di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 28/11/2018
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Novecento - Surrealismo - Dadaismo - Salvador Dalí - René Magritte - Pisanello
Recensione della mostra '1929: il grande surrealismo dal Centre Pompidou. Da Magritte a Duchamp' a Pisa, Palazzo Blu, dall'11 ottobre 2018 al 17 febbraio 2019.
Il 1929 è passato alla storia dell’arte come anno decisivo per le sorti dell’intero surrealismo. Quell’anno, il movimento fondato nel 1924 da André Breton (Tinchebray, 1896 - Parigi, 1966) si confrontò con eventi cruciali che ne avrebbero segnato la storia in maniera indelebile: è possibile affermare che uno dei momenti di svolta si sia registrato a metà febbraio, quando Breton e Louis Aragon (Parigi, 1897 - 1982) inviarono una lettera a diversi esponenti del movimento surrealista (o, in qualche modo, legati al surrealismo) onde verificare quale fosse la loro posizione ideologica in vista d’eventuali azioni collettive che il gruppo avrebbe intrapreso di lì a poco. Erano quelli i prodromi della scissione interna al gruppo che si sarebbe verificata nelle settimane successive. Il poeta e critico d’arte, che dal 1926 era iscritto al Partito comunista francese, auspicò che l’intero gruppo si prodigasse in un impegno politico nella direzione degl’ideali che Breton stesso aveva abbracciato: molti degli artisti surrealisti manifestarono un profondo disaccordo coi propositi di Breton, e si distaccarono dal gruppo, dando origine a nuove esperienze. Ma la storia del surrealismo conobbe, nello stesso anno, molti altri momenti topici: in primavera Salvador Dalí (Figueres, 1904 - 1989) arrivò a Parigi e fu introdotto nel movimento da Joan Miró (Barcellona, 1893 - Palma di Maiorca, 1983), e giunto nella capitale francese riuscì a sua volta a garantire un contributo fondamentale al surrealismo fin dai suoi esordî, quando si fece conoscere partecipando alla realizzazione del celeberrimo film Un chien andalou di Luís Buñuel (Calanda, 1900 - Città del Messico, 1983). Ancora, in aprile uno dei dissidenti, Georges Bataille (Billom, 1897 - Parigi, 1962), pubblicò il primo numero della rivista Documents, e un mese dopo fu dato alle stampe il romanzo-collage di Max Ernst (Brühl, 1891 - Parigi, 1976) La femme 100 têtes, mentre in giugno si tenne la prima mostra del gruppo Le Grand Jeu. Sul finire dell’anno, un diverbio tra Breton e René Magritte (Lessines, 1898 - Bruxelles, 1967) convinse il pittore belga a tornare nel paese natale, e il 15 dicembre usciva l’ultimo numero de La Révolution surréaliste.
Gli eventi brevemente riassunti in apertura (insieme ad altri di cui si dirà più sotto) sono oggetto d’una mostra a Pisa, a Palazzo Blu, che s’intitola 1929: il grande surrealismo dal Centre Pompidou. Da Magritte a Duchamp e che, avvalendosi d’un gruppo di capolavori in arrivo (in blocco) dal Centre Pompidou di Parigi, intende fare il punto su quell’anno tanto importante per il surrealismo e, di conseguenza, per la storia dell’arte del Novecento. Dunque, l’idea della mostra curata da Didier Ottinger, vicedirettore del Musée National d’art moderne, non può che apparire buona, e benché sull’argomento “surrealismo nel 1929” sia stata prodotta una vasta bibliografia, una mostra capace di riassumere studî e ricerche in un buon progetto divulgativo per il grande pubblico, capace di superare la solita ottica da mostra blockbuster nella quale spesso cadono le rassegne dedicate a Dalí e compagni, fin dal suo annuncio non poteva che essere salutata positivamente. Peccato che però l’esposizione pisana riesca a centrare solo parzialmente i suoi obiettivi e non riesca a porsi come una mostra veramente incisiva e capace di concretizzare i proprî intenti: e le lacune appaiono evidenti sin dal titolo, dal momento che i “Magritte” e i “Duchamp” che si son voluti includere nel titolo hanno l’unico scopo d’ammannire due nomi stranoti al pubblico, dacché né sono loro i protagonisti principali della rassegna, né, tanto meno, possono esser presi come punti di riferimento per tracciare una traiettoria all’interno dell’anno 1929. Paradossalmente, avrebbe avuto più senso includere il nome di Dalí nel titolo, forse evitato per non dar l’impressione d’aver ceduto troppo a logiche commerciali, considerata la sovraesposizione mediatica dell’artista catalano, ma di sicuro appropriato per dar l’idea di quanto pregnante sia stato il suo contributo offerto al movimento nel 1929.
