di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 25/10/2017
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Ottocento - Novecento - Versilia - Arte antica
Recensione della mostra 'Plinio Nomellini. Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore' a Seravezza, Palazzo Mediceo, dal 14 luglio al 5 novembre 2017.
“L’incarico che io ho avuto a nome dell’Accademia è di pregare il Tribunale perché voglia ridare all’arte una delle più belle intelligenze, dei più fecondi lavoratori, un giovane che è destinato ad un avvenire grande e che, oltre a fare onore a sé, lo farà alla sua patria”. Esordiva così il discorso che Telemaco Signorini tenne di fronte al Tribunale di Genova, nel 1894, in difesa del giovane amico Plinio Nomellini (Livorno, 1866 - Firenze, 1943), accusato di sovversione insieme a un gruppo d’anarchici attivi nel capoluogo ligure. Arduo inquadrare con precisione e comprendere a fondo un artista come Plinio Nomellini senz’aver contezza di questa esperienza, costatagli alcuni mesi di carcare. La ragione d’una tale difficoltà ci viene fornita dallo stesso Signorini nel prosieguo della sua vivida e appassionata testimonianza: “il Nomellini, artista com’è, aveva bisogno di alte aspirazioni, di alti ideali, e come in arte egli fu ribelle alla nostra, e cercò in un altro metodo la soddisfazione che andava cercando, così sentì anche nella vita il bisogno di uscire dal comune, e conoscere coloro che la società odierna chiamava utopisti”.
Tutta la vita del grande artista toscano è stata infatti contraddistinta da una perenne tensione verso il nuovo, da una continua voglia di sperimentare e di confrontarsi, dall’incapacità di rimanere ancorato a una tradizione, a uno schema, a un’esperienza acquisita. In pittura, esordì sotto il segno di Giovanni Fattori e della pittura di macchia, fu poi divisionista capace di sperimentazioni mai tentate da altri prima di lui, e virò infine verso una pittura simbolista intima e poetica. Tutto ciò al netto di quella pittura densa di retorica che contraddistinse le ultime fasi della sua carriera: perché anche sul piano del credo politico, Nomellini fu spesso portato a riveder le proprie convinzioni, seppur entro un percorso che, visto dall’interno e giudicato guardando all’uomo e alle sue esperienze, può esser ritenuto anche decisamente coerente. Così, da militante anarchico vicino ai circoli operai genovesi e ai gruppi sovversivi, dopo il processo del 1894, dal quale uscì assolto, s’assestò su posizioni più moderate ma sempre di stampo libertario, per lasciarsi poi suggestionare dalla poesia decadente di Pascoli e D’Annunzio, ai quali s’avvicinò in prossimità del trasferimento in Versilia: la delusione per le lotte politiche fallite portarono l’artista a ritenere che l’emancipazione non potesse che giungere dal recupero d’un rapporto con la natura dotato di forza rigeneratrice e capace d’elevare l’uomo consentendogli di superare gli schemi imposti dall’ordinamento sociale. Di qui, l’adesione di Nomellini a istanze interventiste, e infine la convinta adesione al fascismo, che decretò, almeno per trent’anni, una sorta di damnatio memoriae nei suoi confronti. Come unico e costante leitmotif, la pittura: vero, imprescindibile mezzo per il riscatto sociale e culturale dell’umanità.
L’intera parabola artistica e umana di Plinio Nomellini è riassunta in una mostra, intitolata Plinio Nomellini. Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore, che si tiene nelle sale del Palazzo Mediceo di Seravezza, proprio in quella Versilia dove il pittore abitò per oltre un decennio, frequentandone i circoli culturali, respirandone l’aria umida e salmastra, immergendosi nell’abbacinante luce di quella “cerula e fulva estate” che ispirò a D’Annunzio versi immortali e a Nomellini dipinti “dove forme e colori sono modellati dallo spirito” allo scopo di “animare la natura, catturarne l’intima mutevolezza e i fondamenti” (così Silvio Balloni nel suo saggio in catalogo): anelito cui tesero molti pittori simbolisti, ma che Nomellini perseguì con una sensibilità lirica e panica che probabilmente non ebbe eguali. La mostra di Seravezza, curata da Nadia Marchioni, riesce a renderci partecipi dell’afflato poetico dell’opera di Nomellini, dedicando ampio spazio alla produzione versiliese, e conducendoci verso tali esiti con un percorso dotato di gran rigore filologico, ricostruito su base cronologica e con confronti puntuali, forte d’un apparato didascalico preciso ed efficace, così che ogni sala rappresenti un passo più a fondo nell’arte di Nomellini e, in virtù dell’incessante mutevolezza della sua pittura, una sorpresa sempre nuova per quanti ancora debbano fare la sua conoscenza.
