Orazio Gentileschi nelle Marche: della nobiltà e della complessità della provincia. La mostra di Fabriano


Recensione della mostra “La luce e i silenzi. Orazio Gentileschi e la pittura caravaggesca nelle Marche del Seicento” a Fabriano, Pinacoteca Civica Bruno Molajoli, fino all'8 dicembre 2019.

Tra gli episodî della biografia di Caravaggio meno frequentati dagli studiosi è forse possibile annoverare il soggiorno che il grande pittore lombardo compì nelle Marche tra l’ottobre del 1603 e l’aprile del 1604: il prodotto di quei pochi mesi di permanenza nella regione, una tela che si trovava nella chiesa di San Filippo ad Ascoli Piceno e di cui Longhi parlò “come esempio al limite delle possibilità di immaginare un originale del Caravaggio anche da una copia estremamente depressa e sbrigativa” (dacché è grazie a una copia che lo studioso risalì all’esistenza del dipinto), è andato perduto dopo le spoliazioni napoleoniche. Il viaggio di Michelangelo Merisi nella regione ebbe scarsi effetti su di un territorio non ancora disposto a rendersi recettivo nei confronti delle novità che andavano producendosi in Roma, ma la notizia di questa sua escursione marchigiana è utile per comprendere i successivi sviluppi del caravaggismo nella zona. Le Marche e Roma, all’epoca, erano infatti legate a doppio filo: si trattava di connessioni economiche (le Marche erano probabilmente la regione più ricca e produttiva dello Stato Pontificio) e culturali, dal momento che un gran numero d’artisti e intellettuali lasciava le terre al di là dell’Appennino per raggiungere la capitale, e il tragitto inverso veniva spesso percorso dalle opere prodotte in Roma dai più grandi artisti del tempo per essere inviate ai ricchi committenti d’Ancona e dintorni. Basti pensare che, nel giro d’appena quattro anni, la regione aveva conosciuto la già menzionata presenza di Caravaggio, era stata meta di Guido Reni e Lionello Spada che nel 1604 si recarono a Loreto per discutere del progetto per gli affreschi della nuova sacrestia nella basilica della Santa Casa (un incarico che poi fu assegnato a Cristoforo Roncalli), e nel 1608 vedeva arrivare uno dei capolavori di Rubens, la Natività eseguita dal pittore di Siegen per gli oratoriani di Fermo.

È in questo contesto che si colloca l’arrivo ad Ancona della Circoncisione di Orazio Gentileschi (Pisa, 1563 - Londra, 1639): l’artista pisano la eseguì a Roma nel 1607 per un aristocratico anconetano, Giovanni Nappi, che aveva finanziato la costruzione della chiesa del Gesù, luogo per il quale la pala era intesa e dove tuttora si conserva. La pala di Ancona è la prima opera che Gentileschi dipinse per le Marche e, oltre a fornire occasione per rammentare i collegamenti che al tempo sussistevano tra la capitale del papato e la regione affacciata sull’Adriatico (Nappi faceva parte della delegazione anconetana che nel 1605 si recò a Roma, e si suppone che l’artista entrò in contatto col ricco nobile grazie al cardinale Claudio Acquaviva, preposito generale dei gesuiti e grande appassionato di artisti toscani), costituisce anche il punto di partenza ideale per introdurre la mostra La luce e i silenzi. Orazio Gentileschi e la pittura caravaggesca nelle Marche del Seicento (alla Pinacoteca Civica di Fabriano fino all’8 dicembre 2019), importante rassegna che si pone un duplice obiettivo: indagare a fondo i termini della presenza del pittore nelle Marche e tracciare un itinerario del caravaggismo nelle Marche, una regione che, sebbene non immediatamente associata come altre (il Lazio o la Campania, ad esempio) al diffondersi della lezione del maestro milanese (essenzialmente per due motivi: la breve durata del soggiorno di Caravaggio in zona e l’odierna assenza di sue opere sul territorio), fu al contrario interessata da frequenti incursioni caravaggesche, “sia per motivi autoctoni, cioè per la presenza di artisti nati all’interno dei confini, sia per fortunate contingenze collezionistiche o di committenza”, come giustamente evidenzia Gianni Papi nel suo saggio a catalogo, dedicato proprio al tema del caravaggismo marchigiano.

Sebbene ci siano state ricognizioni recenti sull’operato di Gentileschi nelle Marche (si ricorda per esempio quella proposta da Livia Carloni in occasione della mostra su Orazio e Artemisia Gentileschi tenutasi a Roma, a New York e Saint Louis tra il 2001 e il 2002), mai prima d’ora il ruolo dell’artista era stato posto in così stretta correlazione col milieu artistico che di lì a poco si sarebbe sviluppato anche grazie al suo fondamentale contributo. A dar conto della novità dell’operazione basti pensare al fatto che prima d’ora mai s’era avuta l’opportunità d’un così vasto confronto diretto tra lo stesso Gentileschi e il più illustre dei caravaggeschi marchigiani, Giovanni Francesco Guerrieri (Fossombrone, 1589 - 1657), il cui rapporto col pisano è stato spesso travisato, e la rassegna di Fabriano si propone di chiarirne la natura in maniera approfondita, premurandosi di ben sottolineare quell’indipendenza di Guerrieri che tante volte non è stata data per scontata (tutt’altro). Ma si pensi anche al fatto che la mostra di Fabriano, curata da Anna Maria Ambrosini Massari e da Alessandro Delpriori, è la prima di sempre dedicata al “Gentileschi marchigiano”, nonché la prima dedicata alla diffusione del caravaggismo nelle Marche: non una sola mostra, verrebbe da dire, ma più percorsi che s’intrecciano senza tuttavia mai prendere il sopravvento l’uno sull’altro (uno dei pregi dell’esposizione risiede infatti nel suo raffinato equilibrio). In ultimo, una mostra significativa anche per le varie novità critiche emerse, e di alcune di queste si cercherà di dar conto in questa sede.

