Note su Valerio Adami. A margine della mostra su Palazzo Reale a Milano


Recensione della mostra “Valerio Adami. Pittore di idee”, a cura di Marco Meneguzzo (a Milano, Palazzo Reale, dal 17 luglio al 22 settembre 2024).

“Per ben disegnare”, affermava Valerio Adami, “occorrono gesti ampi, direi lo stile di un tennista… ”. A più riprese, nel corso della sua lunga carriera, egli ha infatti sostenuto il primato del disegno nella sua ricerca creativa: è qui – come attestano molti dei suoi pensieri radunati nell’ormai introvabile Sinopie, di cui sarebbe auspicabile una nuova edizione – che si compie l’elaborazione delle idee figurative, e in cui affiorano alla coscienza le ragioni di un certo mondo di immagini. “Disegnare”, scriveva l’artista nel suo libro, “è un modo di conoscere, non un modo di vivere. L’occhio compie un numero infinito di operazioni”. Poche righe prima, in un altro pensiero, aveva affermato che i pittori romantici “scambiarono disegno per stenografia”, a sottolineare ulteriormente quella dimensione mentale che ne ha fatto, come recita il titolo dato alla sua grande retrospettiva di Palazzo Reale a Milano, curata da Marco Meneguzzo e accompagnata da un catalogo Skira, un Pittore di idee. C’è qualcosa, in queste affermazioni, che rimanda a Poussin, o più in generale al classicismo seicentesco e all’idea di un’arte che ha imparato a governare le passioni: per quanto il termine “sorpresa” sia ricorrente negli scritti di Adami, e per quanto nella sua scrittura, accanto alla riflessione teorica, non disdegni la trascrizione di associazioni psichiche di ordine surrealista (iconologicamente molto utili), egli non cede alla scrittura automatica del quadro, ma lascia che quella prima impressione sia condensata nel disegno al tratto, raggiunto per via di revisioni e correzioni. Il dominio del disegno, in Adami, corrisponde infatti al valore dell’invenzione più che del segno: il primo tracciato spontaneo, come emerge dalle opere su carta, viene subito pulito e sintetizzato in una linea continua che sigilla le campiture: ha quasi un valore impersonale, come se annullasse la presenza della mano in favore di un’immagine che pare essersi fatta da sé, ideale per la traduzione grafica. Il suo, come ha fatto notare Meneguzzo nel catalogo della mostra milanese, è infatti un disegno in cui da sempre la gomma conta quanto la matita, e se non fa sparire la sinopia delle idee che lungo il percorso sono state tralasciate, arriva in ogni caso a una sintesi elegante e ragionata.

Del resto, come recitava una mostra del 2015 dedicata alla produzione più recente dell’artista, la sua si configura nel tempo come “ars combinatoria”. La stessa scelta di una dizione latina si attagliava perfettamente all’aspetto elegante ed erudito di questa pittura, fatta da un uomo di ampie e profonde letture, abituato all’autoriflessione in forma epigrammatica. Vale bene soprattutto per il tratto più recente del suo percorso, in cui lo stile ha raggiunto una sofisticazione di gusto più raffinata: il racconto si è fatto letterario, e anche quando non dichiara immediatamente le proprie fonti, si nutre di citazioni e non disdegna un misterioso afflato allegorico. Sarà interessante, prima o poi, tirare le fila di una iconologia della pittura di Adami, cercando di mettere a fuoco il rapido mutamento dai temi più propriamente “pop”, che lo avevano fatto uscire dagli esordi di nuova figurazione, indirizzandolo ai modi grafici del fumetto, fino alla sua nota sintesi di disegno e pittura a tinte piatte. Solo così si potrà chiarire se la sua sia stata più una pittura per poeti o per filosofi, fra Calvino e Tabucchi, Sanesi e Tadini, fino a Derrida, che non a caso si rivolse a lui per la copertina de La verità in pittura. Se ne potrà concludere, forse, che la sua pittura si prestava meglio di altre a quegli scrittori che facevano letteratura con una spiccata attitudine speculativa.