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Il Palazzo Mediceo di Seravezza per la mostra su Plinio Nomellini |
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La prima sala della mostra |
L’avvio della mostra ci presenta un Nomellini appena diciannovenne, ma già sicuro dei proprî mezzi e del proprio talento. Un intenso ritratto del padre Coriolano, dipinto attorno al 1885, fissa le caratteristiche di questa fase: l’artista, dopo aver dimostrato una precoce inclinazione verso il disegno e, di conseguenza, dopo aver frequentato le scuole d’arte della sua città, si trasferì all’Accademia di Firenze dove ebbe come maestro il suo concittadino Giovanni Fattori (Livorno, 1825 - Firenze, 1908), che lo indirizzò verso una pittura di stampo macchiaiolo, netta, pulita, dotata d’impianto grafico solido e tradizionale. Giunge dunque tempestivo il confronto tra allievo e maestro, con uno dei temi più cari a Fattori, quello del cavallo (animale che, scriveva Raffaele Monti nella sua monografia sull’artista, “per Fattori è un archetipo formale capace di suscitar nella sua sensibilità l’invenzione di continue e originalissime forme”): solitario e dietro una staccionata quello del maestro, immerso in un suggestivo paesaggio al tramonto quello dell’allievo, con l’ulteriore differenza che il suo animale figura in compagnia d’un personaggio che osserva un mare velato di striature rossastre, già presago di suggestive soluzioni future. Entrambi gli animali sono marcati da un deciso e toscanissimo contorno: l’accurato disegno è una specifica costante di tutti i primi dipinti di Nomellini. Altri validi esempî radunati nella sala successiva, che intende dar conto del clima culturale della Firenze del tempo, sono alcuni ritratti di signora, anch’essi modellati sul solco della pittura di Giovanni Fattori (dalla quale deriva anche l’attenzione nei confronti del vero), e una corrucciata Ciociara del 1888 che, pur nella sua dimensione d’esercizio accademico su di un modello, denota già la vicinanza di Nomellini alle classi più basse, ai lavoratori, agli umili, oltre che alla pittura come veicolo d’istanze politiche e sociali: la sua ciociara, vestita con abito tipico delle sue terre, ha le mani provate dal lavoro dei campi, ma l’orgoglio che traspare dal suo sguardo non le impedisce di rinunciare alla sua femminilità e d’agghindarsi con un vistoso orecchino pendente, con un piccolo anello d’argento e con una povera collana.