Sala della mostra La luce e i silenzi. Orazio Gentileschi e la pittura caravaggesca nelle Marche del Seicento
Sala della mostra La luce e i silenzi. Orazio Gentileschi e la pittura caravaggesca nelle Marche del Seicento


Sala della mostra La luce e i silenzi. Orazio Gentileschi e la pittura caravaggesca nelle Marche del Seicento
Sala della mostra La luce e i silenzi. Orazio Gentileschi e la pittura caravaggesca nelle Marche del Seicento


Sala della mostra La luce e i silenzi. Orazio Gentileschi e la pittura caravaggesca nelle Marche del Seicento
Sala della mostra La luce e i silenzi. Orazio Gentileschi e la pittura caravaggesca nelle Marche del Seicento

Ci sono state di recente diverse occasioni espositive nell’ambito delle quali s’è delineata una fisionomia delle arti nelle Marche verso la fine del Cinquecento: sarà qui sufficiente ricordare la mostra del 1992 Le arti nelle Marche al tempo di Sisto V, curata da Paolo Dal Poggetto, e la più recente Capriccio e Natura. Arte nelle Marche del secondo Cinquecento. Percorsi di rinascita, quest’ultima prodotto degli stessi curatori della mostra di Gentileschi a Fabriano (e di conseguenza, per loro stessa ammissione, la rassegna del 2019 ne costituisce una sorta di continuazione). La partenza è pertanto affidata al contesto storico, benché lo scopo non sia quello d’offrire un’esaustiva panoramica sull’arte nelle Marche a fine Cinquecento ma, più in linea con gli obiettivi dell’esposizione, quello di mettere il pubblico nelle condizioni di scorgere i rami sui quali poté innestarsi l’arte di Orazio Gentileschi. Artisti che, in sostanza, si formarono nell’alveo dell’arte precedente, ma conobbero le novità che provenivano da Roma, e seppur nei limiti delle loro possibilità e della loro cultura, si dimostrarono in qualche modo accoglienti nei confronti di queste ultime (sebbene si tratti quasi sempre di adesioni limitate e formali). Di qui l’assenza di opere di Federico Barocci o Federico Zuccari (che pure erano entrambi in piena attività quando Orazio licenziava la sua Circoncisione per Ancona), anche se risulta impossibile non fare i conti, almeno, coi riflessi della loro arte: ne è un esempio la Natività con san Francesco e i pastori di Andrea Boscoli (Firenze, 1564 circa - 1607), opera del 1600 che apre la rassegna, e che si distingue per le sue delicatezze baroccesche ma anche per la forza dei contrasti cromatici che anticipano le nuove tendenze. Il vigore luministico di Boscoli, fiorentino ma marchigiano d’adozione, diventa vigore volumetrico in Andrea Lilli (Ancona?, 1560/1565 - dopo il 1635): nel suo Imbarco forzato della famiglia di Marta e Maddalena, il solido impianto delle due figure sulla sinistra, raffigurate con un naturalismo inusitato per le Marche del tempo (la tela, della basilica della Misericordia di Sant’Elpidio a Mare, è del 1602) e addirittura messe da alcuni (Arcangeli su tutti) in relazione col Caravaggio della Cappella Contarelli (sul caravaggismo di Lilli si dibatte da tempo), fa da ulteriore apripista per ciò che andrà delineandosi di lì a breve con l’arrivo di Gentileschi e la nascita dell’astro di Guerrieri. A completare il discorso sugli antefatti (e “antefatti” è peraltro il titolo della prima sezione della mostra) giunge una pala frutto del lavoro congiunto di Filippo Bellini (Urbino, 1550 - Macerata, 1603) e dell’oscuro Palazzino Fedeli (documentato tra il 1603 e il 1604), che completò il lavoro in seguito alla sopraggiunta scomparsa dell’urbinate: è una Madonna del soccorso con i santi Vito, Pietro, Francesco e Sebastiano, dipinta tra il 1603 e il 1604 (in mostra, la studiosa Lucia Panetti, a seguito di nuove ricerche d’archivio, ha stabilito che l’esecuzione spetta a Fedeli, ovviamente su disegno di Bellini: è una delle novità, dal momento che in precedenza la pala, dalla collegiata di San Pietro a Monte San Vito, si riteneva eseguita totalmente da Bellini). Un impianto iconografico semplice, tradizionale, devozionale (il messaggio tridentino attecchì con forza nelle Marche, fiorente terra d’arte controriformata) s’accende d’un luminismo nuovo, dagli evidenti contrasti chiaroscurali, accentuati da una materia pittorica densa, anch’essa in anticipo sul futuro naturalismo secentesco.

