La Pinacoteca Nazionale di Bologna nel suo dovizioso patrimonio detiene l’asse storico-artistico del pulsare della Città, e ultimamente si è aperta a iniziative luminose di straordinaria vivezza in relazione a ricorrenze importanti o ad avvenimenti capaci di richiamare certamente tutto l’interesse pubblico. Il merito va alla direttrice Maria Luisa Pacelli e agli eccellenti studiosi che ella coinvolge saggiamente ad ogni traguardo prevedibile.
Oggi è di altissimo grido il passaggio, che diremmo trionfale, del Ritratto di Giulio II eseguito da Raffaello al momento ascendente della sua folgorante carriera (1512) quando il Papa-Re (com’è davvero il caso di dirlo) già gli aveva consegnato le Stanze del Palazzo Apostolico perché attraverso gli affreschi le rendesse il paradigma stesso delle verità della Fede, del cammino che l’umanità deve compiere nel transito verso l’infinito, e della guida insostituibile del Pontefice romano alla prora della navicella di Pietro.
L’evento di avere in Bologna un autografo così raro per il soggetto e per la forza esecutiva si deve al rapporto della Pinacoteca con la National Gallery di Londra e al precedente scambio con la pala dell’Estasi di Santa Cecilia che il maestro urbinate aveva eseguito tra il 1515 e il 1516 su richiesta della nobildonna bolognese poi beata Elena Duglioli, per una cappella in San Giovanni in Monte. Questa pala, conservata nella Pinacoteca Nazionale, costituisce il fulcro dimostrativo del pieno rinascimento in Emilia e oggi (accanto al ritratto di Giulio II) serve mirabilmente a rendere sfolgorante la presenza nella mostra del divino Raffaello Sanzio. Il tesoro di lettura che offre l’Estasi celestiale di Santa Cecilia non deve andare perduto durante la visita all’ala rinascimentale della Galleria, dove è ospitata giustamente la rassegna, ma ricondotto al vicinissimo e pungente impegno del pittore sopra un soggetto pienamente umano, denso egualmente di implicazioni anagogiche.
Dobbiamo allora affrontare il ritratto “londinese” nella sua funzione e nelle sue contenenze. Grazie al genio raffaellesco siamo di fronte fisicamente a Giuliano, il duro prelato della famiglia savonese Della Rovere (1443-1513) che aveva lottato dapprima contro la sua modesta origine, e che poi, fatto cardinale dallo zio Sisto IV (1471), si coinvolse in mille intrighi politici, ecclesiastici, militari, tra Italia e Francia. Passò tra l’altro gli anni dal 1483 al 1502 come vescovo titolare di Bologna, ma nel contempo a Roma si fece oppositore dei comportamenti di Alessandro VI (papa Borgia) finché egli stesso (dopo Innocenzo VIII e Pio III, suoi creati) fu eletto papa col nome di Giulio II. Tenne il pontificato per dieci anni (1503-1513) senza mai tralasciare tutti gli interessi terrestri che sempre lo avevano circondato. Militarmente nel 1506 aveva riconquistato Bologna dalla signorìa dei Bentivoglio, e qui aveva chiamato nientemeno che Michelangelo per farsi modellare in una superba figura bronzea di benedicente, che poi verrà distrutta. In città peraltro il pontefice aveva chiamato pure il Bramante per certe architetture che non ebbero seguito pieno. Precedentemente (1494) il Buonarroti aveva realizzato tre piccole ma scotenti statue in marmo qui in Bologna nell’Arca di San Domenico: il San Pròcolo, l’Angelo reggicero, e il San Petronio con la dedicatio urbis. Sono opere assolutamente da non dimenticare visitando la “nuova stagione del Rinascimento a Bologna” come dice puntualmente il titolo di questa mostra.
L’affronto iconografico col Giulio II di Raffaello ci costringe ad un dialogo serrato col personaggio che, al di sopra del proprio tormentato vissuto tra fatti e misfatti, decise con volontà indefettibile che l’ Urbe pontificia, la città sul Tevere, doveva tornare ad essere la capitale del mondo, magnifica e solenne come l’antica Roma imperiale. Giulio chiese il massimo ai tre Geni che il destino gli procurava. Al Bramante fece iniziare il nuovo San Pietro, di una imponenza e maestà senza pari. Da Michelangelo ottenne la sovrumana affrescatura della volta della Cappella Sistina e i marmi imperituri che avrebbero dovuto testimoniare la sua tomba: l’eternale Mosè, e i ciclopici “Prigioni” che affrontano lancinanti l’oppressione della materia. A Raffaello affidò il ciclo parietale delle celebri Stanze, come già detto, dove la meditazione, l’ingegno, il genio mensurale e figurale del Sanzio compongono la bilancia ineffabile dell’unica verità, umana e divina che porta al centro l’Uomo come capolavoro e protagonista della creazione: tutto questo indicato dal mirandus juvenis che nel suo abito bianco ci guarda dalla Scuola di Atene.
