Il dipinto più poetico e più freddo al tempo stesso esposto a Palazzo Strozzi a Firenze (fino al 26 gennaio) nella mostra Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, s’intitola Mornings (Mattine) e risale al 1971. La pittrice americana aveva 43 anni e già attraversato alcuni momenti, chiamiamoli così, dove la sua pittura portava alla superficie una sorta di legame amicale ogni volta con artisti “astratti” dei quali aveva recepito certe invenzioni linguistiche. Il quadro presenta campiture verticali di giallo prima intenso e poi via via più chiaro e secco, in altri due strati, attraversati da filamenti neri. Un dipinto abbastanza diverso da altri dell’epoca, anche se non un unicum.
La pittura di Helen all’inizio, anni Cinquanta, tenne conto del totemismo cosmico grafico di Pollock, cercando ai margini delle proprie forme colorate quel “contorno” che conferiva alle stesse una sostanza plastica e quasi scultorea senza sconfinare nella tridimensionalità. Ma non c’era soltanto Pollock: la pittrice entrò dentro il raggio d’influenza dei pittori “Irascibili” che con Pollock formarono la cosiddetta Scuola di New York, esposta a Milano una decina d’anni fa: Willem de Kooning, Mark Rothko, Robert Motherwell, Barnett Newman, Franz Kline e vari altri.
Il decennio successivo, gli anni Sessanta, decretarono il successo della Pop Art come feticcio della società dei consumi. Un’arte che la dimensione “contemplativa” di Frankenthaler sembra quasi non vedere. Il massimo consentito è misurarsi con la scultura astratta ma carica di valori costruttivi e, per certi aspetti, postfigurativi, di David Smith col quale ebbe una profonda e duratura amicizia fin dal Dopoguerra. Penetra invece nello sguardo di Helen la nebulosa trascendente di forme rettangolari stratificate che rese universalmente celebre Mark Rothko, masse assorbenti di colore sublimato che non raggiunge mai l’astrazione pura; e del resto questo si spiega quando si pensa alle radici ebraiche del pittore americano originario della Lettonia, che si toglierà la vita nel 1970. Rothko sembra svelare a Helen il segreto di forme irregolari che fluttuano sul limite dell’ambiguità perché sono astratte e allo stesso tempo suggeriscono un “oltre” che ha a che fare con la mistica (in Cape – Provincetown del 1964 Frankenthaler crea una composizione di colori-masse in successione tonale azzurro denso che terminano con una forma quasi surreale e alla base hanno due bande verdi e gialle. C’è qualcosa di simbolico in queste composizioni, oppure dobbiamo arrenderci all’idea che questo colore di Helen ha qualcosa di ontologicamente femminile?).
Con il marito, Robert Motherwell, Helen compone un sodalizio iniziato alla fine anni Cinquanta quando i due s’incontrano nella Galleria di Leo Castelli – l’artefice delle fortune sia dei protagonisti dell’espressionismo astratto, sia di certi esponenti della Pop Art. Helen però mantiene sempre la sua autonomia, che è anche, come scrive Douglas Dreishpoon nel catalogo (Marsilio arte), una sua particolare forma di ambiguità. Si tratta del modo con cui la pittrice si relaziona allo spazio, che trova in artisti come David Smith, Anne Truitt e Anthony Caro un rapporto d’amicizia e di reciproche confessioni artistiche che dura decenni e che ha lasciato traccia in un cospicuo carteggio fra loro di cui nel catalogo è pubblicata per la prima volta una buona scelta di lettere che illuminano un punto fondamentale: fra la pittura di Frankenthaler e i suoi scambi epistolari esiste una relazione esistenziale. Intendiamoci, non si tratta soltanto di racconti intimistici, di esperienze umane, di episodi accaduti da cui la sua pittura trae alimento come emozione; al contrario, quella pittura, nella sua variegata espressione formale, è il retroterra sul quale si proietta la vita dell’artista. Ma il dato essenziale, senza nulla togliere al rapporto amicale – in genere sono tutti artisti che condividono una ricerca sull’arte dove ciascuno raggiunge la propria cifra con una piena libertà: lo slogan di Frankenthaler, scelto come titolo di questa mostra, è: “senza regole”, di cui noi dobbiamo sempre fare un’analisi critica se vogliamo capire che cosa intenda l’artista –, il centro di questa storia è sempre e comunque la pittura.
Visto che ne abbiamo accennato, entriamo un po’ in profondità nel significato di “senza regole”. Se noi guardiamo bene, difficilmente confonderemo la pittura di Frankenthaler con quella dei suoi “maestri” o con il linguaggio dei suoi amici scultori. Lo sforzo per mantenere questo legame senza esserne succube è appunto la piena libertà di idee e di azione. Si deve considerare che tra fine anni Quaranta e anni Cinquanta, l’astrattismo divenne il vangelo della pittura americana. È utile ricordare che un fenomeno concettuale come quello di Duchamp comincia a emergere sulla scena negli anni Cinquanta proprio grazie al collezionismo americano (dove egli era attivo anche come guru dell’arte nuova: fu lui, per esempio, a farsi tramite già nel 1926 nella mostra di Costantin Brancusi a New York City, che scatenò un caso internazionale poiché un doganiere trattò Uccello nello spazio come un normale utensile domestico, e quindi lo sottopose a tassazione, anziché considerarlo opera d’arte. Questo generò un processo che per la prima volta portò per così dire alla sbarra l’astrattismo).