Il clima di quel tempo, si diceva, è evocato nella sala in cui viene presentata la cosiddetta “Bohème del Volturno”: Nomellini e diversi giovani artisti (Giuseppe Pellizza da Volpedo, Ermenegildo Bois, Ruggero Panerai, Giorgio Kienerk, Angelo Torchi e altri: in mostra sono presenti loro opere) erano soliti riunirsi in uno stanzone della trattoria Volturno, un locale di via san Gallo a Firenze, attorno ai più esperti Silvestro Lega (presente a Seravezza con due dipinti) e Telemaco Signorini, coi quali s’instaurò un rapporto di vicendevole e proficua amicizia, tuttavia mal visto da Giovanni Fattori, che riteneva tali frequentazioni deleterie per la carriera dei suoi allievi e che scrisse al riguardo lettere infuocate, senza tuttavia mai perdere la stima nei confronti di quel gruppo di ragazzi che, di fatto, aveva visto crescere negli studî dell’Accademia. Studî dai quali possiamo immaginare presi tanto Plinio Nomellini quanto Giuseppe Pellizza da Volpedo (Volpedo, 1868 - 1907): al loro rapporto è dedicato un saggio in catalogo, firmato da Aurora Scotti Tonsini, e un confronto in mostra con due dipinti eseguiti sullo stesso modello (L’attesa di Pellizza da Volpedo e un’ulteriore Ciociara di Nomellini), due esercizi risultanti dalla stessa seduta di posa e a Seravezza esposti l’uno vicino all’altro. Entrambi dipinti, scrive Scotti Tonsini, che dimostrano “la capacità di porre con sicurezza la figura nello spazio e, soprattutto, di darle forza e dignità”, pur con differenze: “più sensibile a costruire l’impianto della figura puntando su una solidità di forme e con un segno di contorno più definito era il quadro di Pellizza, più sciolto nella costruzione e, soprattutto, vivace nell’uso del colore sostanziato dalla luce quello di Nomellini”.
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Plinio Nomellini, Il padre Coriolano (1885 circa; olio su tela, 62 x 46,6 cm; Collezione privata)
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Plinio Nomellini, Cavallo sul mare (1887; olio su tela applicata su cartoncino, 18 x 34,8 cm; Collezione privata, courtesy Galleria Athena, Livorno)
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Giovanni Fattori, Studio di cavallo (1885 circa; olio su tavola, 25 x 33 cm; Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori)
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Confronto tra il cavallo di Plinio Nomellini (a sinistra) e il cavallo di Giovanni Fattori (a destra)
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Plinio Nomellini, Ciociara (1888; olio su tela, 66 x 62,5 cm; Collezione privata, courtesy Società di Belle Arti, Viareggio)
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A sinistra: Giuseppe Pellizza da Volpedo, L’attesa (1888; olio su tela, 110 x 57 cm; Collezione privata, courtesy Studio d’Arte Nicoletta Colombo, Milano). A destra: Plinio Nomellini, Ciociara (1888; olio su tela, 114,5 x 47 cm; Collezione privata)
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Quest’uso vivace del colore andò, tuttavia, sempre più distaccandosi dalla lezione di Fattori: uno dei giovani del Volturno, Alfredo Müller (Livorno, 1869 - Parigi, 1939) aveva soggiornato per qualche tempo a Parigi, aggiornandosi sugli esiti delle ricerche degli impressionisti, e tornato poi a Firenze iniziò a comunicare agli amici, con trasporto ed entusiasmo, le novità apprese in Francia. Non che in Italia, all’epoca, la pittura impressionista fosse oggetto sconosciuto: a Firenze le prime opere impressioniste, due dipinti di Pissarro, impressionismo-francese-prima-volta-in-italia-1878.php' target='_blank'>erano giunte nel 1878 per interessamento del critico e collezionista d’arte Diego Martelli (Firenze, 1839 - 1896), senza tuttavia incontrare il favore dell’ambiente. Tutt’altro: quasi tutti i macchiaioli rimasero ben saldi sulle loro posizioni. Primo tra tutti Fattori, che in quel fatidico 1878 guardò con sufficienza i quadri in arrivo da Parigi, e fu per tal motivo rimproverato da Martelli, col quale i rapporti si raffreddarono. Unici aperti alle novità, Lega e Signorini: non a caso i due artisti cui, tredici anni dopo, Fattori mosse l’accusa di voler trascinare “quei buoni e cari giovani” nell’“abisso” della pittura d’oltralpe. Il ritorno di Müller, tuttavia, segnò una frattura insanabile tra i “vecchi” legati all’Accademia e i “giovani” riunitisi attorno a Martelli, Lega e Signorini. E tra questi ultimi si collocava, ovviamente, Plinio Nomellini. Le sue prime sperimentazioni divisioniste rimontano alla fine degli anni Ottanta: in mostra figura una significativa opera di transizione, il Ricordo di Genova (o Sulla spiaggia). È una scena ambientata su di una spiaggia ligure, in una giornata di brutto tempo, con grandi nuvole minacciose e cariche di pioggia: una madre sta giocando con un bambino, due uomini chiacchierano sulla riva del mare, altri sono poggiati a una barca. A Seravezza è altresì esposto il disegno preparatorio, che dimostra come Nomellini ancora non abbia abbandonato il maestro: la spiaggia, tuttavia, con quei tocchi di colore tipicamente divisionisti lascia già intendere come l’artista avverta la smania d’affrancarsi dal maestro. O se ne sia già affrancato: le macchiette giustapposte che dànno il senso dell’impressione momentanea potrebbero essere un intervento successivo, realizzato su di un dipinto condotto con tecniche più tradizionali (è stata pertanto proposta una datazione al 1889-1891).