Allestimenti della mostra Valerio Adami. Pittore di idee. Foto: Gabriele Leonardi. Su concessione di Archivio Valerio Adami
Allestimenti della mostra Valerio Adami. Pittore di idee. Foto: Gabriele Leonardi. Su concessione di Archivio Valerio Adami
Allestimenti della mostra Valerio Adami. Pittore di idee. Foto: Gabriele Leonardi. Su concessione di Archivio Valerio Adami
Allestimenti della mostra Valerio Adami. Pittore di idee. Foto: Gabriele Leonardi. Su concessione di Archivio Valerio Adami
Allestimenti della mostra Valerio Adami. Pittore di idee. Foto: Gabriele Leonardi. Su concessione di Archivio Valerio Adami
Allestimenti della mostra Valerio Adami. Pittore di idee. Foto: Gabriele Leonardi. Su concessione di Archivio Valerio Adami

All’interno di questa pittura, rimasta per oltre cinquant’anni fedele a se stessa con un marchio di inconfondibile iconicità, si è poi verificata un’evoluzione interna per graduali passaggi di affinamento e complicazione dei motivi lineari del disegno. Dagli interni domestici, dall’aura pop delle sue toilette o vasche da bagno ridotte a pochi colori e accordi timbrici, o divani di design trasformati in intrecci di ortogonali, la linea si è fatta più sinuosa e complessa mano a mano che i contenuti sono diventati narrativamente e simbolicamente più articolati. Protagonista, dopo le viste d’interno, è la figura, attore che campeggia su una scena spesso rarefatta o comunque comprimaria: nel momento in cui l’attenzione si addensa su questa, essa si carica di significati simbolici attraverso attributi di decifrazione più o meno immediata, talvolta appartenenti a un codice condiviso, talvolta afferenti a un emisfero simbolico personale ed autobiografico da sondare con strumenti più complessi. Il racconto, infatti, si muove su due piani: da una parte attraverso la vera e propria azione messa in scena in primo piano; dall’altra, invece, la figura “racconta” se stessa per mezzo di elementi che alludono alla sua biografia in maniera più o meno evidente (è il caso, per esempio, di certi ritratti allegorici). In questo senso, la sua è un’arte sia di citazioni sia di “combinazioni”, con un’allusione velata ai processi mentali di costruzione del quadro per assemblaggio di parti.

La svolta definitiva della pittura di Adami avvenne proprio alla metà degli anni Sessanta come pittura di interni: è l’arredo moderno, o di luoghi totalmente artificiali, a dargli l’abbrivio definitivo per quella pittura di nitore e pulizia, di ordine e di rigore. Il rapporto con il disegno si era già chiarito con i “fumetti” intorno al 1963, fino alla cesura segnata dal grande Uovo rotto. Dopo quella grande prova si sarebbe trattato di chiarire il rapporto fra contenuto disegnato e selezione degli elementi: fra riconoscibilità figurativa e puro godimento astratto del dettaglio. Fra questi poli si collocava il trasferimento a Parigi e un rapporto plausibile con la “pop” francese, a cui risponde però con una cultura visionaria, con momenti di surrealismo che lasciano spiazzati. È il caso della disseminazione di dita dalle unghie acuminate come dei canini, fatali e agguerrite, che si insinuano come proliferanti apparizioni fra le poltrone soffici e disseminate di presenze matissiane, o sui tavolini, fra le tende delle docce e gli orinatoi pubblici londinesi. La stessa scelta iconografica di luoghi della marginalità, deputati agli incontri clandestini, è una scelta inconsueta e irrituale che Adami nobilita con una cromia elegante, sedotto forse dal bagliore delle luci al neon, ma a cui forse aggiunge una nota idilliaca tramite tonalità pastello, come a voler emancipare un luogo così abietto, ma teatro di amori proibiti e clandestini.