La lettura più fattuale del Ritratto di Giulio II può iniziare dalle stesse misure (108 x 81 cm), insolite nella tradizione italiana, che Raffaello sceglie come adeguate ad un ritratto palatino, ossia da tenere esposto in una sala da ricevimento, e in ogni caso pieno testimone storico del protagonista. Il pittore stesso confermerà e amplierà tale metro e tale ruolo nel ritratto del successore Leone X con due cardinali (1519). Anche il Correggio (1520) coglierà questa scelta di grande misura nello stupendo Ritratto di Veronica Gàmbara, ora all’Ermitage. La volontà di Raffaello è quella di darci la presenza pressoché reale del pontefice: un contatto indimenticabile con lui, la cui corposità viene portata vicinissima al “quadro visivo”, tanto che il taglio stringe la figura ed esclude le parti inferiori. Questa manovra di accostamento è accentuata dalla postura diagonale del pontefice e dà la sensazione immediata quasi di un accomodamento appena effettuato verso il visitatore; a questo concorrono quelle mani protese in avanti e mosse in modo sciolto, casuale e quantomai spontaneo. Un ritratto con le mani dunque, come voleva Leonardo, e dai pochissimi elementi di richiamo: tra questi le ghiande dorate dei montanti posteriori del semplice seggio che segnalano la casata del Pontefice ma che compositivamente inquadrano il suo volto in modo perentorio. Ecco il ritratto veritiero del terribile papa che porta in capo un leggero camàuro: il suo viso compare ristretto tra il copricapo e la barba cosicché i suoi lineamenti e la sua espressione risaltano pienamente e ne fanno (come volle Raffaello) il punto assoluto dell’immagine. Ed è il pensiero del protagonista, tutto concentrato in un momento di meditazione, che pone a noi lo scavo per intuire, per captare che cosa fermenti nella mente di questo uomo dal potere così grande. Merito indubbio del pittore è l’aver tralasciato ogni insegna pontificale e altri attributi di censo (il trono, il triregno, i paramenti) per darci un vero e rude responsabile della storia acquietato in una cogitazione silente, ma forse protesa ad atti di sicura valenza, qui virtualmente affidati all’energia prensile della mano sinistra con l’instabile “loquela digitorum”. Un indimenticabile ritratto del pensiero.
In questa tavola vibrante troviamo una scelta cromatica decisamente ridotta: l’impressionante e totale cura esecutiva, tipica di Raffaello, qui non si concede agli arpeggianti accordi colorati di tante sue opere famose ma costringe il pontefice seduto su tre soli pigmenti dominanti: il rosso della mozzetta e del camàuro, il bianco del rocchetto, e il verde cupamente ramezzato del fondo. Un “impromptu” pittorico memorabile che fa vivere e sostiene gli incarnati e gli ori.
La mostra si amplia in una avventura gioiosissima che abbraccia, come dice il titolo, il Rinascimento a Bologna. La città felsinea fu sempre un privilegiato luogo d’incontro delle arti come dimostrano i secoli dell’età di mezzo e come dimostra in particolare il suo vibrante secolo XV. Nel passaggio ai primi anni del Cinquecento sfilano (se così possiamo dire) con le loro colorate creazioni i grandi maestri ferraresi: Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti in primo luogo; poi con le loro tavole ospitate in Galleria qui cantano le loro placate melodie i mirabili bolognesi Francesco Francia e Lorenzo Costa; i grandi arrivi del Perugino, del Garofalo, di Filippino Lippi, e pure di Cima da Conegliano. A questi rispondono i controcanti dell’inquieto Aspertini, sempre dialettico e attraente, ma pure energetico e monumentale. Ecco la “nuova Bologna” che merita di essere riscoperta come centro pulsante del Rinascimento. La mostra riversa una sorprendente preparazione all’arrivo di Raffaello: una corte di artisti che già avevano caratterizzato l’epoca avanzante della “maniera moderna”.