Gentileschi e i caravaggeschi entrano in scena a partire dalla seconda sezione, ordinata con criterio tematico attorno all’iconografia della Maddalena penitente, con al centro, com’è ovvio, la Maddalena che l’artista pisano dipinse per la chiesa di Santa Maria Maddalena a Fabriano su commissione dell’Università dei Cartai (e ancora in quel luogo si trova). Non conosciamo con esattezza il periodo in cui il pittore eseguì la sua Maddalena: occorre tenere a mente, come sottolinea Papi in catalogo, che la cronologia dei suoi dipinti marchigiani è materia difficile, e al di là della Circoncisione, unica opera che è possibile datare con sicurezza, permangono molti dubbî (non abbiamo infatti riscontri certi dai documenti). Quanto alla Maddalena, diversi studiosi sono concordi su di una datazione prossima al 1615, anno in cui l’Università dei Cartai fu aggregata all’arciconfraternita romana di Santo Spirito in Sassia: sappiamo che nel 1612 Gentileschi abitava a Roma, nella parrocchia di Santo Spirito, ragion per cui si presume che qualche prelato, tra le sue conoscenze, possa aver facilitato la commissione. La Maddalena di Gentileschi, come nota Francesca Mannucci nella scheda del dipinto, abbandona “le sensualità manieristiche” per affidarsi a “un linguaggio pacato” con cui l’artista “rende visibile l’atto della redenzione e del pentimento”: un’opera intima, intrisa d’emozione, che declina con la tipica raffinatezza di Gentileschi (derivatagli dalla sua formazione toscana) il naturalismo romano-caravaggesco. La sala introduce anche la figura di Giovanni Francesco Guerrieri, con la sua Maddalena penitente, firmata e datata 1611 (anche se non ne conosciamo l’originaria destinazione), che costituisce un immediato precedente dell’immagine gentileschiana e, allo stesso tempo, è già una dichiarazione d’indipendenza nei confronti dell’arte del pisano. Guerrieri, all’epoca ventiduenne, esordiva in terra natale con questo dipinto dopo aver trascorso qualche tempo a Roma, e a Roma ebbe la possibilità d’aggiornarsi in diretta sulla rivoluzione di Caravaggio: la Maddalena è tra i primi risultati delle riflessioni di Guerrieri. La santa di Guerrieri è lontana dalla mondanità della Maddalena di Caravaggio, ma è anche immune alle languidezze delle Maddalene cinquecentesche: è una donna in sincera meditazione, in un ambiente spoglio e cupo, e la sua bellezza è modellata dalla luce che si staglia vivida sull’ombra, secondo le più aggiornate prescrizioni caravaggesche (il lombardo, peraltro, scompariva solo un anno prima che Guerrieri realizzasse questa tela, uno dei suoi più splendidi capolavori). Se l’eleganza è la più evidente cifra di Gentileschi, l’equilibrio è invece la caratteristica che meglio potrebbe inquadrare l’arte di Guerrieri.

Accanto a queste due tele straordinarie, i curatori hanno disposto, come detto, altre opere sullo stesso tema per far emergere affinità e divergenze: ecco dunque pararsi dinnanzi allo sguardo compiaciuto del pubblico la Maddalena di Guido Cagnacci (Santarcangelo di Romagna, 1601 - Vienna, 1663), insolitamente morigerata e dimessa per il più grande fuoriclasse della sensualità secentesca (ma lo comprendiamo se si pensa che la tela era destinata a un convento di suore benedettine), quella di Simon Vouet (Parigi, 1590 - 1649), che viceversa palesa gran parte del suo potenziale erotico (si trattava del resto d’un dipinto destinato a un privato), e ancora la Maddalena di Simone Cantarini (Pesaro, 1612 - Verona, 1648) che com’è tipico dei modi del pesarese unisce naturalismo caravaggesco e classicismo reniano (anche l’arte emiliana trovò spesso felice accoglienza nelle Marche) in una sintesi che probabilmente non ebbe eguali. Meritano infine una menzione l’altra Maddalena di Guerrieri, variante più sofisticata di quella del 1611, che fornisce occasione per ragionare anche sul tema delle copie e delle repliche, molto frequenti nell’arte del Seicento in quanto ritenute formidabile mezzo di diffusione delle idee d’un artista (e ovviamente tanto più alto il numero di copie e repliche, tanto maggiore è la fortuna dell’artista: si pensi al tema delle copie di Caravaggio e a quanto sia importante per la critica odierna), e quella, sensuale, di Giovanni Baglione (Roma, 1566/1568 - 1643), attestazione della fama che il pittore romano aveva raggiunto anche nell’Umbria e nelle Marche, oltre che dipinto piuttosto esemplificativo della sua maniera (“si assiste in questa Maddalena”, scrive lo studioso Michele Nicolaci in catalogo, “alla felice sintesi di più registri stilistici, dall’approccio ai volumi netti di impianto naturalista ad una certa idealizzazione della figura femminile nel paesaggio di tradizione più reniana e classicista”).

Orazio Gentileschi, Circoncisione con l’Eterno tra gli angeli e santa Cecilia che suona l’organo (1607; olio su tela, 390 x 252 cm; Ancona, chiesa del Gesu?)
Orazio Gentileschi, Circoncisione con l’Eterno tra gli angeli e santa Cecilia che suona l’organo (1607; olio su tela, 390 x 252 cm; Ancona, chiesa del Gesu?)


