di
Fabrizio Federici
, scritto il 11/03/2021
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Pompei - Campania - Archeologia
Due mostre a Roma, una sui rapporti tra Roma e Pompei e l'altra sull'archeologia romana in epoca napoleonica, ci consentono di approfondire il rapporto tra antico e moderno e riflettere su cosa si sta facendo oggi. Arena del Colosseo inclusa.
Mentre i lapilli e le ceneri del Vesuvio sommergevano Pompei, a Roma si avviavano alla conclusione i lavori per la costruzione del Colosseo. Prende spunto da questa coincidenza l’idea di allestire sotto le arcate dell’anfiteatro una mostra che ripercorre quattro secoli di rapporti tra l’Urbs e la città campana (Pompei 79 d.C. Una storia romana, fino al 9 maggio 2021). Una mostra di grande rigore scientifico (nella sua ideazione ha avuto un ruolo di primo piano l’archeologo Mario Torelli, recentemente scomparso), da cui il visitatore può apprendere molto: innanzitutto che Pompei non è semplicemente la “città romana” sepolta dal Vesuvio, ma un centro dalla storia lunga e complessa, con una forte identità locale (testimoniata dall’uso della lingua osca) e con un’interazione non sempre pacifica con Roma, che vide anche momenti di aperto scontro, come durante la Guerra Sociale, in cui Pompei fu assediata e conquistata dai Romani (89 a.C.). Emergono bene, dal percorso espositivo, le somiglianze tra le pratiche sociali e le manifestazioni artistiche nel piccolo centro campano e nella grande capitale, che naturalmente esercitò una notevole influenza su tanti aspetti della vita nelle città vesuviane. E altrettanto bene emergono le differenze: in provincia il lusso (luxuria) ha modo di esprimersi con maggiore libertà anche a livello privato (si vedano edifici-simbolo come la Villa dei Misteri e la Casa del Fauno), mentre a Roma il lusso è approvato solo se destinato alla dimensione pubblica (magnificentia); a Pompei scarseggia (e trionfa invece nella Roma imperiale) la decorazione degli interni con marmi colorati, ai quali si preferiscono i più economici affreschi.
Lo spettatore ha dunque la possibilità, come si diceva, di apprendere molte cose, ma può anche ‘rifarsi gli occhi’, perché i reperti esposti sono davvero splendidi: sia quelli provenienti da Pompei e dal Museo Archeologico di Napoli (dai frammenti di un fregio fittile con scattanti cavalieri, degli inizi del III sec. a.C., posti in apertura, al noto mosaico con fauna marina, dalla Casa del Fauno, alla parete in stucco policromo, rinvenuta nella Casa di Meleagro), che quelli che illustrano la scena romana (dal marmoreo ritratto di Augusto delle Terme di Diocleziano, ritrovato in una villa in zona Lunghezzina II, ai marmi policromi della cosiddetta Domus del Gianicolo).
Chiude il percorso espositivo la rievocazione della tragica fine di Pompei. Una conclusione che solleva qualche problema. Innanzitutto perché trattasi di una calamità naturale che nulla aggiunge a un racconto sui rapporti tra Pompei e Roma, e d’altra parte è chiaro che è difficile sottrarsi all’‘obbligo’ di mettere in scena un passaggio tragico e spettacolare che i visitatori si aspettano di vedere illustrato in qualunque rassegna sulla città campana. Vi è poi un problema legato al modo in cui questa messa in scena avviene: i terribili momenti dell’eruzione sono ricostruiti in un video ben fatto, davanti al quale sono posti tre dei celebri calchi delle vittime della catastrofe, rivelati verso la fine del video da fasci di luce. I calchi sono sempre più spesso oggetto di spettacolarizzazione: questo è da un lato comprensibile, vista la loro straordinaria drammaticità, e tuttavia non si può trascurare il fatto che abbiamo a che fare, se non proprio con resti umani, con umbrae di vere vite e morti realmente avvenute che meritano pietas ancor prima che sbalordimento. Forse si poteva evitare di esporli alla pubblica curiosità in questa occasione, in cui la loro presenza, in relazione al tema della mostra, appare del tutto superflua. Così come poco pertinente (cosa c’entra con Pompei?) sembra la scelta di segnalare all’esterno la presenza della mostra ‘tamponando’ alcune arcate con teloni su cui sono impresse fotografie di statue antiche, a suggerire l’originario allestimento dell’esterno del Colosseo (sul quale peraltro non abbiamo certezze).
