Se c’è una cosa da lodare e ammirare in Luca Beatrice, il curatore della mostra Andy Warhol. Pop Society in corso al Palazzo Ducale di Genova, è la sua perseverante e coraggiosa tenacia. E questa tenacia si sostanzia nei tentativi in cui il nostro si prodiga per presentare la sua esposizione come una mostra originale, nuova, insolita: questa ostinata difesa dell’originalità è l’assunto base di ogni sua intervista o intervento sulla rassegna di Palazzo Ducale, oltre che il punto principale attorno al quale gira il suo saggio in catalogo, nonché il preambolo con cui Beatrice introduce il pubblico alla mostra nell’immancabile audioguida (e vale la pena sottolineare che il visitatore che sceglie di avvalersi dello strumento, incluso nel biglietto, avrà il piacere di trascorrere tutto il percorso della mostra con la voce dello stesso Beatrice che lo guida tra le opere). “Non è una mostra come le altre”, ci dice. “Non è la solita mostra su Andy Warhol”, continua a ripeterci. Nice try, Luca Beatrice. Perché Andy Warhol. Pop society è esattamente la solita mostra su Andy Warhol. E, intendiamoci, non ci sarebbe assolutamente niente di male ad allestire una mostra originale come un panino al prosciutto ma basata su un buon progetto divulgativo, anche perché Andy Warhol è un artista che, sebbene tutt’altro che facile, si vende benissimo anche senza dover ricorrere a particolari stratagemmi. L’importante è parlar chiaro al pubblico.
Benvenuti a “Andy Warhol. Pop society” (tutte le foto, tranne dove diversamente specificato, sono nostre) |
Anche perché Andy Warhol. Pop society parte molto bene. Il visitatore, infatti, viene subito investito in apertura dalle icone di Marilyn, di Mao e di Jacqueline Kennedy, tra le più riconoscibili e significative della produzione warholiana, che mettono in chiaro quale sia il concetto fondamentale dell’estetica dell’artista statunitense: “una rappresentazione artistica fondata su due principî assoluti, oggettività e ripetizione”. Questo recita l’introduzione della prima sezione della mostra, dedicata alle icone. Che cos’è però quell’icona pop che dovrebbe essere soggetto e filo conduttore di questa prima di sei parti, ognuna delle quali contraddistinta da una diversa direttrice visiva? In altri termini, qual è il processo che fa sì che i ritratti, a cui è dedicata invece la seconda sezione, trascendano e si facciano icone? La mostra, in questo senso, non è affatto chiara, tanto che (giusto per fare un paio d’esempi) nella sezione dei ritratti compaiono riferimenti alla meravigliosa serie Ladies and gentlemen le cui stampe, a Palazzo Ducale, vengono però promosse al rango d’icone e inserite subito assieme a Marilyn, a Mao, a Jacqueline e al segno del dollaro, mentre il celebre ritratto di Liza Minnelli, tanto potente da essere paragonato (anche in mostra) all’altrettanto potente divano surrealista di Salvador Dalí, appare attorniato da un nugolo di comprimari che scalfiscono l’importanza dell’opera.
Se tocca dar credito alla lettura di Jane Daggett Dillenberger, compianta storica dell’arte di Berkeley, secondo la quale l’arte di Andy Warhol è fondata su un sostrato religioso particolarmente profondo (la famiglia era di tradizione cattolica bizantina e in tutte le stanze di casa Warhola - questo il vero cognome dell’artista, poi americanizzato in Warhol - erano presenti icone), il fatto che, per l’arte bizantina, l’immagine fosse strumento di mediazione tra il credente e la divinità, finisce con l’avere un peso notevole nell’estetica del grande artista di Pittsburgh. Tanto che a certe icone warholiane sono attribuiti segni fortemente simbolici: l’oro del viso di Marilyn (nell’arte bizantina l’oro è simbolo di eternità), l’espressione di Jacqueline Kennedy subito dopo il fatale attentato al marito in Nine Jackies, opera che diventa una sorta di Passione pop, oppure ancora il risalto conferito alle labbra di Liza Minnelli (il bacio dell’icona, nei rituali bizantini ma anche in certe dimostrazioni di fede cattolica romana, si pensi all’ostensione del reliquiario di san Gennaro a Napoli, è modo per entrare in contatto con la divinità). A una mostra pensata per un grande pubblico non si chiede certo di approfondire un aspetto dell’arte di Warhol che peraltro è piuttosto controverso e ha iniziato a essere oggetto d’indagine della critica da non molto tempo (plauso comunque a Carlo Freccero che nel meritevole saggio in catalogo accenna alla tematica), ma ci si aspetta, quanto meno, che non ci sia quella confusione che sembra invece essere, almeno nelle prime sezioni, il leitmotif dell’esposizione.