Difficile che, in questo suo avvicinamento al divisionismo, Nomellini abbia guardato a Müller (in mostra presente con i suoi Bagni Pancaldi a Livorno), che era rimasto affascinato da Monet ma non s’era spinto oltre: probabile che il tramite sia stato qualcun altro, ma al momento non abbiamo dati certi su cui poterci basare. Certo è che le ricerche dei pointilliste francesi dovettero suggestionarlo non poco, al punto che è già del 1891 la sua prima opera totalmente divisionista, un ardito esperimento (Il Golfo di Genova) che, a detta di Nadia Marchioni, si configura come un “tradimento” dell’insegnamento grafico del maestro: perché qui il disegno scompare, perché le forme sono costruite solo da quella “fittissima tramatura di piccoli tocchi di pennello” che acquistano una luminosità mai conseguita in precedenza. È il suggello d’uno scontro generazionale, nonché l’addio definitivo al quasi settantenne maestro, che in una commovemente lettera scritta il 12 marzo 1891 comunicò, all’allievo appena venticinquenne, di non approvare le sue nuove ricerche, ma gli fece anche sapere che la stima nei suoi confronti era rimasta immutata: “io ho creduto mio dovere avvertirvi tu e gl’altri che seguivi una via già tracciata 10 o 12 anni fa, e che il foco giovanile molto apprezzabile vi ha fatto vedere che la Storia dell’Arte vi avrebbe registrato come martiri, e innovatori, mentre la Storia dell’Arte vi registrerà come servi umilissimi di Pisarò, Manet, ecc. e in ultimo del Signor Muller [...]. Tu solo per giustizia ti trovo originale come dissi nei lavoratori [...]. Questa è storia e qui cesso col dirmi vostro amico sempre, maestro mai più! Perché io sono coi vecchi, e non saprei più cosa insegnarvi - lo dirai a buoni amici livornesi quando avrai occasione di scriverli - Ti stringo la mano e sono il tuo affezionato amico. G. Fattori”.
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Alfredo Müller, I bagni Pancaldi a Livorno (1890; olio su tela, 75 x 53,5 cm; Collezione privata, courtesy 800/900 Artstudio, Livorno-Lucca)
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Plinio Nomellini, Ricordo di Genova o Sulla spiaggia (1889-1891; tecnica mista su carta, 41 x 58 cm; Galleria Goldoni, Livorno)
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Ricordo di Genova o Sulla spiaggia, dettaglio
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Confronto tra Ricordo di Genova o Sulla spiaggia e il suo disegno
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Plinio Nomellini, Il golfo di Genova o Marina ligure (1891; olio su tela, 58,5 x 95,8 cm; Tortona, Pinacoteca “Il Divisionismo” - Fondazione CR Tortona)
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Sciolti i legami con Fattori, Nomellini poté trovare una strada propria, e il divisionismo diventò la cifra più adatta per la sua pittura di stampo sociale, cui è dedicata un’ulteriore sala: la Diana del lavoro del 1893, forse la sua opera più nota di questo periodo, che rappresenta una folla di lavoratori in attesa, di primo mattino (alla diana, appunto) in attesa che aprano i cancelli d’una fabbrica che spande il suo grigiore sulle figure meste degli operai e incupisce l’uomo in primo piano, che vaga come smarrito, seguito da un bambino già parimenti alienato.
