Credo che il miglior giudizio sulla mostra Pittura italiana oggi, la grande collettiva che raduna i lavori di 120 pittori alla Triennale di Milano, sia il senso di sorpresa che Davide Ferri appunta nel suo saggio pubblicato sul catalogo della mostra stessa: “stento a credere che a qualcuno sia venuto il coraggio di fare una mostra che ha l’ambizione di aprirsi così ad ampio spettro sulla pittura italiana del nostro tempo. Una mostra, cioè, che include i pittori che si sono affermati nel corso degli ultimi decenni, un periodo a dir poco complicato, ondivago, frammentario, a tratti persino balbuziente, e che oggi hanno dai venti/trenta a circa sessant’anni, riportandoli tutti nel presente, con un lavoro a testa, realizzato, grosso modo, nell’ultimo triennio”. Da una mostra così, aggiunge Ferri, “non so come si possa uscirne vivi”. E in effetti il curatore Damiano Gullì è immediatamente finito, forse ancor prima che la mostra aprisse, nel tritacarne dei social, dove tanti si sono cimentati in una specie di tiro al piccione contro il malcapitato, soprattutto per le dimenticanze, o presunte tali, che caratterizzerebbero l’impianto della mostra (gli artisti in disaccordo potranno comunque organizzarsi il loro salon des refusés: ci troveremmo subito catapultati nel 1863, ma del resto anche Pittura italiana oggi non è che risponda a modelli di grande attualità).
Il problema della mostra, tuttavia, non è tanto l’elenco dei partecipanti, o quello dei non partecipanti. Si potrebbero trascorrere ore a redigere elenchi di artisti-che-dovevano-esserci-ma-non-ci-sono, operazione che risulterebbe in ogni caso priva di pregio, poiché Pittura italiana oggi non è fondata su criteri che esulino dalle personalissime scelte del curatore. Lo ammette lui stesso all’inizio del suo saggio in catalogo: “Pittura italiana oggi nasce da studio visit, ricerche e incontri, umani e professionali, con artiste e artisti che, in tutta Italia, dipingono”. Una serie di incontri (ci si concentrerà su questo termine perché l’altro, “ricerche”, non viene ulteriormente specificato, e lo prenderemo dunque come sostantivo messo in una sequenza con l’unico scopo di bilanciare meglio il testo sotto il profilo formale) che, spiega Gullì, avrebbe fatto emergere una scena “di straordinaria vivacità” (chi l’avrebbe mai detto!). L’unica scrematura è di carattere anagrafico: “l’ampiezza del panorama preso in esame ha portato a individuare pratiche e poetiche di centoventi artiste e artisti, nati tra il 1960 e il 2000, e a concentrarsi nella selezione delle opere realizzate tra il 2020 e il 2023”. Non è dato sapere perché centoventi, non è dato sapere perché solo opere del periodo 2020-2023, non è dato sapere perché la selezione riguarda solo gli artisti compresi tra i ventitré e i sessantatré anni d’età. Bislacco criterio, quest’ultimo, che ha portato all’esclusione, e qui qualche nome si può fare poiché si tratta di artisti fuori dal range anagrafico, per esempio di un Rudolf Stingel, di un Giovanni Frangi, di un Wainer Vaccari, giusto per far tre nomi di pittori sicuramente non meno fondamentali della maggior parte di quelli che compongono la scena “straordinariamente vivace” di Pittura italiana oggi e che negli ultimi quattro anni si sono dati da fare. Ma che senso ha una selezione per età in una mostra d’arte che ha la pretesa di fornire una “mappatura”, come dice il curatore? Manco ai concorsi per i funzionari comunali ci sono i limiti d’età. Magari poi giungeranno chiarimenti e il curatore spiegherà come, a suo avviso, sia possibile eseguire una “mappatura” della pittura italiana contemporanea stabilendo dei confini anagrafici, perché ha scelto certi artisti e altri no, quali regole lo hanno guidato nella sua scelta, ma di norma quando s’organizza una mostra il progetto andrebbe illustrato prima.
