Cannibale. Talvolta si era apostrofato così, Pablo Picasso, con lucida coscienza della propria carnale sperimentazione in continua ricerca di forme sempre nuove, di materiali inediti, con una cifra stilistica inconfondibile che lo ha fatto riconoscere genio indiscusso dell’arte del XX secolo. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”: alla sua arte si potrebbe applicare la legge fisica della conservazione della massa. Un’arte rifatta sull’arte. Temi e motivi della storia dell’arte divorati dal gesto picassiano.
Storia e mito di un uomo e di un artista complesso, che ha decostruito le regole convenzionali della rappresentazione artistica, rivivono nella rassegna Celebrating Picasso. Capolavori dal Kunstmuseum Pablo Picasso di Münster, a cura di Markus Müller, direttore del museo, fino al 4 maggio nelle Sale Duca di Montalto di Palazzo Reale di Palermo. La mostra, organizzata dalla Fondazione Federico II, in collaborazione con il museo di Münster, di cui è presidente Olivier Widmaier Picasso, figlio di Maya Picasso e nipote del maestro, presenta 84 opere, tra litografie, linoleografie, acquetinte, acqueforti, ceramiche, puntesecche, insieme a tre dipinti, con prestiti anche dal Museo Picasso di Antibes, dal Mart di Trento e Rovereto, dalla Galleria La Nuova Pesa di Roma, oltre ai prestiti di collezioni private (catalogo edito dalla Fondazione Federico II). Opere in grado di raccontare la profonda impronta autobiografica di un’arte di cui lui stesso disse: “L’opera che si dipinge è una sorta di diario da tenere”.
Come una sorta di diario fotografico è la “scatola” spaziale ricavata nella prima sala espositiva, con una serie di fotografie realizzate da David Douglas Duncan, il principale fotografo dello spagnolo, che nel 1956 a lui concesse l’accesso totale al suo studio e ai suoi spazi abitativi.
Il passaggio alla visione d’insieme della grande sala successiva con le opere dà a prima vista un’impressione di “infilata di dipinti” che conferisce all’allestimento un che di minimalista e pure rétro. Ma è appressandosi alle contropareti espositive che l’illuminazione, perfetta, riesce a creare delle pause di isolamento tra un’opera e l’altra, consentendone il migliore apprezzamento.
Solo, per il raro dipinto di paesaggio in mostra, Paesaggio di Vallauris (1958, olio su tela, collezione privata), avremmo preferito altra soluzione di distanziamento del pubblico al più scontato vetro posto a ripararlo. Anche soltanto per mettere ancora più in rilievo i pezzi forti della mostra esposti al centro della parete di fondo: questo e il Pescatore seduto con berretto (3 novembre 1946, olio su compensato, Musée Picasso, Antibes, dono dell’artista nel 1946).
Del paesaggio, in cui dominano il verde e l’azzurro, i piani di superficie eludono la prospettiva tradizionale compenetrandosi l’uno con l’altro in un gioco dinamico. Il pescatore, esempio di quello che viene definito “Stile Picasso” che caratterizza l’opera del maestro della fine degli anni Trenta, combina vedute multiple cubiste e metamorfosi surrealiste col ricorso a una resa abbreviata dei particolari del volto, utilizzando vernice per barca e un pannello di compensato. Tratto fondamentale è la semplicità e l’essenzialità della rappresentazione. Come in altre opere, lo spagnolo affida all’atteggiamento del corpo, e non già al volto, l’espressione dello stato d’animo, che qui, ricollegandosi a quanto su detto a proposito del suo rapporto con la tradizione iconografica, è reso con la reinterpretazione della rappresentazione classica della malinconia: un “marinaio malinconico”, lo definirei appunto, col capo appoggiato alla mano e l’altro braccio rilasciato sulla gamba, come nella famosa Melencolia I di Albrecht Dürer, ma anche, per citare pittori a lui prossimi, nel Ritratto del dottor Gachet di Vincent van Gogh (1890) o ancora nelle diverse rappresentazioni della Malinconia realizzate da Edvard Munch tra il 1891 e il 1896.