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Una sala della mostra 1929: il grande surrealismo dal Centre Pompidou. Da Magritte a Duchamp
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Una sala della mostra 1929: il grande surrealismo dal Centre Pompidou. Da Magritte a Duchamp
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Una sala della mostra 1929: il grande surrealismo dal Centre Pompidou. Da Magritte a Duchamp
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La mostra parte comunque bene (pur certo senza contributi particolarmente originali), offrendo un breve inquadramento storico del movimento a beneficio d’un pubblico che potrebbe aver poca confidenza con la storia del surrealismo. Il visitatore trova dapprima la definizione del surrealismo così come formulata da Breton nel manifesto del 1924 (un “automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica o morale”), e per meglio esplicitare il concetto è esposto, sul corridoio che costituisce di fatto l’introduzione della rassegna, un piccolo gruppo di Cadavre exquis nati dal gioco d’alcuni surrealisti: com’è noto, il “cadavere squisito” era un passatempo che prevedeva la creazione d’una storia da parte d’un gruppo di giocatori, ognuno dei quali poteva solo conoscere l’ultima parola scritta prima del suo turno (e lo stesso avveniva con le immagini: lo scopo era creare un disegno, e a ogni giocatore il foglio veniva coperto, lasciando visibile solo l’ultima porzione eseguita prima del proprio turno). Si trattava d’una pratica cui i surrealisti ricorrevano per dimostrare quel “funzionamento reale del pensiero”, attivato dall’inconscio e senza i limiti imposti dalla ragione, che i membri del movimento intendevano far emergere, utilizzando l’associazione libera e casuale degli elementi come chiave per rivelare i meccanismi generati dalla psiche. Una funzione introduttiva è riservata anche alla sala successiva, che intende presentare ai visitatori alcuni lavori dei precursori del surrealismo, su tutti gli artisti del movimento Dada, fondato a Zurigo nel 1916: coi dadaisti, i surrealisti avrebbero condiviso la tendenza all’azione collettiva e alla partecipazione in gruppo, oltre ai propositi eversivi, mentre sarebbero stati divisi dal modo di concepire l’azione artistica (che per i dadaisti aveva carattere distruttivo, mentre per i surrealisti l’azione era sempre costruttiva). La presenza di un’opera chiave del movimento Dada quale è L.H.O.O.Q. di Marcel Duchamp (Blainville-Crevon, 1887 – Neuilly-sur-Seine, 1968) marca una profonda differenza tra dada e surrealismo: se il primo era irrisione e rifiuto totale, il secondo seguitava a guardare alla tradizione. È interessante ricordare come negli anni Cinquanta uno degli artisti di spicco del movimento surrealista, Yves Tanguy (Parigi, 1900 - Woodbury, 1955), enumerando i suoi artisti preferiti, avrebbe indicato alcuni nomi di illustri pittori del rinascimento (Cranach, Bosch, Paolo Uccello), oltre a quello d’un contemporaneo, Giorgio De Chirico (Volos, 1888 - Roma, 1978), osservato con interesse da Breton e compagni dacché le associazioni tra oggetti inaspettati nelle sue opere erano in certo modo conformi all’estetica e al pensiero del surrealismo (“nella sua giovinezza”, dichiarò Breton nel 1928, “De Chirico completò quello che per noi era il più straordinario viaggio mai intrapreso”: ovvero, il viaggio nel dominio del sogno e dell’inconscio). Nei confronti del pittore nato in Grecia l’atteggiamento fu, tuttavia, ambivalente, dacché opere come la Lutte antique esposta in mostra (e che s’inseriva nell’ambito dei lavori sul tema dei gladiatori) furono apertamente disprezzate, e presto i rapporti tra De Chirico e i surrealisti si deterioraono in maniera insanabile (l’artista italiano, nella sua autobiografia, li avrebbe descritti come “gruppo di degenerati, di teppistoidi, di figli di papà, di sfaccendati, di onanisti e di abulici che pomposamente si erano autobattezzati ‘surrealisti’ e parlavano anche di ‘rivoluzione surrealista’ e di ‘movimento surrealista’“).