Ora, s’è detto sopra che la selezione è frutto di personali scelte del curatore. Evenienza che sarebbe del tutto normale se, mettiamo, la mostra si concentrasse attorno a un tema: parlo della fragilità del corpo umano restituita in pittura e convoco un numero n di artisti che, per qualità, coerenza, efficacia, originalità, capacità di visione ritengo siano i più adatti a sviluppare l’argomento. Oppure se, in via più generica, individuo alcune tendenze nell’attuale scenario della pittura italiana e raduno gli artisti che ritengo più rappresentativi (in questo senso tuttavia Gullì mette subito un paravento tra sé e il pubblico: “non è facile individuare specifici gruppi o tendenze. Ciascuna individualità concorre a delineare una narrazione corale polifonica, in cui sottotraccia sono rilevabili attitudini e visioni comuni, seppur idiosincratiche”). Si potrebbero poi stabilire criterî meno soggettivi qualora si volesse dare un taglio storico alla mostra (del resto Pittura italiana oggi contiene lavori di alcuni artisti che hanno cominciato a dipingere appena dopo la Transavanguardia). Volendo credere che i termini fissati nero su bianco in un saggio abbiano ancora un valore e un significato, come si può pensare che una “mappatura” possa derivare da una mostra anagraficamente limitata e che è stata costruita sulla base degli incontri personali del curatore? E poi, quanti saranno i pittori in Italia oggi? Mille? Duemila? Cinquemila? Diecimila? Dunque quanto dev’essere estesa questa “mappatura” per ambire ad avere qualche minima pretesa descrittiva? E, soprattutto, quanto dev’essere frequente? In uno scenario vivace e dinamico, già il solo pensiero di poter davvero stendere una mappatura corre il pericolo d’essere un’idea eccessivamente ambiziosa, ma l’idea di poterla fare con un’iniziativa una tantum, ridotta a soli centoventi artisti, priva peraltro di scoperte o rivelazioni (anche i più giovani in mostra sono pittori che hanno già esposto in contesti di rilievo o sono stati comunque lanciati da altri, siano essi gallerie o istituti, che hanno svolto davvero ricerche), priva di confronti, priva di cornici, e quindi del tutto insufficiente, è pure immodesta e pretenziosa. Più che una mappatura, Pittura italiana oggi sembra un disegnino, uno schemino a matita.
D’altra parte, c’è anche da domandarsi quanto possa essere attuale il modello della mega-mostra in stile salon ottocentesco. Tra Otto e Novecento, mostre simili erano diffuse e ripetute: in Italia c’era una galassia fatta di mostre di promotrici, mostre accademiche, biennali e triennali, esposizioni nazionali di belle arti (che spesso erano rassegne da tre-quattro-cinquecento-mille opere), con un panorama che non era certo vario, complesso e sfaccettato come quello odierno. Oggi, ogni mostra che abbia un intento compilativo non può che apparire rischiosa e fuori tempo massimo. Pittura italiana oggi dunque altro non è che una deliziosa operazione di retroguardia, pure dichiarata, dato che il modello ideale cui la mostra si ricollega, da quel che si legge nelle presentazioni, sono le mostre di pittura murale che venivano organizzate nel Palazzo dell’Arte a partire dal 1933. Un’operazione pure penalizzata da un pessimo allestimento, angusto, tortuoso, banale, da fiera di secondaria importanza.
Sorprende poi l’ingenuità delle conclusioni cui giunge Gullì nel suo saggio (nel quale, peraltro, il curatore elude ogni approfondimento di carattere critico preferendo concentrarsi sulla pura descrizione dei temi affrontati dagli artisti selezionati): la mostra, scrive dopo aver affrontato il trito tema delle chiacchiere sulla presunta morte della pittura, “constata uno stato di fatto: la pittura è”. Servivano le schedature di Gullì per rendersi conto che nel 2023 in Italia c’è gente che dipinge? Poco da aggiungere, dunque, a proposito di un’operazione così malamente abborracciata, che non aggiunge niente di nuovo, non offre uno sguardo critico sul presente, non fa neppure un minimo d’ordine, ma si limita a seminare, per le sale della Triennale, i lavori di un certo numero d’artisti presi qua e là senza che si sappia secondo quali parametri. Una mostra debole messa in piedi da un compilatore, più che da un curatore. O una “maratona della pittura”, come l’ha definita Francesco Bonami nel suo saggio in catalogo (mai, peraltro, m’era capitato di sfogliare il catalogo di una mostra e trovarci dei saggi che esprimono, seppur velatamente, delle perplessità sulla mostra stessa), nell’impossibilità di organizzare una finale dei 100 metri per stabilire chi sia il migliore, dato il numero troppo elevato di concorrenti.