Le icone di Marilyn e Mao a inizio mostra |
La sala con la serie “Ladies and gentlemen” |
Ad accrescere questa sensazione di trovarsi in un calderone confuso c’è anche la bizzarra scelta di inserire, nel percorso che dovrebbe essere riservato alle icone, i lavori più sperimentali, e allo stesso tempo meno noti, di Andy Warhol: uno dei piss painting, ironica risposta all’action painting di Pollock, e il chocolate painting. Che, peraltro, in mostra compaiono insieme a un’icona celebrata come la lattina di zuppa Campbell (sono a pochi centimetri di distanza sulla stessa parete) e nella stessa sala in cui il pubblico può osservare le celeberrime Brillo Box (il riferimento ad Arthur Danto, filosofo e critico che più di ogni altro ha analizzato quest’opera assolutamente centrale nel percorso warholiano e vero spartiacque dell’arte pre-Warhol e post-Warhol, è del tutto dovuto, e infatti l’incombenza di citare Danto - nell’audioguida - viene assolta, benché in modo piuttosto superficiale). La volontà di mostrare un Andy Warhol poco conosciuto è del tutto lodevole, ma allo stesso tempo incoerente con le linee guida che vengono fornite al pubblico: sembra quasi che il curatore abbia avvertito l’esigenza di dire al visitatore “sai, Warhol non è solo l’artista delle Marilyn e dei barattoli di pelati” e che, preso dall’urgenza di mostrargli qualcosa che potesse dimostrare tale assunto, abbia buttato alla sans façon un paio di opere in uno spazio che era rimasto casualmente vuoto. Anche perché le opere meriterebbero d’essere approfondite, e non solo in quanto rivelatrici di connessioni con il primo vero movimento artistico interamente americano della storia dell’arte occidentale, l’espressionismo astratto, ma anche in quanto interessanti dimostrazioni di quell’ambiguità di fondo che ha caratterizzato tutta l’opera di Andy Warhol, artista complesso, paradossale e contraddittorio. Perché dei piss painting (o, per usare una terminologia più politicamente corretta, oxydation painting) sono state date letture opposte: per Rosalind Krauss sono opere che intendevano stemperare la violenza delle immagini di Pollock, mentre per altri si tratta semplicemente di dipinti canzonatori, il cui unico fine è quello di fare il verso alle opere degli espressionisti astratti.
Della sezione che segue, dedicata ai ritratti, s’è fatto sopra un breve cenno: è la parte sicuramente meno interessante dell’intera rassegna, ma ci sono due momenti particolarmente esaltanti che innalzano il livello della mostra e su cui vale la pena scrivere due parole. Il primo è il ritratto della madre, Julia Warhola (nata Júlia Justína Zavacká), che ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita di Andy: lo seguì poco dopo che l’artista lasciò la natia Pittsburgh per trasferirsi a New York, condivise con il giovane figlio le difficili fasi iniziali della nuova vita newyorchese, fu per lui una costante fonte d’ispirazione, dal momento che usava dilettarsi in piccoli lavori creativi (pare che Andy Warhol avesse tratto l’ispirazione di eternare le famose lattine di zuppa dal fatto che alla madre piaceva realizzare dei fiorellini con la latta dei barattoli usati), e dopo che l’artista conobbe il successo fece anche da comparsa in alcuni dei suoi film. In sostanza, attraverso il ritratto della madre entriamo in contatto con l’Andy Warhol più privato e quindi, forse, con quello più impenetrabile: veniamo trasportati in una dimensione totalmente diversa rispetto a quella delle icone e dei ritratti delle celebrities del tempo, e la scelta di inserire l’opera quasi in disparte, in un angolo poco illuminato, è una delle più intelligenti di tutto il percorso espositivo e rende sicuramente merito a un ritratto pregno di significato. Il secondo momento esaltante è invece di segno totalmente opposto: alla fine di un lungo corridoio tappezzato d’altri ritratti ci attendono infatti quattro effigi di Mick Jagger alle quali, mancando in mostra la banana dei Velvet Underground, tocca il gravoso compito di esplicitare il fecondo rapporto tra Andy Warhol e la musica. Queste opere sono interessanti non solo per il loro significato intrinseco e per il fatto che lasciano adito a mille considerazioni su di un personaggio che, dopo aver rivoluzionato il mondo della musica, era entrato di prepotenza a far parte del jet set internazionale, ma anche perché all’epoca (siamo alla metà degli anni Settanta) Andy stava sperimentando una tecnica nuova, e qui possiamo apprezzarla benissimo: il ritratto viene costruito con pezzi di carta strappati e applicati sulla superficie in modo da dare alla composizione la parvenza di un collage artigianale.