Senza che venga offerto un percorso che approfondisca ulteriormente gli sviluppi del movimento, il pubblico si trova subito catapultato in medias res con l’arrivo a Parigi di Salvador Dalí, nel 1929: su di uno schermo scorrono le immagini di Un chien andalou, un film nato “dall’incontro tra due sogni”, come avrebbe scritto Buñuel nella sua autobiografia, e che, con la sua carica aggressiva, e “sorretto da una logica onirica”, scrive Philippe-Alain Michaud nel saggio a catalogo dedicato proprio alla pellicola, “mirava a colpire o inquietare lo spettatore c on immagini bizzarre o scioccanti piuttosto che a sedurlo”. Dalí partecipò alla scrittura del film (sua è, per esempio, l’immagine della mano piena di formiche) e insieme a Buñuel elaborò un prodotto che, pur nella sua trasgressiva violenza, continuava ad avvalersi d’una struttura convenzionale, forse perché, ipotizza Michaud, intento dei due artisti spagnoli era quello di rifiutare gli esperimenti concettuali per rivolgersi in maniera diretta ed esclusiva, come del resto avrebbe poi rivendicato lo stesso Buñuel, alla sensibilità del pubblico. Dalí si fece subito apprezzare dai surrealisti attivi a Parigi, che lodarono il carattere d’assoluta novità della sua arte, la sua capacità d’aprirsi totalmente alle immagini oniriche, la potenza della sua verve. La rassegna pisana espone alcune opere centrali per contestualizzare il fascino che Dalí esercitò sui colleghi: un’opera come L’Âne pourri (“L’asino putrefatto”) si ricollega direttamente a Un chien andalou, dove compare l’immagine delle carcasse degli asini in decomposizione (“la putrefazione”, ha scritto nel 2006 il curatore Ottinger, “diventa lo strumento privilegiato di un’implacabile critica dell’idealismo”), mentre Dormeuse, cheval, lion invisibles è una composizione che rivela le basi del metodo di Dalí, che lui stesso, in un articolo pubblicato sulla rivista Le Surréalisme au service de la révolution (e intitolato proprio L’Âne pourri), avrebbe descritto come “un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basata sull’associazione interpretativa-critica di fenomeni deliranti”, e infine Hallucination partielle. Six imagenes de Lénine sur un piano è un sogno con cui l’artista di Figueres fustiga ironicamente i rapporti tra surrealismo e politica, che peraltro lo coinvolsero direttamente all’indomani dell’indignazione che i comunisti francesi espressero a seguito dell’uscita dell’articolo Rêverie di Dalí su Le Surréalisme au service de la révolution.
