Il certificato di nascita della pittura rinascimentale non va cercato, come si potrebbe immaginare, dentro le mura di Firenze, sotto il campanile di Giotto, all’ombra della cupola di Brunelleschi. Per quel che ci è dato sapere, non fu Firenze la prima destinataria d’una tavola in grado di parlare la nuova lingua. Occorre spingersi più a sud, tra le campagne del Valdarno punteggiate di boschi e d’ulivi: il Rinascimento in pittura nasceva nella parrocchia di San Giovenale, un minuscolo villaggio rurale che si trova appena sotto le colline che separano il Valdarno Superiore dal Casentino. Nella chiesa del paese si trovava un altare il cui patronato era della famiglia Castellani, dinastia di mercanti e banchieri tra i più in vista di Firenze, anche se originari di Cascia di Reggello, il borgo che si trova subito dopo San Giovenale: fu probabilmente un membro del casato, Vanni Castellani, a commissionare a Masaccio la pala per l’altar maggiore, destinata a diventare il primo caposaldo della nuova pittura. Il Trittico di San Giovenale veniva consegnato da quel genio trasandato e rivoluzionario il 23 aprile del 1422, stando a quanto attesta la data scritta sul bordo inferiore in capitali umanistiche, anziché in lettere gotiche. Certo, il dipinto fu realizzato a Firenze e poi inviato nel Valdarno, e non siamo neppure certi che abbia raggiunto immediatamente San Giovenale: c’è chi pensa che sia rimasto per qualche anno a Firenze, dove gli artisti che operavano in città poterono vederlo e assimilare la potente, travolgente forza della novità che quel pittore poco più che ventenne aveva sprigionato sulle sue tre tavole. Rimane però la suggestione di pensare a un pittore in avvio di carriera che sancì una delle fratture più profonde della storia della pittura dipingendo per una chiesetta di campagna. E a seicento anni esatti di distanza, il 23 aprile del 2022, s’è aperta proprio a Cascia di Reggello la prima mostra costruita attorno a questo trittico fondamentale: Masaccio e i maestri del Rinascimento a confronto è l’altissimo omaggio che il Museo Masaccio d’Arte Sacra dedica alla sua principale opera, nell’ambito dei progetti Uffizi Diffusi del museo fiorentino e Piccoli Grandi Musei di Fondazione CR Firenze.
Il Trittico di San Giovenale ha dovuto dunque attendere il suo compleanno per vedersi dedicare un approfondimento. E com’è noto, gli anniversarî tondi possono condurre a esiti di segno opposto, dacché in grado di portare mostre allestite più per dovere di data che per aprire a reali occasioni di studio e comprensione, oppure al contrario possono offrire l’opportunità di costruire dei focus oltremodo rilevanti. La mostra di Reggello appartiene sicuramente alla seconda fattispecie: tra le sale del Museo Masaccio i curatori Angelo Tartuferi, Lucia Bencistà e Nicoletta Matteuzzi hanno dato vita a una densissima mostra sulle origini della pittura rinascimentale, ricostruendo contesti, proponendo confronti inediti, avanzando ipotesi, il tutto nell’esiguo spazio di sole dodici opere. La mostra di Reggello è però la riprova che, se il progetto scientifico è solido e ben piantato sulle sue fondamenta, non c’è bisogno di lunghe carrellate di prestiti per lasciare una traccia sul pubblico. Un progetto ch’è stato reso possibile allargando le tradizionali maglie degli Uffizi Diffusi, dal momento che a Cascia di Reggello non arrivano soltanto opere dal grande museo fiorentino: per comporre una questa mostra sono stati radunati pezzi importanti da collezioni private oltre che da chiese e musei del territorio. Ne è così risultata una mostra ch’è riuscita a coniugare da una parte lo spirito degli Uffizi Diffusi, ovvero riportare le opere nei loro territorî d’origine offrendo ai piccoli musei della provincia toscana la possibilità di riannodare i fili dei contesti che si sono sciolti lungo i secoli, e dall’altra l’impostazione d’una rassegna tradizionale.