Da lì in poi, giungendo al punto di stile suo più noto, l’artista non ha fatto che procedere per selezione: sempre meno elementi e campiture planari sempre più ampie, spostando l’attenzione dalla concentrazione di contenuto all’elegante gioco di equilibri compositivi: imparò, insomma, a gestire grandi spazi di vuoto, necessari per un tono più solenne e per fare il salto di scala verso formati sempre più grandi, fino ai grandi murali e scenografia teatrale (wagneriana per giunta!). Del resto egli era stato allievo di Funi, ed il fare grande era una caratteristica della sua lezione: semplificare è da sempre la via per monumentalizzare. A quel punto, una volta chiariti la via e il metodo, Adami poté dipingere ciò che voleva: quel modo nato per restituire il clima spaesante del boom economico, di un mondo privo di natura, è pronto a fare il salto e verso l’allegoria, con un ductus che non gli impedisce di cimentarsi con il racconto di invenzione (ma più di evocazione) quanto con il ritratto. L’idea compositiva e il racconto che si snoda sulla tela, infatti, sono tutti giocati su nervature spesse quasi da xilografia giapponese o da vetrata, che richiudono dentro limpidi contorni piatte zone di colore come uno smalto cloisonné. Adami controlla il disegno e la dialettica delle linee con grande attenzione: sa sempre quando deve addensare l’intreccio per rendere riconoscibili le figure e staccarle dallo sfondo, in cui la campitura dilaga nella sua satura compattezza cromatica. Eppure, questo non deve far dimenticare la necessità, per questo disegno di sola linea, del sostegno del colore: è questo, infatti, a determinare il respiro spaziale della composizione e a conferirgli quella innata eleganza. “Un colore casto e puro” scriveva l’artista, “è sempre senza ombre, il tono è l’età, la vita; le esperienze, i suoi estremi”. Non a caso, nelle fotografie e riprese che ritraggono l’artista in studio colpisce la lunga fila di barattoli di colori ad acrilico, preparati per avere a disposizione tutte le quantità di pittura necessaria per ciascuna stesura, senza ricorrere a mescolanze su tavolozza. Adami ha ridotto la propria tavolozza a pochi colori, timbrici e pieni, coprenti, ma di tono leggermente smorzato, come a voler attutire note troppo forti, per ragioni al contempo tecniche ed estetiche. L’uso di un magenta brillante, talvolta corretto con un po’ di giallo e reso coprente con un po’ di bianco, è tipico della sua pittura, e si accorda molto bene con il verde acqua, con l’azzurro, scaldato quest’ultimo da contenute presenze di giallo o di ocra: quando la sua presenza è moderata, questo colore costituisce un punto di attrazione, un “colore forte” nel quadro. È questo, oltretutto, il punto in cui il lavoro di Adami è uscito dal campo dei valori puramente ottici della pittura per entrare in uno statuto diverso: pur rimanendo inconfondibile il sapore e la consistenza della pellicola pittorica sulla tela, il suo lavoro è arrivato a una codificazione tale da consentire alle sue immagini una traduzione con tecniche differenti senza che soffrano traumi significativi. La stessa immagine, infatti, può senza troppa fatica migrare dalla tela alla grafica, e persino a riproduzioni e traduzioni su altri supporti, senza che ne venga tradita la natura fondamentale. Ciononostante, di fronte ai grandi quadri ci si rende conto più che mai di quanto le sue immagini abbiano bisogno del respiro ampio e dell’impatto delle grandi superfici: non a caso Adami ha dato prova di grande abilità e di sapiente regia degli spazio anche nelle occasioni in cui si è trovato a fare i conti con l’architettura.

Valerio Adami, Uovo Rotto (1963; 195 x 345,2 cm; Collezione privata). Su concessione di Giò Marconi, Milano
Valerio Adami, Uovo Rotto (1963; 195 x 345,2 cm; Collezione privata). Su concessione di Giò Marconi, Milano
Valerio Adami, Doct. Sigm. Freud (1972; 198 x 147 cm; Collezione Adami). Su concessione di Archivio Valerio Adami
Valerio Adami, Doct. Sigm. Freud (1972; 198 x 147 cm; Collezione Adami). Su concessione di Archivio Valerio Adami
Valerio Adami, Intolerance (1974; 210,3x350,5 cm; Collezione privata). Su concessione di Fondazione Marconi e Giò Marconi, Milano.
Valerio Adami, Intolerance (1974; 210,3x350,5 cm; Collezione privata). Su concessione di Fondazione Marconi e Giò Marconi, Milano.
Valerio Adami, Autoportrait (1983; 198x147 cm; Collezione Adami). Su concessione di Archivio Valerio Adami
Valerio Adami, Autoportrait (1983; 198x147 cm; Collezione Adami). Su concessione di Archivio Valerio Adami
Valerio Adami, Penthesilea (1994; 195x265 cm; Collezione Adami). Su concessione di Archivio Valerio Adami
Valerio Adami, Penthesilea (1994; 195x265 cm; Collezione Adami). Su concessione di Archivio Valerio Adami
Valerio Adami, Dalla trasfigurazione di Raffaello (2007; 198x147 cm; Collezione Adami). Su concessione di Archivio Valerio Adami
Valerio Adami, Dalla trasfigurazione di Raffaello (2007; 198x147 cm; Collezione Adami). Su concessione di Archivio Valerio Adami
Valerio Adami, Enea Fugge da Troia con il padre Anchise sulle spalle (2009; 198x147 cm; Collezione Adami). Su concessione di Archivio Valerio Adami
Valerio Adami, Enea Fugge da Troia con il padre Anchise sulle spalle (2009; 198x147 cm; Collezione Adami). Su concessione di Archivio Valerio Adami