Una delle più interessanti sezioni della mostra di Palazzo Blu è quella che porta il titolo La peinture au défi, dall’omonimo saggio che nel 1929 Louis Aragon dedicò al tema del collage. Sfida “allo statuto metafisico della pittura, un medium per sua natura non certo eterno” (così William Jeffett), il collage, inventato in ambito cubista (presenti in mostra alcune opere di Picasso, anche se si parla di olî su tela), divenne per i surrealisti un ulteriore mezzo per esplorare l’inconscio. Fu lo stesso Aragon ha chiarire i motivi del ricorso al collage, e a stabilire le differenze tra collage cubista, collage dadaista, e collage surrealista. Questa tecnica, secondo Aragon, poneva l’artista di fronte al problema dell’ingresso del reale nell’arte, ma allo stesso tempo, in quanto mezzo per creare una realtà nuova, stabilisce anche una rottura nei confronti della realtà, oltre all’ingresso della dimensione del meraviglioso nell’opera d’arte: meraviglioso che, per Aragon, “è la contraddizione che appare nel reale”. Ed è su questa base che si sostanzia la differenza tra collage cubista e collage surrealista: “per i cubisti”, scriveva, “il timbro postale, il giornale, la scatola di fiammiferi che il pittore incolla sulla tavola, hanno il valore di un test, di uno strumento di controllo della realtà stessa della tavola”. L’oggetto incollato esprime un legame con il mondo reale, e il collage cubista è a sua volta presenza reale e rappresentazione. Il collage surrealista, al concetto di presenza, oppone quello di trasformazione: nell’opera d’un artista come Ernst (per il quale Aragon parlò di “collage poletico”) lo scontro tra elementi reali afferenti ad ambiti diversi e assemblati in un unico spazio, è in grado di creare una realtà nuova. Max Ernst è presente in mostra, oltre che con alcune tavole de La femme 100 têtes, il romanzo-collage che intendeva rivedere il concetto stesso di romanzo, con un’opera come Loplop présente une jeune fille, dove l’alter ego dell’artista (“Loplop”, una sorta di mostro dalle sembianze d’uccello, che ricorre in diverse sue opere) mostra un cammeo (la ragazza) per mettere in discussione gl’intenti imitativi della pittura. E se Le phare di Tanguy ci trasporta in una dimensione onirica, l’innovativa Peinture-objet di Miró, del 1931, è esemplificativa d’uno dei nuovi interessi del gruppo surrealista, quello della pittura come oggetto, che avrebbe avuto echi a distanza di decennî.
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Joan Miró, Max Morise, Man Ray, Yves Tanguy, Cadavre exquis (1927; inchiostro, grafite, matita colorata e collage di un frammento di carta argentata su carta, 36 x 23 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Greta Knutson, Tristan Tzara, Valentine Hugo, Cadavre exquis (1929; matita colorata su carta, 32,7 x 25 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q. (1930; grafite su supporto fotografico, 61,5 x 49,5 cm; immagine 48 x 33 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Giorgio De Chirico, Lutte antique (olio su tela, 73 x 100 cm; immagine 48 x 33 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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La proiezione di Un chien andalou alla mostra di Palazzo Blu
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Salvador Dalí, L’âne pourri (1928; olio, sabbia e ghiaia su tavola, 61 x 50 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Salvador Dalí, Dormeuse, cheval, lion invisibles (1930; olio su tela, 50,2 x 65,2 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Salvador Dalí, Hallucination partielle. Six images de Lénine sur un piano (1931; olio e vernice su tela, 114 x 146 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Max Ernst, Loplop présente une jeune fille (1930/1966; olio su legno, gesso e oggetti, 194,5 x 89 x 10 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Yves Tanguy, Le phare (1926; olio su tela con collage di fiammiferi, legno e barchetta di carta, 61 x 50 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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L’incalzare rapsodico dell’esposizione conduce il pubblico in una stanza votata alla vicenda del Grand Jeu, un singolare gruppo formatosi a Reims agl’inizî degli anni Venti per iniziativa d’alcuni liceali (René Daumal, Roger Gilbert-Lecomte, Robert Meyrat e Roger Vailland), tutti poeti o scrittori intenzionati a esplorare per via empirica i meandri più reconditi dell’inconscio: “angeli ribelli”, scrive