Un frequente, continuo e malinconico senso del sublime pervade le pagine della Dismissione di Ermanno Rea, il romanzo che narra lo smantellamento dell’Ilva di Bagnoli dal punto di vista del tecnico incaricato di attendere alla buona riuscita delle operazioni di recupero degl’impianti da vendere ai cinesi. Questa lunga evocazione è forse il vero personaggio principale del racconto: la si respira dall’inizio alla fine. Quando il protagonista, Vincenzo Buonocore, s’aggira nello stabilimento durante le ispezioni notturne, quando sempre di notte, a casa, immagina ed elabora soluzioni per ovviare agl’inconvenienti tecnici che l’immane impresa seguita a presentare, quando s’arrampica sulle torri della fabbrica e vien quasi assalito da un senso di vertigine mai provato prima, quando con malinconia ripensa all’enormi colate dalle quali si produceva l’acciaio finché lo stabilmento funzionava a pieno regime, quando s’industria per fare formazione ai cinesi, appena arrivati e curiosi, davanti alla vastità delle macchine. Un’immagine riassume bene questa sensazione: è quando Buonocore conduce per la prima volta il lettore dentro lo stabilimento. “Eccolo, il mio impianto, immenso come una cattedrale con un’unica navata grigio-azzurra dall’alta volta a coste e i fianchi arabescati da geometriche carpenterie, percorsi da fasci di tubi simili a sistemi venosi, scale, binari, aerei corridoi”.
Per trovare nell’arte un “sublime industriale” (chiamiamolo così) di pari effetto, si può tornare fino anche al Settecento e ai quadri dello svedese Per Hilleström, tra i pochissimi dell’epoca a provare queste sensazioni dinnanzi ai fumi d’una fabbrica, oppure ai vapori che avvolgono le strade ferrate di Turner, per non parlare degl’immensi stabilimenti di Adolph von Menzel o di Anders Montan. Tra i contemporanei, per limitare lo sguardo all’Italia, vengono in mente i dipinti di Andrea Chiesi, o le fotografie di Carlo Vigni e di Carlo Valsecchi. Di certo riesce difficile sperimentare gli stessi turbamenti emotivi percorrendo il Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti, che pure, stando ai testi del curatore Eugenio Viola, vorrebbe dichiaratamente evocare le ambientazioni della Dismissione di Ermanno Rea. Storia della notte e destino delle comete, questo il titolo del progetto di Tosatti e Viola, è una sorta di viaggio nell’Italia industriale che ripercorre le tappe dell’ascesa e del declino del “miracolo italiano”, per citare ancora dai testi programmatici, offrendo al pubblico la possibilità di calarsi nel contesto di una serie di fabbriche dove la produzione s’è fermata (nella fattispecie un cementificio, un impianto chimico fermo, un laboratorio tessile e un magazzino con gli scaffali ormai vuoti), entrando nell’interno d’un’abitazione abbandonata (tornano quindi gli ambienti cari a Tosatti) con tanto di telefono a muro, piastrelle da appartamento degli anni Sessanta e infissi in alluminio, per terminare davanti a una distesa d’acqua dove, sul fondo, alcune luci s’accendono a intermittenza.