Sul percorso non c’è granché da dire, a meno che non si vogliano adottare i metodi dei critici d’inizio Novecento, che solitamente giudicavano in maniera sommaria i lavori dei singoli artisti e cercavano di stabilire chi fossero i migliori e chi i peggiori. Oppure ci si potrà divertire a entrare nel dettaglio degli accostamenti per soggetti, tecniche, colori e via dicendo che dànno forma all’itinerario di visita: l’unico modo per parlare di questa mostra senza criticare nessuno (e quindi la modalità più praticata da chi si trova a scrivere di Pittura italiana oggi) per poi convenire col curatore sull’idea d’una “straordinaria vivacità” della scena italiana. Una sorta di esercizio di stile, in sostanza. Impossibile, stante la sostanziale mancanza d’un progetto fondato su basi solide, trovare la maniera d’affrontare la mostra in altri modi. Si potrebbe tutt’al più discutere sul concetto di “vivacità”: cosa significa? Se l’idea è dimostrare che in Italia ci sono tanti pittori, e quindi si tratta d’una vivacità sostenuta dal mero parametro quantitativo, allora sì, siamo tutti d’accordo. Se invece s’intende una “vivacità” d’idee, Pittura italiana oggi è una mostra trascurabile, dal momento che manca qualunque paragone con la scena internazionale, qualunque discorso critico sulla posizione dell’Italia in un contesto più ampio, qualunque discorso critico sui rapporti tra i pittori di oggi e quelli di ieri, e così via.
A che scopo allora visitarla? Vengono in mente tre motivi. Primo, perché è la classica mostra per pigri, potremmo dire. Chi non ha voglia di girare per fiere, gallerie, studî d’artista, personali e collettive più o meno grandi su e giù per l’Italia, ha la comodità di avere una buona raccolta tutta in un unico posto. Certo, lo svantaggio sta nel fatto che a ogni artista è stata richiesta una sola opera, quindi se un visitatore non conosce un dato pittore non riuscirà a farsi un’idea, ma magari potrà appuntarsi il nome per successivi approfondimenti. Si può insomma visitare Pittura italiana oggi con lo stesso spirito con cui si visita una fiera, anche se con meno aspettative: in una fiera di solito un artista è presente con più lavori, e se il visitatore ha la faccia di uno che è intenzionato a spendere per quell’artista, avrà a sua disposizione un addetto della galleria pronto a raccontargli tutto quello che il pittore ha fatto dalla prima elementare a oggi. Secondo, perché comunque in mostra ci sono diversi ottimi pittori (di alcuni di loro ci siamo anche estesamente occupati su Finestre sull’Arte, sia sull’online sia sul cartaceo, con lunghi approfondimenti). E non poteva essere altrimenti: se organizzi una mostra con centoventi artisti mettendo assieme un po’ di nomi blasonati, un po’ di artisti affermati e per i giovani eviti di assumerti il rischio di cercare nei meandri oscuri di qualche galleria poco nota o tra i corridoi di qualche accademia e preferisci puntare soprattutto su quelli che hanno già avuto esperienze di rilievo o che sono stati scoperti da altri, per la legge dei grandi numeri riuscire a beccare una ventina di artisti buoni è pura questione aritmetica. Terzo, perché è divertente. Chi segue l’arte contemporanea può divertirsi, mettiamo, a fare quello che fanno i giornalisti sportivi che seguono il calcio. Del tipo: “Il pittore X si presenta all’appuntamento con Pittura italiana oggi in una forma straordinariamente smagliante !”. “Il pittore Y ha avuto un calo negli ultimi mesi e la sua prestazione in mostra si è rivelata davvero sottotono!”. “Il pittore Z ha svolto una preparazione impeccabile e a Pittura italiana oggi ha sfoderato una prestazione veramente maiuscola!”.
Concludendo il suo scritto, Ferri si pone una domanda: “in cosa consiste la forza che un’immagine dipinta è ancora in grado di esercitare in un tempo di incontrollata proliferazione di immagini?”. Quesito molto interessante. Solo che il visitatore non ha una base con cui confrontarsi. I volenterosi cercheranno di darsi una risposta. La mostra in questo senso è molto aperta (il pubblico stabilirà se è per intenzionalità o per mancanza d’idee). Ma va bene anche visitare la mostra esattamente come si va a vedere una partita di calcio. Col pubblico che commenta le performance di chi è sceso in campo e si lamenta per chi è stato lasciato in panchina. Coi giocatori che a partita conclusa rilasciano commenti sulla loro personale prestazione nel corso del match. Con schiere di tifosi che parteggiano per l’una o per l’altra squadra.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).