David Liot nel suo saggio a catalogo, “predicano l’innocenza dell’infanzia e si definiscono ‘simplistes’, sperimentano lo ‘sregolamento dei sensi’ e gli stati estremi dell’esistenza (privazione del sonno, sonnambulismo, droghe, alcol ecc.), non esitando a giocare alla roulette russa o a camminare per ore con gli occhi bendati per avere la sensazione di trovarsi al confine tra due mondi”. Il loro rifiuto della realtà trovava origine negli sconvolgimenti causati dalla prima guerra mondiale e, per comunità d’intenti, li avrebbe presto avvicinati al gruppo dei surrealisti: nel frattempo, il Grand Jeu si sarebbe arricchito d’alcuni esponenti che ne avrebbero incarnato l’anima artistica, come Maurice Henry (Cambrai, 1907 - Milano, 1984) e Josef Šíma (Jaromêř, 1891 - Parigi, 1971). Šíma, in particolare, introdusse i quattro giovani di Reims alla pittura, e con le sue pitture s’occupò di dar corpo alle visioni quasi misticheggianti dei suoi compagni d’avventura: in mostra troviamo un suo Double Paysage, tempête électrique dove osserviamo lo stesso paesaggio, che appare agli occhi del riguardante sfocato come in un sogno, riprodotto due volte. Dipinto che rimanda a un fatto che segnò l’immaginario di Šíma (la visione d’un fulmine durante una notte di tempesta), il suo doppio paesaggio trasfigura una scena reale in una dimensione metafisica cui il pittore, che come i suoi amici di Le Grand Jeu è alla ricerca d’una “metafisica sperimentale”, può accedere dopo un’esperienza vissuta in prima persona. Più consentanea agl’ideali del gruppo di Breton è l’arte dell’istrionico Henry, che coi suoi sarcastici disegni surreali (come Le suicide est-il une solution? o À Longchamp) è, degli esponenti del Grand Jeu, quello che più di tutti s’avvicina ai surrealisti, e sarà uno dei pochi a mantenere i contatti con Breton dopo la riunione dei surrealisti del marzo 1929, durante la quale si sarebbe decretata l’espulsione dei membri del “grande gioco” (ufficialmente, per un editoriale di Vailland considerato vicino a posizioni reazionarie, in realtà perché le idee dei due movimenti si rivelarono inconciliabili).
Con un salto da Parigi a Bruxelles, la mostra introduce la figura di René Magritte: il 1929 è l’anno in cui il pittore belga s’afferma comparendo sulla rivista di Varietés, il mensile fondato l’anno prima da Paul-Gustave van Hecke (Gent, 1887 - Elsene, 1967) e in certo modo vicino alle posizioni di Breton, malgrado l’aperta ostilità di van Hecke nei confronti dello scrittore francese (lo considerava un “dittatore”, ma ciò non gl’impedì di far curare a Breton il numero del giugno 1929, uno speciale dedicato proprio al surrealismo). L’estro di Magritte s’impone per la sua originale interpretazione del surrealismo, volta a stabilire connessioni tra immagini e parole: in un suo articolo, intitolato giustappunto Les mots et les images (pubblicato su La révolution surrealiste, anch’esso nel 1929), l’artista stesso avrebbe esplicitato le sue idee con un testo corredato da immagini esplicative, simile a quelli che si trovano nei libri per l’infanzia (“un oggetto”, scrisse a margine dell’immagine d’una foglia al fianco della quale era stata apposta la scritta “le canon”, “non tiene così tanto al suo nome perché non gli si possa trovare un altro nome più adatto”, oppure che “un oggetto ci fa supporre che ce ne siano altri dietro di lui”, e ancora che “un oggetto non svolge mai lo stesso compito che ricoprono il suo nome o la sua immagine”). Questi rapporti (che anticipano di diversi anni l’arte concettuale e le ricerche d’un maestro come Joseph Kosuth) vengono ulteriormente esplorati nella pratica pittorica: la mostra espone la Querelle des Universaux del 1928, enigmatico dipinto che riprende nel titolo la quaestio de universalibus (la disputa sugli universali della scolastica medievale, che riguardava proprio il rapporto tra oggetti e linguaggio, e la nostra di esprimere pienamente la realtà coi termini della parola), e dove una stella grigia a cinque punti divide quattro parole (“canon”, “feuillage”, “miroir”, “cheval”) che sostituiscono gli elementi che rappresentano, e concorrono a comporre uno straniante paesaggio che stimola la capacità dell’osservatore di collegare il termine al suo oggetto di riferimento. Altro dipinto tipico della poetica di Magritte è Le Double Secret, ritratto d’un uomo che prede la propria maschera esteriore e rivela un interno vuoto, e ci sprona dunque a interrogarci sulla nostra percezione della realtà.