Nel 1513 giunge in città, come sole sfolgorante, la pala con L’estasi di Santa Cecilia, un autografo di sommo impegno di Raffaello, testimone del raggiungimento compiuto del nuovo eloquio umanistico-teologico, basato su una tecnica pittorica di altissima caratura, su una composizione multipla e prensile, e sul quel coinvolgimento di animosità celestiale che tocca l’animo dell’ammiratore credente. La sua esecuzione segue di poco il Ritratto di Giulio II e dimostra la vastità interpretativa del Sanzio, sempre profondamente impegnato sui diversi soggetti. La pala fu destinata in San Giovanni in Monte alla cappella della beata Elena Duglioli, cittadina bolognese che aveva esemplato il proprio vivere virtuoso sulla figura della martire Cecilia. Il dipinto ebbe da allora un ruolo determinante sul classicismo bolognese del secolo XVI.
All’indiscusso vertice della presenza raffaellesca, che offre l’appagamento ammirabile e la partecipazione estatica, nel mondo pittorico bolognese fecero seguito le opere di stimabili artisti, fatalmente coinvolti come animosi seguaci del cantico del maestro. Fra questi la mostra espone diversi grandi lavori dell’ottimo Innocenzo da Imola, di Francesco Zaganelli, di Girolamo Marchesi da Cotignola; e ancora di Girolamo da Ferrara (detto “da Carpi”), di Sebastiano Serlio e Girolamo da Treviso; e pure del renitente Amico Aspertini saporosamente legato al proprio forte individualismo. L’orizzonte culturale si apre così verso gli importanti cantieri bolognesi del Cinquecento e verso la ricezione di stimoli ormai nazionali: un merito espositivo quantomai apprezzabile.
Il momento di sacralità problematica, eppur segnata da sublime bellezza, lo offrono quasi al termine della mostra le due tavole di Francesco Mazzola, detto il Parmigianino: la prima la Madonna col Bambino e santi eseguita a Bologna dove l’artista si fermò tre anni in fuga dal sacco di Roma, dal 1527 sino al 1530. Il giovane e geniale pittore parmense si era portato a Roma e fu considerato il Raffaello redivivo, ma ebbe esistenzialmente una sorte non benigna. A Bologna trovò una certa pace e molto lavoro, sia come incisore sia come pittore: di lui in città si devono ammirare il San Rocco e il donatore nella basilica di San Petronio, insieme alla famosissima pala sopracitata. Qui “un nuovo universo formale di sensibilità, eleganza e grazia” riceve ogni acclamazione per l’altissimo livello qualitativo. Stesso giudizio per l’indimenticabile Madonna di San Zaccaria completata probabilmente a Parma ma su committenza bolognese. Poiché il Parmigianino portava, pur con il suo stile precipuo, le arie correggesche della città natale, non sarà inutile ricordare che il rinascimento a Bologna avrebbe conosciuto un altro arrivo emozionante: il Noli me tangere del Correggio tra il 1523 e il 1524 nel Palazzo dei Conti Hercolani. Forse questo capolavoro, che induce strettamente alla successiva immensa diffusione della Scuola emiliana, verrà a Bologna il prossimo anno.
Un disegno storico di Biagio Pupini chiude la mostra con lo stigma dell’incoronazione di Carlo V a Bologna come Sacro Romano Imperatore per mano del Papa Clemente VII, significando così la pace tra le due corone. A quel tempo la sede prescelta consacra la città felsinea come capitale più nobile dello Stato della Chiesa.
Oggi l’eccezionale occasione che si apre verso miriadi di visitatori ha chiamato a nuovi impegni e alla perfetta divulgazione celebri studiosi e le due grandi forze culturali della città nel campo dell’arte, ossia l’Alma Mater Studiorum e l’Accademia di Belle Arti. Lo smagliante catalogo Silvana è un vero patrimonio culturale e si avvale di alti contributi: la fresca e fondamentale introduzione di Maria Luisa Pacelli; il forgiato e potente ritratto di Giulio II nella esplicazione di Elena Rossoni; il capitolo storico di Massimo Rospocher. Riguardo agli studi sulle opere in catalogo ecco la magistrale e inesauribile sapienza di Daniele Benati, accompagnato da Mirella Cavalli, Giacomo Alberto Calogero, Giovanni Sassu e ancora Elena Rossoni. Ottimi gli approfondimenti di Massimo Medica, Alberto Dimuccio e Elisabetta Polidori. Molto apprezzata la collaborazione alla Mostra dello “Studio ESSECI - Sergio Campagnolo”, e in particolare di Simone Raddi.
L'autore di questo articolo: Giuseppe Adani
Membro dell’Accademia Clementina, monografista del Correggio.