Andrea Boscoli, Natività con san Francesco e i pastori (1600; olio su tela, 316 x 198 cm; Fabriano, Pinacoteca civica Bruno Molajoli)
Andrea Boscoli, Natività con san Francesco e i pastori (1600; olio su tela, 316 x 198 cm; Fabriano, Pinacoteca civica Bruno Molajoli)


Andrea Lilli, Imbarco forzato della famiglia di Marta e Maddalena (1602; olio su tela, 386 x 210 cm; Sant’Elpidio a Mare, Basilica di Santa Maria della Misericordia)
Andrea Lilli, Imbarco forzato della famiglia di Marta e Maddalena (1602; olio su tela, 386 x 210 cm; Sant’Elpidio a Mare, Basilica di Santa Maria della Misericordia)


Filippo Bellini e Palazzino Fedeli, Madonna del Soccorso con i santi Pietro, Vito, Francesco e Sebastiano (1604; olio su tela, 350 x 160 cm; Monte San Vito, collegiata di San Pietro apostolo, in deposito presso la Pinacoteca diocesana di Senigallia)
Filippo Bellini e Palazzino Fedeli, Madonna del Soccorso con i santi Pietro, Vito, Francesco e Sebastiano (1604; olio su tela, 350 x 160 cm; Monte San Vito, collegiata di San Pietro apostolo, in deposito presso la Pinacoteca diocesana di Senigallia)


Orazio Gentileschi, Santa Maria Maddalena penitente (1612-1615; olio su tela, 215 x 158 cm; Fabriano, chiesa di Santa Maria Maddalena)
Orazio Gentileschi, Santa Maria Maddalena penitente (1612-1615; olio su tela, 215 x 158 cm; Fabriano, chiesa di Santa Maria Maddalena)


Giovanni Francesco Guerrieri, Santa Maria Maddalena penitente (firmata e datata 1611; olio su tela, 185 x 90 cm; Fano, Pinacoteca San Domenico, Fondazione Cassa di Risparmio)
Giovanni Francesco Guerrieri, Santa Maria Maddalena penitente (firmata e datata 1611; olio su tela, 185 x 90 cm; Fano, Pinacoteca San Domenico, Fondazione Cassa di Risparmio)


Guido Cagnacci, Santa Maria Maddalena penitente (1640 circa, post 1637; olio su tela, 218 x 157 cm; Urbania, chiesa di Santa Maria Maddalena)
Guido Cagnacci, Santa Maria Maddalena penitente (1640 circa, post 1637; olio su tela, 218 x 157 cm; Urbania, chiesa di Santa Maria Maddalena)


Simon Vouet, Santa Maria Maddalena e due angeli (1622 circa; olio su tela, 136,6 x 112,4 cm; Collezione privata)
Simon Vouet, Santa Maria Maddalena e due angeli (1622 circa; olio su tela, 136,6 x 112,4 cm; Collezione privata)


Simone Cantarini, Santa Maria Maddalena penitente (1644-1646; olio su tela, 178 x 204 cm; Pesaro, Musei civici)
Simone Cantarini, Santa Maria Maddalena penitente (1644-1646; olio su tela, 178 x 204 cm; Pesaro, Musei civici)


Giovanni Francesco Guerrieri, Santa Maria Maddalena penitente (metà del terzo decennio del Seicento; olio su tela, 203 x 129 cm; Fano, Pinacoteca civica)
Giovanni Francesco Guerrieri, Santa Maria Maddalena penitente (metà del terzo decennio del Seicento; olio su tela, 203 x 129 cm; Fano, Pinacoteca civica)


Giovanni Baglione, Santa Maria Maddalena penitente (1612; olio su tela, 257 x 159 cm; Gubbio, chiesa di San Domenico)
Giovanni Baglione, Santa Maria Maddalena penitente (1612; olio su tela, 257 x 159 cm; Gubbio, chiesa di San Domenico)