Eppure, Adami non rinuncia mai all’aneddoto, al piccolo dettaglio in secondo piano che attira l’attenzione e cattura l’occhio portandolo nel cuore del quadro. Non tutto è infatti indispensabile al racconto, ma utile per il bilanciamento compositivo e per offrire una guida all’occhio, un punto di riposo momentaneo nella perlustrazione dell’immagine. Da subito, infatti, gli è chiaro che nella sintesi bisogna dosare e alternare momenti distesi e altri in cui l’intreccio deve infittirsi. Rituale del 1972, in tal senso, è un esempio calzante di quel modo di lavorare per bilanciamenti cromatici e compositivi: un peso centrale concentrato che deve reggere grandi distese di colore. In questo caso si tratta di un assemblaggio di forme a incastro, aggrovigliate in un intreccio di linee chiarito e distinto dal colore: un soldato della Grande Guerra con l’elmetto prussiano calcato in testa, di spalle, si inoltra in un riquadro verde, ma incappa in una seconda figura, parzialmente coperta e meno distinguibile. A bloccarlo, però, è soprattutto il riquadro dalla cornice arancione, al contempo quadro nel quadro e partizione ortogonale del fondo. Solo in un secondo momento ci si rende conto che il dipinto è in realtà tripartito, e che la porzione inferiore apre uno squarcio diagonale su un altro scenario, da cui si intravede una porzione di compasso su fondo violaceo. Non è chiara la relazione fra le due parti, salvo uno spiazzante cortocircuito provocato dalla loro coesistenza simultanea sulla tela, o intendendole come campionario onirico, da leggere in tandem con un dipinto più piccolo dello stesso anno su Doct. Sigm. Freud.

L’evoluzione interna al suo lavoro, dunque, avviene per sussulti dello stile, senza strappi né traumi, e si coglie sulla lunga durata. Un disegno di parti a incastro, di forme compenetrati tenute bloccate dentro un unico grande tracciato in cui tutte le parti sono unite e collegate fra loro. Negli anni Ottanta, invece, le figure si staccano dal fondo e guadagnano uno spazio autonomo. È qui che la linea si fa fluida, i profili dei volti di ammorbidiscono e assumono pieghe d’espressione come maschere del teatro antico, ancheggiando con profili danzanti. Ne è un bell’esempio l’Autoritratto del 1983, in cui il volto di Adami stesso è trasformato in una maschera bianca, sorretta da due mani fluttuanti prive di corpo, indipendenti dal frammento sottostante con uno scorcio di gambe in movimento, fluttuanti in uno spazio indipendente anche dalla scheggia di paesaggio montano al tramonto che si incunea sullo sfondo, in alto a destra.

In qualche modo Adami si è liberato della griglia, e può lavorare per sineddoche sommando frammenti di immagini e di corpi, fra maschere, mani, torsi, medaglioni che isolano porzioni di gambe e basso ventre. Il quadro è diventato un luogo di apparizioni, in cui non è più chiaro se si sta assistendo a una scena concreta o a una proiezione onirica.

Ma il fascino autentico di questi dipinti di neoclassico contegno, nella loro fruizione più immediata, sta nel fatto che non si lasciano decrittare fino in fondo, e che in quell’alone di incertezza si caricano di uno spirito erratico e, in fondo, profondamente romantico: non si sa verso dove sono dirette le sue figure in avvicinamento o in allontanamento, e anche quando si stagliano o giganteggiano su sfondi monumentali riconoscibili, questi diventano come visioni oniriche. Ma è proprio su questa soglia, che non si lascia catturare razionalmente, che si insinua, in profondità, un sentimento limpido ed elegante.


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