Può sembrare strano che un’opera così centrale non solo per le vicende del suo tempo, ma anche per quelle della critica novecentesca che attorno al Trittico di San Giovenale s’è accesa in lunghe e appassionate discussioni, non sia mai stata attrice principale d’un evento espositivo a lei riservato. Lo stupore può però esser mitigato dalla lunga fortuna espositiva dell’opera, ben ricostruita nel catalogo da Nicoletta Matteuzzi: dopo aver superato indenne i saccheggi dei nazisti durante la seconda guerra mondiale (sempre nel catalogo, Maria Italia Lanzarini pubblica la testimonianza di Aurelio Bettini, nipote del Renato che nel 1944 era sagrestano della chiesa: secondo il racconto di Aurelio, il padre avrebbe nascosto il Trittico di San Giovenale dapprima dietro la testata della sua camera da letto, requisita però da un ufficiale tedesco che dormì dunque senza saperlo sotto il capolavoro di Masaccio, e poi, ritenendo il nascondiglio non più sicuro, lo spostò in una cantina approfittando di un momento d’assenza del nazista), il Trittico di San Giovenale fu riscoperto nel 1961 da Luciano Berti, il primo a formulare per l’opera il nome di Masaccio. La proposta avrebbe incontrato alcune resistenze (su tutte quelle di Roberto Longhi, Ugo Procacci, Carlo Volpe e Luciano Bellosi), per il fatto che la qualità dell’opera non raggiunge lo stesso grado d’eccellenza di altri prodotti certi della mano di Masaccio: argomentazioni che Tartuferi respinge sottolineando giustamente che “qualche incertezza è perfettamente comprensibile anche in un genio esordiente, e nello stesso tempo appare poco probabile che lo scorbutico ventenne valdarnese fosse già dotato di un’affollata schiera di aiuti”. Nell’anno del riconoscimento da parte di Luciano Berti, l’opera fu subito portata a Firenze per un lungo restauro che fino al 1988 l’avrebbe tenuta lontana da Reggello e anche dagli occhi del pubblico, fatta eccezione per alcuni sporadici momenti espositivi, come la mostra Firenze restaurata del 1972, e il confronto con l’Annunciazione di San Giovanni Valdarno del Beato Angelico allestito nel 1984 a Fiesole. Poi, terminato il restauro, l’opera rientrò nel Valdarno, ma fu deciso, per la sua sicurezza, d’esporla nella pieve di San Pietro a Cascia, dove rimase fino al 2007, anno in cui fu portata al Museo Masaccio che aveva aperto i battenti nel 2002. Dal 1988 in poi si contano poi ulteriori indagini tecnico-scientifiche, un altro restauro (quello del 2011), e partecipazioni ad altre cinque mostre. Infine, dal 2014, l’opera non ha più lasciato il suo museo ed è andata semmai incontro a un lungo e continuo lavoro di valorizzazione che ha adoperato i linguaggi più svariati (anche uno spettacolo teatrale) e che quest’anno culmina con la mostra dedicata.
Una mostra che parte trasportando il pubblico nella Firenze del primo Quattrocento, epoca in cui pace e stabilità economica garantiscono prosperità a una città dove fervono lavori pubblici e dove anche i committenti privati gareggiano per assicurarsi i servigi dei migliori artisti sul mercato: è una Firenze dov’è radicata l’elegante cultura tardogotica d’un Lorenzo Monaco o d’un Gherardo Starnina ma dove già si manifestano pulsioni naturaliste, che sul principio del secolo si traducono in un neogiottismo capace di smussare le punte più affilate delle astruserie e delle stravaganze tardogotiche. La prima sala della mostra presenta dunque al visitatore i diversi linguaggi che caratterizzano la cultura figurativa fiorentina agl’inizî del XV secolo: ci si mette così nei panni d’un giovane Masaccio che, giovanissimo, lasciava la sua San Giovanni Valdarno per trasferisi diciassettenne a Firenze, nel 1418, andando ad abitare nel quartiere di San Niccolò Oltrarno per completare la sua formazione in una bottega locale, forse quella di Bicci di Lorenzo, pittore con il quale, come l’esposizione di Reggello intende dimostrare, Masaccio palesa alcuni punti in comune in avvio di carriera.