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Allestimenti della mostra Pompei 79 d.C. Una storia romana. Ph. Credit Alessia Cacciarelli
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Allestimenti della mostra Pompei 79 d.C. Una storia romana. Ph. Credit Alessia Cacciarelli
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Allestimenti della mostra Pompei 79 d.C. Una storia romana. Ph. Credit Alessia Cacciarelli
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Statuetta in bronzo di Lare (Trieste, Museo d’Antichità “J.J. Winckelmann”)
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Statua in terracotta di Esculapio (III-II sec. a.C. da Pompei, tempio di Esculapio; Napoli, Museo Archeologico Nazionale)
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Parete in stucco policromo (62-79 d.C.; da Pompei, Casa di Meleagro, tablino 8, parete est; Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 9595)
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Affresco con scena di rissa fra pompeiani e nocerini nell’anfiteatro di Pompei (59-79 d.C.; da Pompei, Casa della Rissa nell’Anfiteatro, peristilio; Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 8991)
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Roma e Pompei
Con la repentina distruzione di Pompei ad opera del Vesuvio la mostra si chiude. Ma non si arrestano i rapporti tra il sito campano e Roma, anche se la mostra non vi fa cenno. Spariscono, è vero, per oltre 1500 anni, ma riprendono con il progressivo riemergere di Pompei ed Ercolano, a partire dalla metà del Settecento. L’impressione prodotta dagli scavi è enorme: per la prima volta l’Antico riappare nella sua purezza, non ‘imbastardito’ da quella plurisecolare pratica del reimpiego che aveva riportato la vita tra le antiche muraglie e ne aveva permesso la trasmissione, seppure a prezzo di pesanti adattamenti. Il rapporto tra le due città campane e Roma è ora invertito, rispetto a quanto viene ricostruito in mostra: non si ha più a che fare con la grande capitale che influenza la vita sociale e culturale di piccoli centri, quanto piuttosto con l’affacciarsi e il graduale affermarsi dell’idea di procedere a una “pompeizzazione” dell’Urbe. Se due cittadine avevano restituito tanti tesori, era lecito attendersi scoperte ben maggiori da un’imponente attività di scavo nel Caput Mundi. Era lecito, e anzi doveroso, riportare indietro l’orologio della Storia alla ricerca di un’irrecuperabile purezza, e liberare i resti antichi dalle superfetazioni e dalle costruzioni limitrofe che li soffocavano. Questo processo non prese avvio immediatamente: i papi erano troppo legati ai concetti di tradizione e di continuità per iniziare a rivoltare Roma come un calzino. Però quando sulla Città Eterna volteggiò l’aquila imperiale di Napoleone, i tempi furono maturi per fare come a Pompei: i francesi erano i portatori del nuovo anche in campo archeologico, e ben poco li interessava la tutela delle memorie cristiane e delle vestigia dei “secoli bassi”.
Archeologia napoleonica
A questo snodo fondamentale della storia di Roma e dell’archeologia è dedicata la mostra Napoleone e il mito di Roma, aperta fino al 30 maggio ai Mercati di Traiano. La scelta dell’antico complesso come sede della rassegna è giustificata dal fatto che l’area della Colonna Traiana e della Basilica Ulpia, adiacente ai Mercati, costituisce lo scenario in cui gli occupanti vollero sperimentare un nuovo modo di intendere il rapporto tra archeologia e città, tra Antico e Moderno. Ai lavori di liberazione della Colonna dagli edifici circostanti, realizzati nel 1811-1812, fece seguito il dibattito sulla sistemazione da dare all’ampio slargo che ne risultò: i progetti elaborati da Giuseppe Valadier (assieme a Giuseppe Camporese), che prevedevano una maestosa piazza, inserita nel tessuto urbanistico circostante, furono accantonati in favore del “museo di rovine” ideato da Pietro Bianchi, antesignano delle moderne ‘fosse’ archeologiche che costellano Roma e tante altre città. In mostra la vicenda degli scavi attorno alla Colonna e della conseguente sistemazione dell’area è ripercorsa attraverso l’esposizione di alcuni progetti (in originale o mediante non sempre impeccabili riproduzioni). Al visitatore vengono così fornite le informazioni basilari per conoscere e inquadrare tale vicenda, senza tuttavia che egli sia messo in grado di apprezzare l’importanza fondamentale che il confronto riveste nell’evoluzione del nostro rapporto con le preesistenze antiche in ambito urbano (impossibile dire se e quanto questo punto sia sviluppato nel catalogo, non ancora disponibile a un mese dall’inaugurazione della mostra). Altrimenti detto, la mostra poteva forse scegliere di adottare un taglio certo meno ‘ecumenico’, ma probabilmente più ficcante, sfrondando le parti più generaliste connesse alla figura di Napoleone, alle sue vicende biografiche e politiche, alla ricostruzione ad ampio spettro dell’occupazione francese di Roma e concentrando l’attenzione sugli aspetti più specificatamente archeologici. Una mostra di sicuro più difficile, ma forse in grado di sposarsi meglio con il contesto che l’accoglie e soprattutto di indurre lo spettatore a riflessioni nuove sul passato e sul presente. Detto questo, molte delle opere esposte sono di grande interesse, così come molto curati sono l’allestimento e l’identità grafica della mostra, dovuti a Wise Design (dell’imponente struttura con cipressi e specchi che occupa la Grande Aula, a ricordare l’amore dei francesi per gli spazi verdi e per le promenades, tuttavia, si poteva probabilmente fare a meno).