Delle delusioni che le lotte sociali causarono a Plinio Nomellini, s’è già detto: il rifugio più naturale fu quindi la letteratura, alla quale s’accostò iniziando a comporre illustrazioni per La Riviera Ligure, il singolare progetto editoriale nato come bollettino pubblicitario dell’oleificio Sasso e divenuto poi una delle riviste letterarie più aggiornate d’Italia. Queste esperienze, che avvicinarono Nomellini alla poesia di Giovanni Pascoli e di Gabriele D’Annunzio, contribuirono a conferire ai suoi dipinti quella grazia onirica e quella dimensione atemporale che caratterizza i lavori eseguiti all’alba del ventesimo secolo. La suggestiva Marina del 1900, col mare mosso sul quale le onde, una volta rotte, formano trame di circoli bianchi (tipiche, di qui in avanti, di gran parte delle vedute di mare dell’artista), è un’immagine che, scrive Silvio Balloni, comunica un “senso di mistica immobilità” e soprattutto sancisce “la fusione dell’artista con la natura”, che poi diventerà ancora più totale in dipinti successivi: la natura, per Nomellini, è un organismo vivo, dotato d’una propria vitalità, che l’artista deve fare propria legandosi alla sua dirompente forza e riconoscendosi in ogni arbusto, nello stormire delle fronde, nel vento che agita il mare, nelle gocce della pioggia, nelle fragranze dei fiori. Plinio Nomellini è forse l’artista che più d’ogni altro ha dato un’immagine dipinta al panismo dannunziano. A titolo d’esempio, il visitatore, perdendosi nel bosco di pini al centro della Pineta, non potrà far a meno di ripensare ai versi del poeta: “Ascolta. Piove / dalle nuvole sparse. / Piove su le tamerici / salmastre ed arse, / piove su i pini / scagliosi ed irti, / piove su i mirti / divini, / su le ginestre fulgenti / di fiori accolti, / su i ginepri folti / di coccole aulenti, / piove su i nostri volti / silvani, / piove su le nostre mani / ignude, / su i nostri vestimenti / leggieri, / su i freschi pensieri / che l’anima schiude / novella, / su la favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude, / o Ermione”.
Le suggestioni dannunziane proseguono: i Daini morti richiamano la lirica Morte del cervo, e il Notturno, col chiarore lunare che illumina di riflessi argentati lo sciabordio delle onde d’un mare agitato sotto una scogliera, ci riporta al fragore dell’acqua evocato dal Vate ne L’onda. La meravigliosa Ninfa rossa, eterea e delicata creatura dei boschi litoranei immersa in un cielo infuocato, immagine forse più d’altre rappresentativa dei nuovi miti pagani celebrati dal pennello di Nomellini, par quasi pronunciare le parole di Versilia: “Non temere, o uomo dagli occhi / glauchi! Erompo dalla corteccia / fragile io ninfa boschereccia / Versilia, perché tu mi tocchi. [...] / Io ti spiava dal mio fusto / scaglioso; ma tu non sentivi, / o uomo, battere i miei vivi / cigli presso il tuo collo adusto. / Talora la scaglia del pino / è come una palpebra rude / che subitamente si chiude, / nell’ombra, a uno sguardo divino”. Il simbolismo panico si trasforma poi, di conseguenza, in pittura eroica (eroico è del resto l’uomo rigenerato dalla sua simbiosi con la natura) quale è quella de Gli insorti, opera in cui una natura ammantata di significati politici (la scena si svolge all’alba con un sole che inizia a rischiarare i protagonisti) fa da sfondo agli “insorti” che dànno titolo al quadro: altri non sono che i patrioti di Pisacane, incarnazione dei miti post-risorgimentali in voga al tempo. L’opera fu esposta, con alterna fortuna critica, alla Biennale di Venezia del 1907, in una sala chiamata L’arte del sogno e ideata dallo stesso Nomellini e da Galileo Chini (di cui vediamo in mostra un Icaro esposto anch’esso in quell’occasione): la rassegna di Seravezza cerca di ricreare quell’ambiente presentando al pubblico alcune delle opere che l’artista livornese portò alla Biennale del 1907.