La sala dedicata alle Maddalene ha anche la funzione di presentare alcuni dei principali protagonisti della mostra: il discorso viene ampliato nelle terza e nella quarta sezione, che costituiscono il clou della rassegna e, da un lato, entrano nel merito del rapporto di Orazio Gentileschi con le Marche, e dall’altro affrontano gli sviluppi della pittura caravaggesca nella regione. Uno dei momenti più alti dell’esposizione è la parete che espone, affiancate, la Circoncisione di Gentileschi e quella di Guerrieri, quest’ultima realizzata per la chiesa di San Francesco a Sassoferrato, dove tuttora si trova. La pala gentileschiana riflette precedenti tizianeschi (com’è noto, anche Tiziano lavorò per Ancona), trasuda una sontuosità che è in linea coi gusti della sua ricca committenza ma s’attaglia anche a quel preziosismo che abbonda in gran parte della produzione del pittore toscano, ed è già pregna di realismo (s’osservino i volti dei protagonisti: a tal proposito, sarà opportuno sottolineare un’altra delle novità della mostra, ovvero l’identificazione di una quattordicenne Artemisia Gentileschi nella santa Cecilia che suona l’organo nel registro superiore, ipotesi avanzata da Lucia Panetti). È invece Marina Cellini che stabilisce i termini del confronto tra Guerrieri e Gentileschi, ricorrendo ad Andrea Emiliani che individuava nella composizione del pittore di Fossombrone una rielaborazione di quella del pisano, e ponendo nella qualità della luce uno degli elementi chiave per “misurare le diverse attitudini dei due artisti“, sottolinea la studiosa: ”per la Carloni, l’artista di Fossombrone impegna la sua opera di una luce, incidente, metafisica, tale da rendere ‘metallico tutto ciò che bagna’, in antitesi con quella cristallina espressa nella Circoncisione di Gentileschi”. Simile è poi la composizione, coi personaggi principali che si dispongono nel registro inferiore, l’apertura sul paesaggio alle loro spalle, la luce che proviene dall’alto. Il percorso tra i capolavori di Gentileschi prosegue poi con la Vergine del Rosario tra i santi Domenico e Caterina, per il quale le ultime ricerche hanno spostato indietro nel tempo la datazione (al 1614 circa: sarebbe dunque una delle prime opere realizzate a Fabriano), con le figure che si dispongono sotto la tenda come muti attori di teatro (ecco i silenzî cui allude il titolo), oppure con il San Francesco che riceve le stimmate, che sorprende per la finezza con cui l’artista riesce a render palpabile l’estasi mistica del santo investito dalla luce divina (un mirabile saggio di caravaggismo riletto alla luce del sostrato toscano del pittore, ammantato di alcuni accenti barocceschi, specie nella figura di san Francesco), e ancora con la Visione di santa Francesca Romana che accoglie il Bambino dalle mani della Vergine, dove la figura di santa Francesca Romana è in rapporto diretto con la santa Caterina della Vergine del Rosario (prima delle ricerche condotte in occasione della mostra si pensava fosse il contrario), e che rappresenta uno dei vertici dell’attività di Orazio, non soltanto di quella marchigiana. E questo per l’intima delicatezza degli atteggiamenti, per la capacità di declinare in maniera dolce, affettuosa ed elegante il luminismo caravaggesco, per la misurata compostezza dei personaggi, d’ascendenza toscana, quasi neorimascimentali, per quell’equilibrato rapporto tra forma, luce e colori in cui Longhi scorgeva la “complessità” di Gentileschi, intesa come “rapporti scalati di quantità luminose nei colori; quantità che appunto perché scalate divengono qualità d’arte: valori”. Un singolare Gentileschi quasi proteiforme è quello che troviamo poi nel David in contemplazione della testa di Golia, capace di reinterpretare un modello reniano infondendogli un inaspettato miscuglio di monumentalità e lirismo, per un David che, serioso e corrucciato, osserva meditabondo la testa del nemico appena sconfitto.

Percorrere il resto della grande sala che accoglie la terza e la quarta sezione equivale a compiere un tour nella grande pittura delle Marche d’inizio Seicento, che comincia con l’Ercole e Onfale di Guerrieri, l’opera scelta dai curatori al fine d’accogliere il pubblico in questo locale. E in effetti, in questa sorta d’introduzione, vediamo un pittore dalla forte personalità che ci offre un esemplare sunto della pittura caravaggesca marchigiana, nell’accezione da lui stesso elaborata: la lezione proveniente da Roma s’innesta su di un vivace gusto narrativo, su di una sempre bilanciata pacatezza, su di un fine equilibrio compositivo, su di una gamma cromatica vasta, anche perché il colore in Guerrieri, scrive Papi, “ha un ruolo dominante nelle composizioni, in certi casi arriva a plasmarle, lasciando indietro qualsiasi progetto disegnativo”. La tendenza a misurare i gesti e gli atteggiamenti è una cifra che caratterizza quasi tutti i pittori attivi nelle Marche: lo stesso Guerrieri ne fornisce un’altra prova nella Croce con la Vergine, san Giovanni Evangelista e santa Maria Maddalena, che si distingue anche per il vivace e vario colorismo e per la luce che modella, quasi tagliente, i bei volti dei personaggi, ma si potrebbe citare in tal senso anche un pittore che marchigiano non era e che però lavorò per la regione, ovvero Antiveduto Gramatica (Roma, 1569 - 1629), di cui ammiriamo in mostra il Noli me tangere che proprio in quest’occasione gli è stato restituito da Gianni Papi, che ha formulato la sua nuova attribuzione (così come ha fatto per altri due dipinti in mostra, uno assegnato ad Angelo Caroselli e uno ad Antonio Carracci) sulla base d’un interessante raffronto stilistico con altre opere note dell’artista romano-senese, indicando il Noli me tangere come una dimostrazione della “complessità dell’ispirazione del pittore” oltre che della “sua passione”, del “suo ruolo nella partecipazione ai grandi mutamenti del terzo decennio”, della sua “fedeltà al naturalismo” e della sua “apertura pienamente compiuta verso i tempi nuovi”.