La possibilità di provare qualunque sensazione s’arresta, intanto, davanti alla fiction, per così dire: più che di sublime occorrerebbe semmai parlare di posticcio. I pittori del primo Ottocento tentavano d’esprimere l’inesprimibile, di trasmettere con le immagini il senso d’impotenza che s’impadroniva del loro animo, coinvolgendo anche il riguardante in questa loro discesa nel profondo oscuro della loro interiorità. Le distese industriali dei loro colleghi di fine secolo veicolavano anche forti contenuti di denuncia sociale: si pensi ai terribili, opprimenti paesaggi minerarî d’un Constantin Meunier, senza voler elencare tutti quegl’italiani che tra fine Otto e inizio Novecento hanno tradotto in immagini cariche e forti le condizioni dei lavoratori del tempo. E le rovine contemporanee di Andrea Chiesi sono visioni, quasi pervase da una luce metafisica, più che documentazioni. Col Padiglione Italia di Tosatti s’entra invece nel campo della scenografia, della ricostruzione teatrale, del set per il cinema, della simulazione più smaccata. Non si comprende quale sia il senso di una mímesis così penetrante quando la realtà è a portata di mano, quando molti in Italia hanno esperienze dirette di chiusure o fallimenti di fabbriche, quando chiunque può dire d’avere una certa confidenza col paesaggio industriale colmo di stabilimenti dismessi: l’installazione di Tosatti potrà essere un’eccezionale rivelazione per lo scintillante mondo della contemporary art che spesso una fabbrica non l’ha mai vista neanche in cartolina, ma per tutti gli altri la Storia della notte è un’opera che s’ammira in qualunque periferia di qualsivoglia città italiana. In che modo dunque il Padiglione Italia, almeno nella prima parte, può attivare una riflessione su quel “modello fondato esclusivamente sul profitto”, citando Eugenio Viola, che “ha prodotto una crescita indifferente ai problemi del territorio”? O meglio: in che modo riesce ad attivare il visitatore più di quanto non faccia una realtà che ci parla ogni giorno di lavoratori in condizioni sempre più precarie (quando non di morti sul lavoro), d’imprenditori che operano in situazioni sempre più difficili, di un mondo del lavoro che rischia d’esser ulteriormente sfigurato dagli eventi che sconvolgono il pianeta? Dov’è che termina la ricostruzione e comincia l’arte, dov’è che finisce la retorica e comincia la poesia?
Certo, Tosatti ha avvertito ex post il pubblico circa la presenza di uno dei cosiddetti “cortocircuiti”, per usare un termine caro ai curators, che dovrebbero aprire a letture altre: malgrado la ricostruzione ci riporti nell’Italia degli anni Sessanta (da una radiolina dell’epoca escono anche le note di Senza fine di Gino Paoli: questo almeno durante il tempo in cui chi scrive ha percorso il Padiglione, ma non so se la playlist includa altri brani), i macchinarî che il pubblico incontra sono stati almeno in gran parte ottenuti da aziende che hanno chiuso durante la pandemia di Covid-19. Nell’idea di Tosatti, l’espediente dovrebbe comunicare gli scarsi progressi che l’idea del lavoro ha compiuto in Italia negli ultimi decennî. Evidentemente, se le macchine sono nuove, sfugge all’artista il fatto che per un pubblico di non addetti ai lavori l’aspetto estetico di, mettiamo, un tornio industriale per il marmo di ultima generazione non è così diverso rispetto a quello che poteva avere lo stesso macchinario quarant’anni fa, e dunque è difficile che possa arrivare a cogliere questa sottigliezza chi non ha mai lavorato in fabbrica, e se invece sono d’epoca sfugge il fatto che in certi comparti alcune macchine, se sottoposte a regolari manutenzioni e tenute in ottima salute, hanno cicli vitali anche molto lunghi, oppure possono essere appositamente utilizzate per ottenere prodotti particolari, come fa Diadora che nel 2015 ha rimesso a nuovo vecchie macchine degli anni Sessanta al fine di creare modelli cosiddetti vintage dalla cura quasi artigianale. È dunque un “cortocircuito” che non si può cogliere se non interviene l’artista a spiegarlo, e qui s’innesta quello che appare un ulteriore minus di questo Padiglione Italia, ovvero il fatto che sia un enorme monolite. Il racconto è quello ch’è stato preparato da artista e curatore senza che ci sia possibilità alcuna di deviazione, di lettura su diversi livelli, d’interpretazione: un’unica versione, quella approntata da Tosatti e Viola e da loro somministrata al pubblico chiamato a percorrere la “complessa macchina narrativa esperienziale” (o il “dispositivo”, altro termine particolarmente in voga tra i curatori à la page, qualunque cosa voglia dire) del Padiglione Italia seguendo pedissequamente il filo della narrazione che artista e curatore gli ammanniscono senza richiedere particolare impegno. È vero che l’ermeneutica preconfezionata è oramai comune a gran parte dell’arte contemporanea, ma altrove si può almeno incontrare un poco di poesia.