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Plinio Nomellini, La diana del lavoro (1893; olio su tela, 60 x 120 cm; Collezione privata)
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Plinio Nomellini, Marina (1900 circa; olio su cartoncino, 34 x 56 cm; Galleria Goldoni, Livorno)
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Marina, dettaglio
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Plinio Nomellini, Pineta (1900 circa; olio su tela, 85 x 85 cm; Collezione privata)
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Plinio Nomellini, I daini morti (1904 circa; olio su cartone, 27 x 34 cm; Firenze, Collezione privata)
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Plinio Nomellini, Notturno (1905-1910; olio su tavola, 37,5 x 37 cm; Collezione privata, courtesy Società di Belle Arti, Viareggio)
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Plinio Nomellini, La ninfa rossa (1904 circa; olio su tela, 101,5 x 84 cm; Galleria Goldoni, Livorno)
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Plinio Nomellini, Gli insorti (1907; Genova, Collezioni d’Arte Carige)
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In quello stesso 1907, Nomellini comperò un terreno nei pressi di Viareggio: il pittore risiedette per più di dieci anni in Versilia, prima di tornare a Firenze. Le ultime sale della mostra costituiscono un poetico viaggio nella dimensione più intima e lirica dell’arte di Plinio Nomellini, che in Versilia riuscì forse a trovare le sue note più alte. Sembra quasi che l’artista voglia continuare a identificarsi nella dolcezza d’una terra che, all’incirca da metà Ottocento, aveva cominciato a diventare meta di riposanti soggiorni estivi. Esemplificativa di questa nuova stagione è una gioisa tela, Baci di sole, i cui protagonisti sono la moglie e il figlio Vittorio, che giocano sotto un albero frondoso, al riparo dalla calura estiva: i baci cui il titolo allude sono quelli che il sole fa filtrare attraverso i rami dell’albero e che Nomellini rende con un luminismo terso, evocativo, e memore dei trascorsi impressionisti, col risultato che il dipinto diventa, scrive Nadia Marchioni, “uno straordinario trionfo di luce e ombra, celebrazione della felicità della natura e della vita stessa, restituita sulla tela con una materia pittorica densa e vibrante, in un festoso alternarsi di pennellate frante e talvolta ridotte a filamenti luminosi che si inseguno sulla tela creando un ordito irripetibile: il vorticante movimento della vegetazione, centrato sull’esile fusto dell’albero, si placa nel rispetto della scena familiare, dove gli attori sono colti in un momento di indolente tranquillità estiva”. Il paesaggio, il clima, l’atmosfera, la luce della Versilia erano particolarmente adatti al temperamento dell’artista e alle note liriche della sua pittura: la stagione versiliese fu così particolarmente feconda, anche sul piano tecnico. Quella “materia pittorica densa e vibrante” che il visitatore ha modo d’apprezzare nei Baci di sole, si fa ancora più spessa ed energica in dipinto come Messidoro e Mietitura, dove i campi riarsi sulle rive del mare sono e avvolti da una luce afosa e infuocata esplodono in turbinii di colore pastoso che acquista spesso una coinvolgente tridimensionalità, così che i fili d’erba e le spighe falciate paiano quasi fuoriuscire dal dipinto.
C’è spazio ancora per esperimenti divisionisti (Cappuccetto rosso è un’eloquente poesia autunnale), ma più in là negli anni il pennello di Nomellini acquisterà una scioltezza fino ad allora ignota, e l’ultima sala dell’esposizione di Seravezza intende documentare questa ulteriore, nuovissima svolta dell’artista livornese: tuttavia, più che nei dipinti che celebrano il regime fascista e che saranno causa della sua condanna nel dopoguerra, è ancora nelle opere della luce e del mare che occorre ritrovare la dimensione all’artista più congeniale. Se un dipinto come Pascoli sul mare par quasi gettare uno sguardo indietro nel tempo, col suo carattere d’istantanea che però coglie con precisione le greggi d’un pastore che s’approssima alla riva del mare rischiarato da un raggio che filtra dalle nubi grigie, dipinti come il Teatro di Enrico Pea nella pineta di Viareggio o la Corsaresca, pur senza del tutto rinunciare agli accenti simbolisti, si distinguono per una sintesi libera che costruisce gli elementi tramite guizzi improvvisi e pennellate che con inusitata rapidità creano forme geometriche. Erano le ultime conquiste d’un artista che, mai per un secondo, aveva smesso, riecheggiando le parole di Signorini, d’avvertire la necessità d’uscire dal comune.