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Allestimenti della mostra Napoleone e il mito di Roma
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Giuseppe Valadier e Giuseppe Camporese, Progetto per la sistemazione dell’area a sud della Colonna Traiana (1812; disegno acquerellato; Roma, Accademia Nazionale di San Luca)
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Charles Lock Eastlake, Il Foro di Traiano dopo gli scavi dei Francesi (1820-1830 circa; olio su tela; Roma, Museo di Roma). Ph. Alfredo Valeriani
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François Gérard, Napoleone con gli abiti dell’incoronazione (1805; olio su tela; Ajaccio, Palais Fesch-Musée des Beaux-Arts)
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Aquila del 7° Reggimento Ussari (1804; bronzo dorato; Parigi, Musée de l’Armée)
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Con la sistemazione dell’area della Colonna Traiana si aprì quel processo di riesumazione su vasta scala e isolamento dell’Antico che durò per almeno un secolo e mezzo, raggiungendo l’apice con il Fascismo e la sua idolatria delle rovine. Un processo che se, da un lato, ha apportato enormi progressi sul piano delle nostre conoscenze del mondo classico, dall’altro ha generato quell’idea generalmente accettata delle vestigia antiche come qualcosa di separato dalla contemporaneità che le circonda, di cristallizzato per sempre, di morto. Senza indugio si è imboccata la strada del raschiamento e dell’isolamento della rovina e della morbosa ostensione delle viscere della città (gli intrichi di muretti che emergono qua e là nel tessuto edilizio), scartando e poi dimenticando le proposte progettuali alternative, a cominciare da quelle del già ricordato Valadier, le cui parole, a rileggerle oggi, colpiscono per modernità e lungimiranza. Difendendo nel 1813 le proprie idee per la sistemazione dell’area della Colonna Traiana, il grande architetto chiarisce i motivi che lo spingono a opporsi alla “pompeizzazione” di Roma: ragioni di ordine conservativo (“queste scoperte, ed avanzi restando all’intemperie del tempo, non è possibile di conservarli […]; poiché le acque pluviali, sole, erbette etc., per quanta custodia si avesse, tutto anderebbe a staccarsi, e perire”), ma soprattutto ragioni legate alla necessità di non interrompere la continuità del tessuto della città moderna (“diverrebbe un tutto fra il circondario moderno, e li pochi ruderi antichi assai disgustevole, ed imperfetto, ed altrettanto inconcepibile. Se poi per poco tempo restasse un tal locale trascurato, diverebbe un s[t]erpeto, incompatibile dentro la città per tutti i rapporti”). Valadier cerca di mettere d’accordo “lo scrupoloso mantenimento dell’antico, che io venero al pari di chiunque, ma senza fanatismo” e la vivibilità della città moderna. Per questo, in merito alle aree circostanti alla piazza che avrebbe dovuto circondare la Colonna, poste sotto alle strade moderne, Valadier suggerisce non di distruggere le strade e di allargare il ‘buco’, come si sarebbe fatto in seguito, ma di permettere la convivenza tra antico e moderno, approntando strutture ipogee che consentano la visita ai rinvenimenti (“[…] sotto le strade, e dove occorre continuerei l’escavazione, e facendo delli voltoni sopra a pilastri, per conservare il piano moderno delle strade, manterrei così al coperto tutto il resto del pavimento, e delle altre parti, che potrebbero in tal modo conservarsi per sempre”).