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Josef Šíma, Double Paysage, tempête électrique (1928; olio su tela, 67 x 137 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Maurice Henry, Le Suicide est-il une solution? (1929; inchiostro di china su carta, 26,9 x 21,1 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Maurice Henry, À Longchamp (1931; grafite e inchiostro di china su carta, 23,4 x 13,8 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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René Magritte, Querelle des Universaux (1928; olio su tela, 53,5 x 72,5 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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René Magritte, Le double secret (1927; olio su tela, 114 x 162 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d'art moderne)
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Si sale al piano superiore, e il percorso espositivo, che appariva già abbastanza scollato nelle prime sette sale, parrebbe perdere ulteriore coesione con una sala, l’ottava, intitolata I volti del surrealismo, i cui fini rimangono abbastanza oscuri (si parla, in maniera generica, d’una “diffusione” del movimento surrealista nel 1929 e s’introducono le figure di Giacometti e Picasso, che in quel periodo s’avvicinarono ad alcuni esponenti del gruppo). L’ambiente successivo intende invece vagliare le divagazioni erotiche dei surrealisti: si torna a parlare del summenzionato speciale del giugno 1929 della rivista Varietés, per finanziare il quale Aragon e Benjamin Péret (Rezé, 1899 - Parigi, 1959) pubblicarono una raccolta di poesie erotiche, intitolata proprio 1929, e illustrata con le fotografie di Man Ray (Emmanuel Radnitzky, Filadelfia, 1890 - Parigi, 1976): più nello specifico, 1929 è un agile volume d’una trentina di pagine che intende presentare, con liriche irriverenti (che, in linea con certa tradizione francese, si pensi al marchese de Sade, all’erotismo uniscono anche una buona dose di anticlericalismo), le migliori posizioni per ciascuna stagione. Ma furono molti i surrealisti interessati al tema dell’eros: in mostra gli esempî sono molti, ma valga su tutti, per la sua intensità, il lavoro di Jindřich Štyrský (Dolní Čermná, 1899 - Praga, 1942), Emilie vient à moi en rêve, ciclo di fotografie che descrive un sogno erotico la cui protagonista s’abbadona a una serie di pratiche di vario tipo (dalla fellatio alla masturbazione con riproduzioni di falli, dal sesso saffico con tanto di tribbing alla copula eterosessuale) sullo sfondo di visioni allucinate.
La mostra si chiude con la sala dedicata alla rivista Documents, l’esperimento nato dalla volontà dei surrealisti dissidenti espulsi dal gruppo, su tutti Georges Bataille, che mal sopportavano l’indirizzo politico che Breton aveva conferito al movimento, e che avrebbe confermato nel Secondo Manifesto del Surrealismo, nel quale l’adesione alle istanze marxiste veniva apertamente ribadita. Documents, pubblicata a Parigi in quindici numeri tra il 1929 e il 1930, si proponeva come una rivista anti-idealistica tesa a esaltare gli aspetti più rozzamente materialistici che avevano caratterizzato l’azione surrealista: Breton e Bataille non erano separati solo dalle idee sulla configurazione politica da imprimere al movimento, ma anche dalle concezioni estetiche (la visione di Breton sarebbe stata considerata troppo idealista da Bataille, e a proposito del basso materialismo di quest’ultimo Breton avrebbe scritto, nel Secondo manifesto: “Bataille ama le mosche. Noi no: noi amiamo la mitria degli antichi evocatori, la mitria di lino puro che aveva infissa davanti una lama d’oro e su cui le mosche non si posavano, perché erano state fatte delle abluzioni per scacciarle. [...] Va osservato che Bataille fa un abuso delirante degli aggettivi: sudicio, senile, rancido, sordido, scabroso, abbrutito, e che queste parole, lungi dal servirgli per descrivere uno stato di cose insopportabile, sono quelle in cui più si esprime liricamente il suo diletto”). E se si considera che Bataille apprezzò fortemente Un chien andalou, non si fatica a comprendere quali fossero i contenuti che meglio gradiva: gli aspetti più bassi della realtà. Documents abbonda dunque d’immagini spesso disturbanti, come le fotografie di Eli Lotar (Parigi, 1905 - 1969) che ritraggono gl’interni del mattatoio della Villette indugiando sui dettagli più crudi, o quelle di Jean Painlevé (Parigi, 1902 - 1989) che, da studente di scienze naturali e macrofotografo, pubblicò immagini di particolari del mondo della natura ingraditi a dismisura, suscitando sensazioni disorientanti in chi le osserva (e per tali ragioni particolarmente apprezzate dai surrealisti). La notizia, fornita al pubblico prima della definitiva conclusione della mostra, che il 1930 avrebbe visto la nascita della rivista Le Surréalisme au service de la révolution, è l’atto finale della rassegna, a indicare come le esperienze del surrealismo non sarebbero state intaccate dagli eventi del 1929 e che, anzi, il gruppo avrebbe serbato forte la sua vitalità.