La sala con le Brillo Box |
La sala col ritratto della madre (l’ultimo a destra). Foto tratta dal materiale stampa della mostra. |
I ritratti di Mick Jagger |
Se la terza sezione della rassegna, dedicata alla pubblicità, scorre un po’ a fatica (è la più noiosa e sicuramente la più incompleta di una mostra che, in fondo, è divertente e scivola benissimo), il vero capolavoro di Andy Warhol. Pop society, nonché una delle principali ragioni per entrare a Palazzo Ducale, può essere considerata la sala dedicata ai disegni. Il visitatore, qui, troverà delle perle inaspettate in grado di fornire un ritratto a tutto tondo di Andy Warhol, forse ancor più di quanto non riesca l’intera mostra messa assieme. Ci sono alcuni studi di gioielli disegnati negli anni Cinquanta, quando Andy era un giovane illustratore per riviste di moda che cercava faticosamente di costruirsi una carriera. C’è uno dei disegni che ricalcano le fotografie di Wilhelm von Gloeden, artista tedesco che si attirò non poche grane per le sue immagini di nudo maschile (e ovviamente il fatto che Andy nutrisse un certo interesse per le fotografie di von Gloeden non fu che uno dei motivi che alimentarono speculazioni sulla sua sessualità). Ci sono gli autoritratti, ci sono i disegni di animali (tra cui quello di un gatto, e vale la pena sottolineare che Andy Warhol aveva un debole per il piccolo felino domestico: nel loro appartamento di New York, lui e sua madre tenevano una dozzina di gatti, che si chiamavano tutti Sam... immaginiamo la confusione quando dovevano chiamarne uno), ci sono i disegni preparatori per un’icona come il Dollar Sign, e ci sono anche, in un paio di teche, i libri illustrati, tra cui quelli per i bambini. Un Andy Warhol sicuramente poco conosciuto che vale la pena approfondire. Peccato solo che, in mostra, i disegni siano stati messi su due registri, con quello superiore a più di due metri d’altezza, il che rende disagevole la lettura.
Sulla quinta sezione, dedicata al rapporto tra Andy Warhol e l’Italia, c’è da fare un discorso a parte, dacché trattasi di uno dei due poli attorno ai quali ruota l’intera esposizione, per dichiarazione stessa del curatore in apertura di percorso. L’altro, per inciso, è l’influenza di Andy Warhol sul nostro presente. Che vuol dire tutto e niente, perché a seconda di come si legge l’intenzione di esplicitare il ruolo dell’artista per noi che viviamo nel ventunesimo secolo, si potrebbe affermare che l’obiettivo è stato centrato, e allo stesso tempo che è stato disatteso: se si intuisce abbastanza facilmente come Andy Warhol sia riuscito a rendere l’arte (cito dal saggio in catalogo di Luca Beatrice) “un linguaggio popolare”, che “non è necessario proteggerla in una torre d’avorio” e che un’immagine, “per bucare l’indifferenza generale e l’apatia a cui siamo assuefatti fin dall’imporsi della società dei media negli anni Sessanta, può essere ripetuta per un numero infinito di volte”, diventa invece più ostica la comprensione dell’influenza “palpabile nel nostro presente e ben lungi dal considerarsi esaurita” di Andy Warhol sul cinema, sulla moda, sulla televisione, sulla musica, sull’editoria. La mostra, in altri termini, ha qualche difficoltà di troppo nel rispondere in modo esauriente ad alcune domande come “perché e in che modo Andy Warhol ha avuto e continua ad avere un’influenza così vasta sul nostro presente”, oppure “perché l’arte contemporanea così come la intendiamo inizia da Andy Warhol” (ribadisco: Arthur Danto, in mostra, viene solo citato in modo parecchio sbrigativo). Tornando invece al rapporto tra Andy Warhol e l’Italia, è interessante l’idea di aprire subito la sezione con i riferimenti all’antico nella produzione warholiana (il Cenacolo di Leonardo e la sant’Apollonia di Piero della Francesca rimandano alla secolare tradizione che vuole l’Italia e lo studio dell’arte italiana un passaggio obbligato per gli artisti di ogni latitudine), ma il discorso diventa presto affastellato e inconcludente dal momento che si passa, a stretto giro e in rapida sequenza, ai ritratti di Armani e di Amelio, alle immagini del Vesuvio, ai ritagli di giornale. La curiosità di sapere che Andy Warhol tornò a più riprese in Italia e che ebbe a che fare con il nostro paese è del tutto soddisfatta, ma non si va molto più in là.