La messa in scena di Tosatti si pone come ultimo prodotto di una linea che parte dalle pionieristiche installazioni di Edward Kienholz, attraversa gli ambienti di lavoro di Mike Nelson, le ricostruzioni precise e sbilenche di Glen Seator, gli interni disastrati di Christoph Büchel e le “case morte” di Gregor Schneider e, citando in questo caso anche le macchine da cucire di Kounellis, arriva alle tante installazioni immersive che imperversano negli spazî espositivi di tutto il mondo, Biennale di Venezia compresa (varrà la pena rimarcare come Nelson e Schneider avessero già portato nei padiglioni dei loro paesi, la Gran Bretagna e la Germania, rispettivamente nel 2011 e nel 2001, un laboratorio e una casa abbandonata), e si pone pertanto come un’opera puramente manierista. Nel senso letterale del termine, senza dunque implicazioni che abbiano a che fare con le inquietudini che attraversavano i lavori del manierismo cinquecentesco: sintomatico il fatto che la dismissione più potente di cui si possa parlare è quella che Adrian Searle, recensendo la Biennale di Venezia per il Guardian, ha fatto dello stesso Padiglione Italia, respinto in mezza riga senza neanche citare il nome dell’artista, in modo disarmante (“sembra la parodia di un’installazione di Mike Nelson”, ha scritto Searle). Se la scelta di un solo artista per il padiglione nazionale, fatto inedito per l’Italia (e salutato da molti in maniera positiva al momento dell’annuncio: chi scrive però ha sempre ritenuto la scelta di un unico artista troppo limitativa nei riguardi del panorama artistico italiano, e il fatto che altri paesi da anni scelgano un solo nome non è di per sé un buon motivo per imitarli), ha dovuto produrre questo risultato, forse sarà meglio che dal 2024 si torni a proposte più in linea con la tradizione domestica.
Il Padiglione Italiano vorrebbe avere anche un fine pedagogico: diciamo così per non avanzare accuse di moralismo che Tosatti e Viola hanno peraltro rifiutato anzitempo, già durante la conferenza stampa in cui è stato annunciato il titolo del progetto. L’idea è quella di riflettere anzitutto sulla “frustrazione di una classe operaia giunta al capolinea”, che si barcamena tra “sussidî di disoccupazione” e “ricollocamenti difficili”, per poi giungere a respingere una “posizione drammatica” al fine di convogliarne una “propositiva e ottimista”, che affronti la necessità di porre le questioni ambientali “in primo piano nell’agenda politica” e di investire in ricerca e formazione. Ma dov’è la denuncia? E come non rilevare la contraddizione tra le “frustrazioni” della classe operaia e un padiglione costato due milioni di euro, un terzo dei quali garantiti dallo Stato e il rimanente dagli sponsor, tra i quali Sanlorenzo e Valentino (che ha pure organizzato una cena con bouquet floreali alle Tese di San Cristoforo, vicino dunque alle finte rovine di Tosatti, con tintinnio di calici e sfilate di dame eleganti e cavalieri in black tie a margine del progetto che vorrebbe assurgere a simbolo del dramma dei lavoratori), e dunque tra l’intento di denunciare la catastrofe, la miseria, e il gigantismo di una giostra effimera, enorme e costosa finanziata dai marchi del lusso? “La povertà per il popolo, per noi Valentino” ha sentenziato sarcastico Vittorio Sgarbi in un divertente video pubblicato sulla sua pagina Facebook.