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Jindřich Štyrský, Emilie vient à moi en rêve (1933; stampa alla gelatina ai sali d’argento, 24 x 18 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Man Ray, Été, illustrazione per 1929, raccolta di poesie di Benjamin Péret e Louis Aragon, 1929 (Parigi, Centre Pompidou, Bibliothéque Kandinsky)
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Eli Lotar, Aux abbattoirs de la Villette (1929; stampa alla gelatina ai sali d’argento, 30,4 x 52 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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Jean Painlevé, Pince de homard ou De Gaulle (1929; stampa alla gelatina ai sali d’argento incollata su cartone, 62,7 x 50,4 cm; Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’art moderne)
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L’impressione che si ricava dalla visita a Palazzo Blu è quella d’aver percorso le sale d’una mostra che, in partenza, non si può annoverare tra le più semplici per un pubblico non specialista, ma che, nel tentativo d’ideare un percorso organico e d’adattare il proprio linguaggio, dà vita a un insieme che risulta piuttosto disarticolato e poco agevole da seguire. E non si può neppure dire che la mostra sconti la difficoltà, comune a molte esposizioni allestite con opere provenienti da un unico museo, di non aver materiale sufficiente per proporre al pubblico una mostra completa: il Centre Pompidou detiene quella ch’è probabilmente la collezione surrealista più importante del mondo e tra le sue mura sono custodite opere e documenti in grado d’assolvere al compito di descrivere gli eventi occorsi nel 1929. Ad avviso di chi scrive, si tratta semmai di problemi d’impostazione. Due esempî su tutti: il fatto che l’introduzione sia seguita da un balzo d’alcuni anni, che porta già il pubblico all’interno degli eventi del 1929 senza che prima si fornisca un’inquadratura storica graduale, e l’ingombrante presenza di Picasso, che in mostra pare quasi forzata perché non sufficientemente contestualizzata e adeguatamente approfondita. Non mancano comunque spunti degni di nota positiva: su questo versante, è sicuramente possibile menzionare l’attenzione riservata alla vicenda del Grand Jeu, certo poco nota in Italia e che registra un crescente interesse da parte degli studiosi, e la sezione conclusiva sulla rivista Documents, probabilmente la più completa della rassegna.
Nel complesso, si ha la sensazione che 1929: il grande surrealismo dal Centre Pompidou. Da Magritte a Duchamp rappresenti un’occasione che non è stata sfruttata pienamente: un’occasione, perché Palazzo Blu, in maniera intelligente, ha evitato di proporre una mostra che sembrasse preconfezionata e i curatori hanno ideato un progetto molto valido sulla carta, ma che parrebbe non esser stato seguito da una messa in pratica efficace. Una mostra con opere provenienti da un unico museo, e per di più da uno dei musei più noti e studiati al mondo (quindi, in breve, una mostra che difficilmente potrà essere oltremodo innovativa, ma che può comunque proporre delle letture affascinanti), dovrebbe puntare soprattutto sul progetto divulgativo, ma se quest’ultimo risulta difficile da seguire, la rassegna ne risulterà penalizzata. Simili considerazioni potrebbero esser riservate al catalogo: i brevi saggi che dividono le sezioni forniscono un’ottima inquadratura storica per un pubblico che desidera essere introdotto al surrealismo nel 1929, ed è molto interessante l’idea di fornire una piccola antologia di scritti di surrealisti, ma l’assenza di schede per tutte le opere (e, laddove presenti, si tratta comunque di citazioni da pubblicazioni precedenti), l’abbinamento spesso poco calzante tra opere e saggi (opere che, peraltro, non seguono l’ordine in cui si trovano esposte nelle sale) e la totale assenza d’una bibliografia contribuiscono a indebolire la qualità complessiva del volume.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).