Ritorno al Colosseo
Alla furia demolitrice del piccone fascista hanno fatto seguito decenni di imbarazzata impasse, con gli scavi abbandonati a loro stessi, e chilometri di recinzioni a separarli dalla città vivente. Spazi pubblici inaccessibili, o tutt’al più lasciati al pascolo sfibrato dei turisti. Qualcosa, tuttavia, sembra finalmente muoversi, in direzione di quella ricomposizione dello spazio urbano auspicata da Valadier e di un più compiuto “reinserimento sociale” dell’Antico. Torniamo così al nostro punto di partenza, a quell’Anfiteatro Flavio che ospita la mostra su Pompei e che presto verrà dotato di una nuova arena, destinata a ripristinare il sito a ‘soli’ cento anni (circa) dagli scavi archeologici che distrussero la piazza racchiusa tra le gradinate. La scelta ministeriale di procedere alla realizzazione di una nuova arena è stata oggetto di feroci critiche, all’insegna del misoneismo, del benaltrismo (“ben altro c’è da fare, ben altre le priorità”: come se tutti i problemi del nostro patrimonio culturale dipendessero dai 18,5 milioni di euro stanziati per l’impresa) e del catastrofismo (“ecco, ci faranno le partite della Roma”, “il Colosseo verrà sfigurato”). La costruzione di una ‘copertura praticabile’ dei sotterranei del monumento ha in realtà nobili scopi: legati al proposito di restituire una leggibilità complessiva al sito, alla volontà di proteggere le strutture dei sotterranei e agevolarne la valorizzazione e la divulgazione, attraverso apparati comunicativi e allestimenti che non potrebbero sussistere all’aria aperta, e legati soprattutto all’idea di consentire una fruizione più piena del bene culturale da parte di cittadini e turisti. Il che non vuol dire negare la possibilità di ammirare il Colosseo in sé, come gigantesco, silenzioso, meraviglioso relitto di un’antica civiltà naufragata; ma vuol dire consentire di fruirlo anche in altre maniere, come spazio destinato a lezioni, concerti e, perché no?, ricostruzioni ben fatte di spettacoli gladiatorii. Nell’assoluto rispetto delle strutture antiche.
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Un cartello nei pressi delle Terme di Diocleziano
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Il Colosseo
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Il Ludus Magnus
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Quello dell’arena del Colosseo non è naturalmente che un piccolo aspetto di una complessiva ‘rivoluzione copernicana’ che deve riguardare il nostro approccio al patrimonio archeologico in ambito urbano. Cominciamo intanto con la star dei siti italiani e mondiali, e poi, se l’esperimento darà buoni frutti, si potrà passare a considerare luoghi e strutture di ben altra visibilità. Come, per fare solo pochi passi all’esterno dell’anfiteatro, il Ludus Magnus, la palestra gladiatoria i cui resti versano in una condizione di preoccupante abbandono, infossati e non degnati di uno sguardo dai passanti e dagli automobilisti che scorrono lungo i confini della ‘trincea’ che accoglie le strutture antiche. Sarebbe un sogno vedere quest’area recuperata alla pubblica fruizione mediante una copertura degli scavi che comporti la creazione, al livello del piano di calpestio attuale, di una vasta piazza, e consenta, al livello ipogeo, una ottimale fruizione delle vestigia e una loro migliore tutela. Riaprendo magari l’antica galleria che collega l’anfiteatro alla palestra, reinserita così a pieno titolo nel complesso del sito archeologico più visitato al mondo.
Intervenire è necessario: perché la millenaria storia degli edifici antichi e delle aree archeologiche, fatta di periodi di splendore, di abbandoni, di riusi, di restauri e anastilosi, non si è conclusa alcuni decenni fa, con la loro riduzione a non-luoghi; e perché di questa storia noi vogliamo essere parte attiva. In occasione dell’inaugurazione del Colosseo, Marziale scrisse che Roma era restituita a se stessa («Reddita Roma sibi est», Liber spectaculorum, II, 11): il grandioso edificio pubblico segnava la restituzione al popolo di un’ampia area di cui Nerone si era appropriato. Allo stesso modo, occorre oggi reddere alla cittadinanza i monumenti antichi, puntando su un loro reinserimento nel tessuto urbanistico e su una fruizione più completa e diversificata, che contempli usi che vanno al di là della semplice accessibilità a fini turistici.
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L'autore di questo articolo: Fabrizio Federici
Fabrizio Federici ha compiuto studi di storia dell’arte all’Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore. I suoi interessi comprendono temi di storia sociale dell’arte (mecenatismo, collezionismo), l’arte a Roma e in Toscana nel XVII secolo, la storia dell’erudizione e dell’antiquaria, la fortuna del Medioevo, l’antico e i luoghi dell’archeologia nella società contemporanea. È autore, con J. Garms, del volume "Tombs of illustrious italians at Rome". L’album di disegni RCIN 970334 della Royal Library di Windsor (“Bollettino d’Arte”, volume speciale), Firenze, Olschki 2010. Dal 2008 al 2012 è stato coordinatore del progetto “Osservatorio Mostre e Musei” della Scuola Normale e dal 2016 al 2018 borsista post-doc presso la Bibliotheca Hertziana, Roma. È inoltre amministratore della pagina
Mo(n)stre.