Nella Francia dove oggi esiste persino un annuale Premio Duchamp (che di solito sceglie artisti e opere che hanno ereditato ben poco del genio di Marcel), fino al 1977 egli era quasi ignorato, e la prima retrospettiva gli venne dedicata quell’anno in occasione dell’inaugurazione del Beaubourg, voluta da Pontus Hulten, il direttore in pectore, e curata da Jean Clair che produsse ben tre tomi di catalogo. Tutto ciò per dire che l’astrattismo fu anzitutto la novità artistica americana del Dopoguerra, anzi fu una sorta di arma segreta in quella che è stata chiamata “The Cultural Cold War”, quando si scoprì ormai tre decenni or sono che a partire dagli anni Cinquanta la Cia sponsorizzò gli artisti astratti americani – Pollock, De Kooning, Rothko ecc. – contrapponendone la forza estetica a quella dei pittori del realismo socialista sovietico. Mentre l’astrattismo cominciava appena a diffondersi in America negli anni Trenta, nello stesso periodo, proprio a New York e dintorni, dominava una congerie di pittori realisti che non erano affatto da buttare e che si riallacciava alla vicenda dei pionieri yankee. Quindi, quando guardiamo Frankenthaler, dobbiamo pensare che, pur essendo l’astrattismo un valore importato dall’Europa, in America esso divenne una forma d’avanguardia elitaria, diciamo così, che ha cercato di fare dell’arte un idioma internazionale della libertà creativa. Il che non deve far dimenticare quanto questa idea abbia accompagnato le sorti magnifiche e progressive del capitalismo americano. Con queste premesse, la contrapposizione Cia-Sovietici trovava anche un terreno di sfida culturale che sembrava contrapporre modernisti e reazionari.
Quando Frankenthaler dice “senza regole”, in qualche modo raccoglie la scommessa che era stata presa in carico nell’immediato dopoguerra dai suoi predecessori di circa una generazione, Rothko e Pollock appunto, che all’indomani della guerra abbracciarono apertamente l’astrattismo dopo aver meditato su primitivismo, figurazione e surrealismo. Il discorso retrocede di un’altra generazione abbondante quando si pensi che uno dei primi pittori combattuto fra espressionismo europeo e impulsi astratti fu Mardsen Hartley, il maestro di Pollock, che negli anni Dieci si trovava in Europa dove a cavallo della Grande Guerra elaborò quadri dal carattere simbolico, totemico e astratto, un espressionismo magico-esoterico dal quale imboccò poi la strada che sarà percorsa dall’espressionismo astratto americano, portatore di sostanziali reminiscenze arcaiche derivate dall’incrocio con le culture indigene di secoli prima, che hanno lasciato “warburghianamente” tracce mnestiche sulla psiche americana. Sul piano della fenomenologia è una via mediana, per così dire, fra un sospetto di linguaggio parzialmente figurativo e una valenza sostanzialmente astratta della forma-colore, che ritroviamo anche in Frankenthaler. Potremmo seguirla in quadri astratti come Muro aperto (1953), Sogno occidentale (1957) o Pensieri mediterranei (1960) – dove sembra quasi riemergere in filigrana il ricordo di certe cose di Hartley –, ma poi, oltre a Cape, già citato, Tutti-frutti (1966), Mobile blu e Fiesta (1973), Plexus (1976) Madrid (1984), Janus (1990), Il progresso del rastrello (1991), la straordinaria tela acrilica Maelstrom del 1992, che volge al bianco una informalità lontanamente debitrice del sentimento cosmico di Pollock, e infine Impianto solare (1995). Ho voluto citare di seguito questi quadri senza troppi commenti perché si tratta di opere da guardare e da compulsare evitando di cercare spiegazioni in significati “rappresentativi”. È il colore stesso che parla, nelle forme in cui è dipinto. Un varcare la soglia dell’età anagrafica, scrive il curatore, per entrare del colore che rivela una nuova realtà (non so se col tempo rimanga il meglio, come scrive, personalmente mi pare che il meglio di Frankenthaler stia fra anni Settanta e Ottanta).
E questo ci porta al secondo tema che emerge osservando i quadri di Frankenthaler. Si tratta, e non va intesa come una diminuzione, di pittura femminile. Douglas Dreishpoon definisce la pittrice una “femminista riluttante”, e non è difficile concordare, perché, come scrive il critico, la sua pittura pone essenzialmente questioni estetiche. È un sentire in profondità. La critica Barbara Rose, per esempio, ebbe una esperienza di ansietà dopo aver visto nel 1970 un dipinto di Helen degli anni Cinquanta che la lasciò “straziata” quando in alto a destra vide la cifra 173. Si ricordò infatti di un incontro a casa di Frankenthaler-Motherwell prima che Barbara divorziasse da Frank Stella, e poiché i due pittori abitavano al 173 della East 94th Street, quel numero le ricordò tristemente i giorni felici col suo ex marito. Questo, peraltro, smuove un sedimento di vita che sta al di là della pittura stessa: è quasi parapsicologia. Frankenthaler invece ci fa capire che la pittura di una donna è diversa da quella maschile proprio nella valenza strutturale: perché una pittrice difficilmente considera il quadro una soglia tra figurativo-astratto o tra forma-informe; la tela, senza voler dare all’espressione il senso di un rispecchiamento con la condizione materna della donna, è come una nebulosa cosmica dove spazio e tempo contengono tutte le forme di vita, e soltanto una emerge sulla tela con il contenuto di un “essere” fatto di colori.
L'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti
Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).