In sala si può dunque ammirare ciò che Masaccio poteva vedere al momento del suo trasferimento a Firenze: si comincia dall’opera più antica in mostra, il trittico con la Madonna dell’Umiltà e i santi Donnino, Giovanni Battista, Pietro e Antonio abate di Lorenzo Monaco, in prestito dal Museo della Collegiata di Empoli, manifesto delle finezze tardogotiche che s’affermano in città nell’ultimo scorcio di Trecento, e a cui rimandano le proporzioni allungate dei santi (ma anche quelle del cane di san Donnino), le linee sinuose e innaturali dei panneggi, certi preziosismi come quelli del cuscino su cui siede la Vergine, i cangiantismi quasi metallici delle vesti dei santi. Opera del 1404, il trittico di Empoli viene considerato il primo lavoro compiutamente gotico d’un pittore che s’era formato sulla scia del linguggio giottesco: a orientarlo verso il nuovo gotico internazionale potrebbe aver sì contribuito l’inizio dei lavori per la Porta Nord del Battistero di Firenze, l’impresa che Lorenzo Ghiberti aveva cominciato appena l’anno prima, ma forse più determinante sarebbe stato, nel 1402, il ritorno dalla Spagna di Gherardo Starnina, d’una quindicina d’anni più anziano rispetto a Lorenzo Monaco, punto di riferimento non soltanto di Lorenzo ma di tutti gli artisti più giovani, e primo innovatore della cultura fiorentina sul finire del Trecento. A dar dimostrazione del bagaglio d’esperienze che Gherardo riporta con sé dalla penisola iberica è una raffinatissima Madonna col Bambino tra i santi Antonio abate, Francesco d’Assisi, Maria Maddalena e Lucia, in prestito dalla collezione Oriana e Aldo Ricciarelli di Pistoia: è opera caratterizzata da linee eleganti e tortuose, da colori teneri e delicati, da figure affettate e affusate, da motivi decorativi che dimostrano essi stessi un gusto spagnoleggiante (il tappeto su cui siedono le due sante ai piedi della Vergine, per esempio). Infine, a dar conto del polo opposto è una Madonna col Bambino di Giovanni Toscani del 1420 circa, proveniente dalla pieve di Santa Maria Assunta di Montemignaio: opera che si contraddistingue per la sua tenera resa degli affetti, è un interessante esempio di pittura neogiottesca, in grado di riportare in auge il linguaggio del primo Trecento senza riproporlo in maniera pedissequa, ma aggiornandolo con alcune finezze tipiche del gusto tardogotico, a cominciare dall’andamento delle bordature delle ampie maniche della Vergine.