Se dunque la pars destruens non tiene, si spera almeno nell’“epifania finale”: confesso d’esser stato probabilmente l’unico a non aver colto il riferimento alle lucciole di Pasolini (e sì che, anche qui, Viola e Tosatti ci avevano preparati in conferenza stampa enumerando puntualmente i loro riferimenti letterarî, inclusi i coleotteri pasoliniani). Sarà che, essendo nato e vissuto sempre sul mare, non ho mai visto lucciole sull’acqua, e le ho dunque equivocate per le comete di cui parla il titolo del progetto, ma poco cambia: in che modo la catarsi garantita dalle lucciole (o comete che siano), peraltro finte, dovrebbe convincere il visitatore ad “affrontare meglio le sfide del futuro”? Usciti dal padiglione, le lucciole finte spariscono: il problema è che la simulazione è talmente evidente, e l’impressione di trovarsi sul set di un film così dirompente, che l’esperienza che Viola e Tosatti vorrebbero attivare, chiamando il pubblico a compiere un “viaggio sensibile all’interno della macchina visiva”, difficilmente si compie. Volendo presentare un esempio familiare a chiunque visiterà il Padiglione Italia, nel paesaggio della giovane Precious Okoyomon, nel quale ci s’imbatte alla fine della mostra internazionale, poco prima d’arrivare alla Storia della notte, s’incontrano farfalle vere, evenienza che rende più labili e smussati i confini dell’esperienza personale del visitatore, risultando così più in grado di spronare la risposta del pubblico. Converrà dunque andare anzi a cercar le lucciole in un bosco o in un giardino. E poi, il racconto di Viola e Tosatti è talmente monolitico e lascia così poco spazio all’autonomia di lettura da parte del pubblico, che riesce difficile farsi domande alla fine di un percorso peraltro privo di qualunque contestualizzazione storica che certo avrebbe tolto carattere all’installazione, dato che l’intento è quello di far attraversare più epoche in un unico spazio, ma avrebbe reso più significativa l’esperienza del pubblico. Se è vero quel che Jacques Rancière scriveva nel suo Le spectateur émancipé del 2008, ovvero che l’identità dello spettatore si costruisce nel divario tra se stesso e l’opera d’arte, e che il vero potere del pubblico sta nella libera possibilità da parte di ogni spettatore di poter esercitare quel “gioco imprevedibile di associazioni e dissociazioni” che innesca l’emancipazione, un processo che comincia quando si comprende che anche lo spettatore in qualche modo agisce, allora si potrebbe dire che il progetto del Padiglione Italia, annullando quasi del tutto l’imprevedibile, riduce anche al minimo le possibilità per il visitatore.
E di sicuro si poteva anche far a meno dell’impalcatura letteraria chiamata a sostenere il progetto: Pasolini viene tirato in causa in modo scolastico, superficiale e fin troppo scontato, e non v’è traccia alcuna della complessità che riempie le pagine della Dismissione di Rea, una storia ben più umana e intima di quella raccontata da Storia della notte e destino delle comete (e, a proposito, a poco vale l’idea di dover compiere da soli e in silenzio l’esperienza, se poi ci si ritrova catapultati tra vicini chiassosi e compagni di viaggio in vena di farsi selfie nello squallore che Tosatti vuole ricreare). Non siamo alla banalità pretenziosa del Padiglione Italia della scorsa edizione, ma neppure serviva evocare capisaldi della letteratura degli ultimi cinquant’anni per giustificare una grande giostra, perfetta per il luna park della Biennale, che ultimamente ha la tendenza a premiare (sia che si parli di critica, sia che si parli delle preferenze del pubblico) le installazioni immersive: si pensi solo agli ultimi due Leoni d’Oro, quello di quest’anno assegnato alla Gran Bretagna che ci porta in una specie di sala incisioni, o ancor peggio a quello dell’anno scorso per la spiaggia facilona della Lituania.
Sono passati dieci anni da quando Nelson s’interrogava su come evitare che il suo I, Impostor venisse inghiottito da questo aspetto ludico della Biennale, da quell’effetto di parco di divertimenti che immancabilmente accompagna la visita, e cercava dunque le modalità per conservare quell’ambiguità e quella possibilità d’interpretazione aperta che dovrebbero caratterizzare un’opera d’arte. Con Storia della notte e destino delle comete questa barriera sembra essere caduta. Il modo migliore per visitare il Padiglione Italia, allora, è arrivarci consapevoli di salire su di un carosello per adulti. Come entrare in un’attrazione tematica di Disneyland. Non serve neanche far la fatica di pensare, anche a questo hanno già pensato per noi. I lavoratori, intanto, continueranno a rimanere fuori.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).