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Plinio Nomellini, Baci di sole (1908; olio su tela, 93 x 119 cm; Novara, Galleria d’Arte Moderna “Paolo e Adele Giannoni”)
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Plinio Nomellini, Mietitura (1911 circa; olio su tela, 85 x 114 cm; Genova, Museo dell’Accademia Ligustica)
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Mietitura, dettaglio
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Mietitura, la pennellata
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Plinio Nomellini, Cappuccetto rosso (1912-1919; olio su tavola, 84 x 67 cm; Collezione privata)
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Plinio Nomellini, Pascoli sul mare, dettaglio (1930 circa; olio su tela, 110 x 160 cm; Collezione privata)
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Plinio Nomellini, Teatro di Enrico Pea nella pineta di Viareggio (1925-1930; olio su cartone, 31,3 x 41,2 cm; Livorno, Galleria d’Arte Goldoni)
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Plinio Nomellini, La corsaresca (1940; olio su tela, 148 x 115 cm; Livorno, Galleria d’Arte Goldoni)
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La mostra di Seravezza è operazione meritoria, che presenta al pubblico una lettura pressoché completa del percorso artistico di Nomellini: una lettura pregna e consistente che, presentando al pubblico anche inediti e novità, s’avvale d’una scansione precisa forte di novanta opere provenienti da prestigiosi musei italiani (alcuni: la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, la Galleria d’Arte Moderna e il Museo dell’Accademia Ligustica di Genova, la Galleria Ricci Oddi di Piacenza, i Musei Civici di Pavia, la Pinacoteca “Il Divisionismo” di Tortona), sonda con approfondimenti dedicati i temi principali della produzione del pittore livornese, insiste in particolar modo sul suo rapporto con la natura e con la Versilia, trova nel suo solido radicamento al territorio una ragione in più per essere visitata. In definitiva, una mostra da ricordare e, se vogliamo, pure capace di suscitare non poche emozioni (specie se si conosce bene la Versilia), complice anche l’ammaliante pennello di Plinio Nomellini. Il catalogo, in merito al quale occorre evidenziare l’importante assenza di schede dettagliate e d’una bibliografia, presenta cinque saggi d’alto livello redatti da specialisti dell’arte del periodo: nello specifico, quello della curatrice compendia l’intero iter di Nomellini, il contributo di Vincenzo Farinella chiarisce i legami col naturalismo francese con cui Nomellini, a detta dello studioso, poté familiarizzare grazie al tramite di Filadelfo Simi, e ancora il saggio di Silvio Balloni fa luce sui rapporti tra Nomellini e la letteratura, quello di Aurora Scotti Tonsini, come s’è già detto, è un approfondimento sull’incontro tra l’artista livornese e Giuseppe Pellizza da Volpedo, e infine l’ultimo saggio, scritto a quattro mani, illustra aspetti tecnici di due opere giovanili.
Usciti dal Palazzo Mediceo di Seravezza si può dunque riprendere la strada del mare: in una decina di minuti ci si ritroverà di fronte a quegli scorci che Nomellini amò, a quel mare che l’artista provò a celebrare nei modi più svariati, alla poesia di quei paesaggi che il pittore volle riportare sulla tela secondo la propria altissima sensibilità. Vedere col proprio occhio ciò che l’artista stesso vide col suo, a una manciata di chilometri dalla sede espositiva, costituisce un impagabile completamento dell’itinerario d’una mostra da includere con certezza tra le più riuscite dell’anno, a livello nazionale.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).