A Fabriano c’è poi spazio per chiarire il ruolo di Giovanni Baglione come pittore capace di diffondere nelle Marche il linguaggio dell’arte di Caravaggio: ne è un esempio il suo San Giovanni Battista, emerso appena due anni fa da una collezione privata e qui esposto per la prima volta (evidenti i debiti nei confronti del lombardo: per Michele Nicolaci Baglione si distingue tuttavia dal rivale, oltre che per la minor sensualità, anche per il suo “più tradizionale e manieristico studio della figura, evidentemente impostato già attraverso un modello grafico e arricchito in un secondo momento dallo studio dal vero del volto del modello in posa”). Baglione, capace di procurarsi importanti committenze pubbliche e private, fu dunque un importante tramite per l’area marchigiana, e lo stesso ruolo doveva essere esercitato dagli altri artisti che, da fuori regione, inviavano nelle Marche le loro opere per rimpinguare le raccolte dei più facoltosi collezionisti o per decorare le chiese del territorio, fungendo da modelli per la scuola locale. I visitatori troveranno così una sequenza d’opere di grandi artisti che testimoniano la grande apertura dei committenti del territorio: da una Madonna col Bambino e santi di Bartolomeo Manfredi (Ostiano, 1582 - Roma, 1622), rarissima testimonianza della produzione di pale d’altare dell’artista cremonese, alla Sacra Famiglia con santi di Carlo Bononi (Ferrara, 1569? - 1632), un dipinto dall’aria talmente veneziana da essere in passato assegnato al Veronese, dalla Morte della Vergine di Giovanni Lanfranco (Parma, 1582 - Roma, 1647), attestazione della fiorente produzione marchigiana del pittore parmense che contribuì a farvi penetrare un poco del suo classicismo carraccesco, al Miracolo della fornace di Giovanni Serodine (Ascona, 1594/1600 - Roma, 1630), la cui attribuzione è stata riconfermata al pittore elvetico con forza da Papi proprio in occasione della mostra, fino ad arrivare ai pittori francesi che una certa fortuna ebbero in regione: un esempio su tutti è il San Giovanni Battista di Valentin de Boulogne (Coulommiers, 1591 - Roma, 1632), anticamente appartenuto a un medico di Apiro. E l’infilata di opere di Valentin de Boulogne e Trophime Bigot è una delle vette della rassegna, soprattutto in virtù della sua intensità.

Le sezioni conclusive sono dedicate ai “quesiti caravaggeschi” e a “un santo novello, san Carlo Borromeo” (questi i titoli): nella penultima saletta i curatori, nel lodevole intento di rendere edotto il pubblico, con un titolo che riecheggia gli studî di Roberto Longhi, circa i problemi legati agli artisti anonimi sottolineando come le mostre servano anche per avanzare nuove ipotesi e sondare nuove soluzioni, offrono anche alcune delle più interessanti novità. Una delle più importanti è sicuramente l’identificazione del cosiddetto “Maestro dell’Incredulità di san Tommaso” nel pittore Bartolomeo Mendozzi (Leonessa, 1600 circa - ?, dopo il 1644), resa possibile grazie al lavoro della studiosa Francesca Curti, che ha raggiunto questo risultato grazie a precise e approfondite ricerche d’archivio. Vengono esposte a Fabriano due opere assegnate da Curti all’artista reatino, che si formò nella bottega di Manfredi e che Papi, nel delineare la personalità dell’allora Maestro dell’Incredulità, definiva come “una sorta di alter ego di Valentin”: una di queste è la cosiddetta Madonna dell’insalata, una rara rappresentazione del Riposo dal ritorno dalla fuga in Egitto (e non durante la fuga, come nella stragrande maggioranza dei casi), con Gesù, ormai fattosi quasi adolescente, che mangia alcune erbe amare (di qui il nome con cui l’opera è identificata) che alludono al suo destino. Un’opera, sottolinea Curti, che presenta “un linguaggio di chiara matrice caravaggesca ma aggiornato alle novità artistiche romane del periodo” (ovvero del quarto decennio del Seicento: “suggestioni lanfranchiane ed echi cortoneschi”, specifica la studiosa, “nella resa della luce vespertina che pervade il paesaggio, le nuvole all’orizzonte e le figure”). A procurare un esempio del “genio degli anonimi” (come da espressione adoperata dai curatori e da titolo di una mostra curata da Papi nel 2005) è una Trinità conservata al Museo Pontificio della Santa Casa di Loreto, tela di altissima qualità, da tempo presente nelle Marche, e opera di un artista al momento ignoto, forse del luogo, ma affascinato dalla pittura emiliana d’inizio Seicento. La sezione conclusiva è una sala tematica dedicata alla rappresentazione di san Carlo Borromeo, diffusasi dopo la sua canonizzazione nel 1610. E dal momento che san Carlo Borromeo proteggeva anche dai terremoti, nelle Marche il suo culto ebbe rapida e capillare diffusione: ad accompagnare il pubblico verso la conclusione si trovano, tra gli altri, un capolavoro di Alessandro Turchi (Verona, 1578 - Roma, 1649), un San Carlo Borromeo che si distingue per il suo naturalismo attenuato dai modi colti ed espressivi del pittore e per la preziosità dei suoi paramenti liturgici, e un San Carlo Borromeo che riceve l’omaggio dei coniugi Petrucci in abiti da mendicanti di Giovanni Francesco Guerrieri, dove non è difficile cogliere una citazione diretta di Caravaggio, dalla Madonna dei pellegrini, nella figura del committente Antonio Petrucci inginocchiato ai piedi del santo.

