte della sua carriera, comunque non affrontata dalla mostra degli Uffizi: un nome su tutti, quello di Ugo Guidi) e tornando dalla guerra provato, completamente cambiato e fautore, tra i tanti, di quel ritorno all’ordine che nella sua pittura si sostanzia in alcune opere del tutto prive del mordente da avanguardista che aveva contraddistinto non solo la sua critica, ma anche la sua arte. L’ultimo sussulto della mostra (al di là dell’esposizione dell’autoritratto donato agli Uffizi dagli eredi: una donazione che ha costituito l’occasione per organizzare la mostra) è un paragone tra un paesaggio di Soffici realizzato a Poggio a Caiano e un altro paesaggio, identico, dipinto però da Ottone Rosai, che ci dimostra non soltanto le rinnovate volontà di Soffici (ritrovare ordine e stabilità) ma anche come l’artista cominciasse a essere guardato come un modello.

Ardengo Soffici, Mele e calice di vino
Ardengo Soffici, Mele e calice di vino (1919; olio su tavola, 42 x 33 cm; Viareggio, Società di Belle Arti)


Ardengo Soffici, Autoritratto
Ardengo Soffici, Autoritratto (1949; olio su tela cartonata, 50 x 35 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture)


Si esce dalla mostra con la sensazione d’aver visitato una delle operazioni più interessanti dell’anno. Una mostra in cui non ci sono battute a vuoto: se proprio vogliamo essere puntigliosi, segnaliamo giusto le ultime due sale il cui livello di coinvolgimento non è pari a quello di tutte le altre che le precedono, qualche rammarico per alcune assenze (non si parla a sufficienza della formazione di Soffici sotto il segno dei macchiaioli, ma non è comunque importante ai fini del discorso di fondo della mostra, e poi, come detto sopra, mancano dipinti di Rousseau), e forse una comunicazione che fa molta fatica a far presa su un pubblico non abituato a questo tipo di mostre (e che diventa infelicissima quando Soffici viene definito un “rottamatore”: il termine, utilizzato da Schmidt nelle interviste rilasciate a margine dell’inaugurazione, poteva essere benissimo evitato, considerati i risvolti politici che ha assunto negli ultimi anni). Sembra che l’esposizione arranchi nel rivolgersi al “pubblico degli Uffizi”, ma c’è anche da dire che il visitatore, una volta incuriosito e “catturato”, diventa pienamente partecipe anche perché i curatori hanno avuto il grande merito di rendere di lettura piuttosto agevole argomenti che solitamente immagineremmo riservati agli specialisti. Il giudizio, insomma, è ben più che positivo: si tratta di una mostra certo complessa ma al contempo chiara, che non si limita a ricostruire i tratti di una singola figura, quella di Ardengo Soffici (errore in cui spesso corre il rischio di cadere una mostra monografica), ma che ricostruisce con grande precisione il contesto di riferimento che, anzi, in certi passaggi prende addirittura il sopravvento sul protagonista (in avvio, per esempio: ma non poteva, del resto, essere altrimenti). E una mostra che ha anche il merito di aver ricostruito l’articolata personalità di Ardengo Soffici muovendosi su due binari: il critico e il pittore. Riuscire a conciliare questi due aspetti di una delle più importanti figure del primo Novecento era operazione dall’esito tutt’altro che scontato. Infine, una nota sul catalogo: al di là delle schede (molto ricche) e degli apparati, abbiamo solo un’introduzione e un paio di saggi, uno dedicato alle Scoperte e l’altro ai Massacri, firmati rispettivamente da Nadia Marchiori e da Vincenzo Farinella, che si configurano un po’ come delle “antologie” della produzione critica di Ardengo Soffici. Contributi destinati più al pubblico che agli specialisti: e forse è una buona idea.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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