Del tutto inutile invece l’ultima sezione, dedicata alle polaroid: è vero che ormai non c’è mostra su Andy Warhol senza che venga proposta una sfilza di polaroid (poco importa se poi manca un’organicità e la colata di fotografie è poco coerente col percorso dell’esposizione: basta che il visitatore sappia che Andy Warhol aveva la mania di premere in continuazione il pulsante del suo apparecchio fotografico), ma se la sezione è infilata a forza nel contesto della rassegna, e se oltretutto, per infilare a calci nella mostra la sezione sulle polaroid, si deve usare violenza a un ambiente come la Cappella del Doge, è già tanto se non volano le imprecazioni. I sontuosi e intatti affreschi di Giovanni Battista Carlone sono stati infatti resi totalmente illeggibili da un trabiccolo d’acciaio che copre l’ambiente quasi per intero: e se a Bologna l’accrocchio con cui Goldin aveva praticamente oscurato, a Palazzo Fava, gli affreschi dei Carracci per mostrare la Ragazza con l’orecchino di perla, si era guadagnato indignazione pressoché unanime, cosa si dovrebbe dire di questo montante da peso massimo assestato a uno dei maggiori frescanti che operarono a Genova nel Seicento? Così, se si era usciti dalla sezione precedente con l’intento di dare un voto tutto sommato sufficiente all’esposizione, quest’ultima sorpresa, inutile e sgradevole (anche alla luce del fatto che i dibattiti museografici più recenti vertono su come rispettare gli ambienti storici, specie se decorati, e non sui modi più creativi per prenderli a pattoni), fa propendere per la bocciatura.
La Cappella del Doge: in alto col trabiccolo per le polaroid, in basso vuota (la seconda foto è stata scattata durante la mostra Dagli impressionisti a Picasso dello scorso anno: i curatori allora avevano lasciato libera la Cappella) |
Prima di concludere, una doverosa nota sul catalogo. I saggi sono tre, e di due s’è fatto cenno sopra: quello di Luca Beatrice è un’onesta introduzione che ci racconta a grandissime linee la figura di Andy Warhol. Quello di Carlo Freccero, il più interessante del lotto, si focalizza invece sul ruolo dell’immagine all’interno della filosofia warholiana. Di quello di Maurizio Ferraris, invece, avremmo fatto molto volentieri a meno. E non solo per il titolo (Warhol e la Grande Bellezza, un lampo di originalità) e per il fatto che si tratta di un contributo piuttosto sconclusionato, ma anche perché contiene un’interpretazione parecchio disinvolta di un testo fondamentale come La trasfigurazione del banale di Arthur Danto, a cui viene attribuito il presunto “errore” (il termine è di Ferraris) di aver considerato la Brillo Box come un ready made. Ovviamente Danto non era uno sprovveduto, ovviamente il filosofo statunitense sapeva bene quali fossero le differenze tra le opere di Warhol e quelle di Duchamp, e ovviamente ne La trasfigurazione del banale non c’è traccia di questo errore, anzi: alla Brillo Box, Danto si riferisce con termini come artifact e facsimile che già includono la negazione del concetto stesso di ready made. Meno ovvio è capire perché Ferraris si sia lanciato in tale spericolata esegesi del saggio di Danto.
Andy Warhol. Pop society lascia, in sostanza, un po’ di delusione, se teniamo conto delle grandi aspettative di cui si diceva in apertura, quelle che il curatore infonde nei cuori dei visitatori che immaginano di trovarsi immersi in una mostra mai vista prima, e che dovranno invece contentarsi di un’operazione non troppo dissimile da quelle che si sono viste negli anni scorsi a Pisa, a Milano, a Roma. Ci si può sempre consolare con i disegni. E ovviamente, per chi ha sviluppato una grande passione per Andy Warhol, l’idea di vedere esposte diverse delle principali opere dell’artista statunitense è comunque un richiamo a cui non è possibile resistere. Per gli appassionati vale la pena visitarla, senza ombra di dubbio. Poi, la rassegna è abbastanza buona per chi non conosce affatto l’arte di Andy Warhol e desidera ricevere un’ampia infarinatura, con qualche approfondimento molto interessante qua e là, ma sempre tenendo a mente che anche sotto il profilo divulgativo il percorso è piuttosto confuso. E comunque, per fregiarsi del titolo di “mostra diversa dalle altre”, la strada è ancora decisamente lunga.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).