Giovanni Francesco Guerrieri, Circoncisione di Gesù (1614-1617; olio su tela, 323 x 210 cm; Sassoferrato, chiesa di San Francesco)
Giovanni Francesco Guerrieri, Circoncisione di Gesù (1614-1617; olio su tela, 323 x 210 cm; Sassoferrato, chiesa di San Francesco)


Orazio Gentileschi, Vergine del Rosario tra san Domenico e santa Caterina (circa 1614; olio su tela, 291 x 198 cm; Fabriano, Pinacoteca civica Bruno Molajoli)
Orazio Gentileschi, Vergine del Rosario tra san Domenico e santa Caterina (circa 1614; olio su tela, 291 x 198 cm; Fabriano, Pinacoteca civica Bruno Molajoli)


Orazio Gentileschi, San Francesco riceve le stimmate (1618 circa; olio su tela, 284 x 173 cm; Roma, chiesa di San Silvestro in Capite)
Orazio Gentileschi, San Francesco riceve le stimmate (1618 circa; olio su tela, 284 x 173 cm; Roma, chiesa di San Silvestro in Capite)


Orazio Gentileschi, La Visione di santa Francesca Romana (1618-1620; olio su tela, 270 x 157 cm; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche)
Orazio Gentileschi, La Visione di santa Francesca Romana (1618-1620; olio su tela, 270 x 157 cm; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche)


Orazio Gentileschi, David in contemplazione della testa di Golia (olio su tela, 140 x 116 cm; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, Donazione Volponi)
Orazio Gentileschi, David in contemplazione della testa di Golia (olio su tela, 140 x 116 cm; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, Donazione Volponi)


Giovanni Francesco Guerrieri, Ercole e Onfale (1617-1618 circa; olio su tela, 151 x 206,5 cm; Pesaro, collezione privata)
Giovanni Francesco Guerrieri, Ercole e Onfale (1617-1618 circa; olio su tela, 151 x 206,5 cm; Pesaro, collezione privata)


Giovanni Francesco Guerrieri, La croce con la Vergine Maria, san Giovanni Evangelista e santa Maria Maddalena (1615-1620 circa; olio su tela, 270 x 190 cm; Pesaro, Palazzo Montani Antaldi, Collezioni d’arte della Fondazione della Cassa di Risparmio di Pesaro)
Giovanni Francesco Guerrieri, La croce con la Vergine Maria, san Giovanni Evangelista e santa Maria Maddalena (1615-1620 circa; olio su tela, 270 x 190 cm; Pesaro, Palazzo Montani Antaldi, Collezioni d’arte della Fondazione della Cassa di Risparmio di Pesaro)


Antiveduto Gramatica, Noli me tangere (1622-1623; olio su tela, 294 x 183 cm; San Severino Marche, Duomo)
Antiveduto Gramatica, Noli me tangere (1622-1623; olio su tela, 294 x 183 cm; San Severino Marche, Duomo)


Giovanni Baglione, San Giovanni Battista con l’agnello (1610-1615 circa; olio su tela, 136 x 98 cm; Collezione privata)
Giovanni Baglione, San Giovanni Battista con l’agnello (1610-1615 circa; olio su tela, 136 x 98 cm; Collezione privata)


Bartolomeo Manfredi, Madonna con il Bambino tra santa Maria Maddalena, santa Dorotea (?), sant’Agostino, san Francesco d’Assisi e san Nicola da Tolentino (1615-1616 circa; olio su tela, 274 x 168 cm; Morrovalle, chiesa di San Bartolomeo apostolo)
Bartolomeo Manfredi, Madonna con il Bambino tra santa Maria Maddalena, santa Dorotea (?), sant’Agostino, san Francesco d’Assisi e san Nicola da Tolentino (1615-1616 circa; olio su tela, 274 x 168 cm; Morrovalle, chiesa di San Bartolomeo apostolo)


Carlo Bononi, Sacra Famiglia con san Carlo Borromeo, san Francesco, santa Chiara e santa Lucia (1627 circa; olio su tela, 330 x 200 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Carlo Bononi, Sacra Famiglia con san Carlo Borromeo, san Francesco, santa Chiara e santa Lucia (1627 circa; olio su tela, 330 x 200 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)


Giovanni Lanfranco, La morte della Vergine (1627 circa; olio su tela, 252 x 158 cm; Macerata, Santi Giovanni Evangelista e Battista, cappella Razzanti)
Giovanni Lanfranco, La morte della Vergine (1627 circa; olio su tela, 252 x 158 cm; Macerata, Santi Giovanni Evangelista e Battista, cappella Razzanti)


Giovanni Serodine, San Francesco di Paola e il miracolo della fornace (1623-1625; olio su tela, 273 x 130 cm; Matelica, San Francesco)
Giovanni Serodine, San Francesco di Paola e il miracolo della fornace (1623-1625; olio su tela, 273 x 130 cm; Matelica, San Francesco)


Valentin de Boulogne, San Giovanni Battista (1628 circa; olio su tela, 135 x 100 cm; Apiro, collegiata di Sant’Urbano)
Valentin de Boulogne, San Giovanni Battista (1628 circa; olio su tela, 135 x 100 cm; Apiro, collegiata di Sant’Urbano)


Bartolomeo Mendozzi, Riposo dal ritorno dalla fuga in Egitto noto anche come Madonna dell’Insalata (inizio quarto decennio del Seicento; olio su tela, 248 x 169 cm; Recanati, chiesa dei cappuccini)
Bartolomeo Mendozzi, Riposo dal ritorno dalla fuga in Egitto noto anche come Madonna dell’Insalata (inizio quarto decennio del Seicento; olio su tela, 248 x 169 cm; Recanati, chiesa dei cappuccini)