Immagine iconica scelta per la mostra è la Piccola testa di donna incoronata con i fiori (Linoleografia a colori, prova di stampa, terzo e ultimo stato; prestito permanente dalla Sparkasse Münsterland ost al Kunstmuseum Pablo Picasso Münster), eseguita con la tecnica della linoleografia, che offrì all’artista l’opportunità unica di creare “pittura tramite incisione”, per cui superfici colorate sono combinate con la precisione del disegno al tratto. In questo caso l’aspetto cromatico prevalente sono i bruni, come pure in Testa di donna con cappello/paesaggio con bagnanti (8 marzo 1962, linoleografia a colori, 2° di 3 stadio; prestito permanente dalla Sparkasse) in Jacqueline con fascia (13 febbraio 1962, linoleografia a colori, prova di stampa, 1° di 3 stadi; prestito permanente dalla Sparkasse). In questa tecnica lo spagnolo realizzò pure un manifesto per la corrida. Di quest’ultima, metafora esistenziale della propria arte, diceva: “Immaginate per un momento di essere al centro dell’arena. Avete il vostro cavalletto e la vostra tela, è bianca e deve essere dipinta e tutti vi guardano. […] Il minimo errore e siete morti. E non c’è nemmeno bisogno di un toro per farlo”. Il tema della corrida è rappresentato in mostra attraverso diverse acquetinte e linoleografie, tra cui Ai tori (Tavola 2 di Tauromachia, 1957-1959, acquatinta; Kunstmuseum Pablo Picasso Münster - collezione Huizinga), Picador e torero in attesa del “paseo de cuadrillas” (8 settembre 1959, linoleografia a colori, prova di stampa, secondo e ultimo stato,
prestito permanente dalla Sparkasse), Corrida a Vallauris 1960 (13 luglio 1960, linoleografia a colori, prestito permanente dalla Sparkasse).
Un ruolo altrettanto iconico, riprodotta anche sul pavimento che accoglie il visitatore all’ingresso, è assegnato alla celebre “colomba” che lo spagnolo interpretò in varianti sempre differenti a partire da quella prima litografia, presente in mostra, realizzata il 9 gennaio 1949 per essere affissa a Parigi nell’aprile dello stesso anno al Congresso degli intellettuali per la pace. Divenne simbolo di pace riconosciuto a livello globale, secondo l’iconografia creata proprio da Picasso. Nella primavera del 1949 Françoise Gilot, compagna di Picasso, dopo il figlio Claude nato nel 1947 diede all’artista una seconda figlia che venne chiamata Paloma (in spagnolo “colomba”).
Tra le opere più interessanti in mostra, c’è una litografia che ritrae la bambina nell’atto di esibire quasi con orgoglio la sua bambola Paloma e la sua bambola, sfondo nero, 14 dicembre 1952
litografia (gesso, raschietto su zinco), ultima di quattro prove con margini ridotti prima dell’edizione, firmata in gesso rosso: “Bon à tirer Picasso”. “È un’impresa difficile, scrive in catalogo Müller, “motivare una bambina piccola a sedersi come una modella e a stare ferma. Secondo i testimoni contemporanei, Picasso usava il trucco di far credere ai bambini che non voleva ritrarre loro, ma i loro peluche o le loro bambole. Questo spiega anche l’atteggiamento ostensivo della piccola Paloma”. Di Paloma c’è pure un ritratto accostato per contrasto a quello del fratello: linee nere su sfondo bianco per la bambina, bicromia invertita per Claude (Paloma e Claude, 16 aprile 1950, litografia (disegno a mano [con inchiostro] su carta transfer, ristampato su pietra).
In questo percorso ben rappresentativo dell’universo picassiano si avverte forse solo la mancanza di alcune figure tipiche del repertorio dell’artista, come i melanconici arlecchini e i personaggi del circo. Assenza più che bilanciata, nell’ampio spazio centrale della sala, dalle meravigliose ceramiche create dopo la Seconda guerra mondiale a Vallauris, nel sud della Francia, tra cui lo splendido piatto rettangolare con le Tre sardine, terracotta bianca, decorazione ingobbiata, incisione a coltello sotto smalto giallo (n. 98/200; Kunstmuseum Pablo Picasso Münster, collezione Classen) e quello con la Colomba brillante (1953, ceramica, piatto rettangolare, collezione Nicola Pontalti, Trento), la brocca Gufo (1954, brocca tornita, terracotta bianca, decorazione a ossido su smalto bianco, 500 esemplari prodotti; Kunstmuseum Pablo Picasso Münster, collezione Classen), quella con La donna del Barbuto (1953, ceramica, brocca trasformata; collezione Nicola Pontalti, Trento). O, ancora, Jacqueline al cavalletto (1956, ceramica, piatto rotondo, collezione Nicola Pontalti, Trento) vera e propria traduzione in ceramica di un’opera tra il cubista e il surrealista, che rende evidente come Picasso fosse fedele alla propria autonomia stilistica a prescindere dal materiale e dall’oggetto col quale si cimentava.
L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza
Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e dal compianto Folco Quilici nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).