Pittore di formazione emiliano-marchigiana, I santi Maria Maddalena e Giovanni Battista adorano la santissima Trinità con il Cristo morto (olio su tela, 210 x 175 cm; Loreto, Museo Pontificio della Santa Casa)
Pittore di formazione emiliano-marchigiana, I santi Maria Maddalena e Giovanni Battista adorano la santissima Trinità con il Cristo morto (olio su tela, 210 x 175 cm; Loreto, Museo Pontificio della Santa Casa)


Alessandro Turchi, San Carlo Borromeo (1623; olio su tela, 253 x 156 cm; Ripatransone, Duomo)
Alessandro Turchi, San Carlo Borromeo (1623; olio su tela, 253 x 156 cm; Ripatransone, Duomo)


Giovanni Francesco Guerrieri, San Carlo Borromeo riceve l’omaggio dei coniugi Petrucci in abiti da mendicanti (seconda metà del terzo decennio del Seicento; olio su tela, 214 x 145 cm; Fano, chiesa di San Pietro in Valle, in deposito presso la Pinacoteca civica)
Giovanni Francesco Guerrieri, San Carlo Borromeo riceve l’omaggio dei coniugi Petrucci in abiti da mendicanti (seconda metà del terzo decennio del Seicento; olio su tela, 214 x 145 cm; Fano, chiesa di San Pietro in Valle, in deposito presso la Pinacoteca civica)

La conclusione affidata a san Carlo Borromeo è un invito a proseguire idealmente la visita della mostra nelle chiese della città, che di fatto ne costituiscono parte integrante: uscendo dalla Pinacoteca e attraversando la piazza per entrare nella cattedrale di San Venanzio, nella seconda cappella di sinistra si troverà il San Carlo Borromeo che prega per la cessazione della peste, discussa tela di Orazio Gentileschi di datazione incerta, che assieme ai dipinti realizzati per la cappella della Passione (la tela della Crocifissione e gli affreschi che ornano l’ambiente), al San Carlo Borromeo nella chiesa di San Benedetto e alla Vergine col Bambino e san Filippo Neri in gloria di Guerrieri conservata anch’essa nella cattedrale, completa il percorso immaginato dai curatori. Sembra superfluo rimarcarlo, ma una mostra è tanto migliore quanto più è radicata nel suo contesto, soprattutto se consente di aggiungere conoscenze sull’argomento, di dare rinnovato impulso agli studî su di un artista o su di un argomento, di formulare nuove ipotesi alla luce di nuove ricerche. Superfluo ma forse non inutile, se è vero che vige sempre più la tendenza a movimentare ed esporre opere senza che sussistano reali necessità e ad alimentare un turismo delle opere d’arte spesso privo di pregio. A Fabriano non è così: la mostra della Pinacoteca Civica è sorretta da un progetto scientificamente inappuntabile, propone confronti inediti, si estende al territorio, restituisce a Guerrieri la sua distinta personalità, traccia un itinerario ramificato nella pittura caravaggesca marchigiana, dà conto al pubblico di nuove scoperte (alcune delle quali non ancora pubblicate: lo studio su Mendozzi è in corso di stampa), riesce a mantenere, senza sbavature, una vocazione divulgativa di alta qualità (e in questo senso occorre sottolineare il valore della sezione dedicata agli anonimi e ai problemi d’attribuzione) e, a coronare il tutto, sa porsi ai visitatori con un approccio estremamente coinvolgente.

Certo, occorre anche evidenziare che la mole di ricerche su Orazio Gentileschi è piuttosto corposa, e che la rassegna di Fabriano arriva dopo diverse occasioni espositive dedicate al pittore toscano: come ribadito in apertura, mancava però un focus sulla sua attività marchigiana, tanto più prezioso in quanto ordinato nel luogo in cui l’artista dimorò all’incirca tra il 1613 e il 1619. Di conseguenza, una mostra simile era possibile soltanto a Fabriano, e il fatto che la sede sia periferica non significa che il livello non sia quello tipico di una grande mostra. Sarà dunque conveniente ricordare che la mostra è dedicata ad Andrea Emiliani, profondo conoscitore dell’arte marchigiana del Seicento, scomparso quest’anno, che nel catalogo d’una mostra dedicata nel 1988 a Giovanni Francesco Guerrieri lodava la generosità della “provincia italiana”, e cioè, scriveva il grande studioso, della “più straordinaria riserva di conoscenza storica e artistica che si possa immaginare, il luogo dell’incontro fra le scuole delle grandi città (centri di potere e di irradiamento) e questa minuta, vitale, sensibile quota o livello, o medium, di culture di slittamento o di resistenza, di autonomia o di dipendenza: sempre alta nel rivelare in ogni borgo, o quasi, nato un artista; da ogni artigiano, esprimersi capacità espressive felicissime; da ogni bottega, fiorire progettualità capaci di coinvolgere il volume ospitale, famigliare ed ampio di chiese pronte a riunire e a rivelare la complessa vita delle forme che in quel luogo è stata nei secoli creata e che ancora in quel luogo si esprime: il solo che, nel mondo intero, possa davvero farlo”. Una nobiltà e una complessità della provincia che emergono in tutta la loro palmare evidenza dalla bella mostra di Fabriano.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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