Non sono comunque questi i maestri coi quali il giovane Masaccio si confronta al suo arrivo a Firenze (lo stesso Starnina muore quando il valdarnese ha appena dodici anni): sono altri gli artisti coi quali probabilmente entra in contatto, e la seconda parte della sala dispone affiancate un paio d’opere pienamente partecipi della temperie artistica dominata dai fiammeggianti pittori del gotico internazionale e dai cultori della tradizione, e che forse hanno fornito a Masaccio i primi banchi di prova su cui misurarsi. Dalla chiesa di San Niccolò Oltrarno arriva un prestito importante, lo scomparto sinistro del trittico di Bicci di Lorenzo che Masaccio (sempre comunque ammettendo una datazione precoce e ipotizzando che il pittore fiorentino abbia cominciato a lavorarci nel 1421) con tutta probabilità conosceva molto bene e che forse tiene a mente quando comincia a lavorare al Trittico di san Giovenale (si noterà la forte somiglianza del san Bartolomeo di Bicci con l’omologo santo che Masaccio dipinge per il suo trittico nel 1422). Allo stesso modo, Masaccio avrà di sicuro ammirato il Crocifisso della chiesa di San Niccolò Oltrarno, altra opera che si può far risalire all’inizio degli anni Venti del Quattrocento: restaurato nel 2021 (viene esposto a Reggello per la prima volta dopo l’intervento), si presenta oggi alla nostra vista con tutte le sofferenze patite nei secoli, che non c’impediscono però d’inquadrare quest’opera in un contesto di grande rinnovamento, dacché l’anonimo autore di questa scultura in legno ci restituisce un Cristo il cui volto è pervaso da un espressivo moto di dolore, e che pur nell’impostazione ancora trecentesca dimostra d’esser già sensibile alle novità che una decina d’anni prima venivano introdotte dai crocifissi di Donatello e Brunelleschi, modelli ineludibili per chiunque si fosse messo a scolpire Cristi in croce di lì in avanti. Il Crocifisso di San Niccolò Oltrarno è pertanto un’opera che, scrive Grazia Badino, “appartiene già al mondo di Masaccio”. Non può esibire invece quest’appartenenza l’ultima opera che si trova in sala, la Madonna col Bambino e i santi Nicola e Giuliano di Giovanni dal Ponte, dipinto che guarda agli iberismi di Gherardo Starnina (specialmente nel modo di lumeggiare e ravvivare i volti), ma ch’è anche pregno, scrive la giovane studiosa Alice Chiostrini, di “elementi che preannunciano l’interesse verso i protagonisti dell’umanesimo tardogotico, come Gentile da Fabriano, e del Rinascimento, come Masaccio” (il rilievo plastico dei contrasti chiaroscurali, per esempio, che migliorerà proprio grazie al contatto con Masaccio).
Il Trittico di San Giovenale è al centro della seconda sala, in un inedito confronto con il Trittico di san Pietro martire del Beato Angelico. Ci si sofferma però prima sul capolavoro di Masaccio, e se è vero, come asseriva Giuliano Briganti, che il primo maestro di Masaccio è stato Brunelleschi, allora questo alunnato a distanza è evidente sin dalla prima opera nota del valdarnese: il giovane artista al suo esordio fa immediatamente sua la prospettiva centrale, applicata in maniera solida, ferma e rigorosa come s’evince guardando lo scorcio del trono d’avorio della Vergine e le linee del pavimento (ch’è condiviso da tutti i tre scomparti: Masaccio immagina uno spazio unitario) che convergono verso il centro ideale, ma anche geometrico, della composizione, ovvero il volto della madre di Dio, dove l’artista colloca il punto focale della composizione, supponendo dunque una visuale dal basso verso l’alto (vero motivo per cui la Madonna ci appare un poco allungata). Le figure sono salde e le loro volumetrie piene, realmente inserite nello spazio: il plasticismo appreso osservando i lavori di Brunelleschi e Donatello gode d’una compiuta resa prospettica. Lo scopritore del Trittico di San Giovenale, Luciano Berti, parlava d’una “continua insistenza sulla tridimensionalità”, padroneggiata con gran maestria da Masaccio, evidente anche da alcuni dettagli come i piedi del Bambino “che scorciano [...] nella veduta frontale senza più cadere, come fino ad allora, di punta”, oppure le mani della Vergine “colte in una doppia situazione di profilo, orizzontale e verticale”, e ancora gli angeli di spalle con le braccia protese in avanti. E si potrebbe poi citare almeno il libro di san Giovenale, nelle cui scritte è stata riconosciuta la grafia di Masaccio, tramite un confronto con un documento autografo. I santi (ovvero, da sinistra, Bartolomeo, Biagio, Giovenale e Antonio abate), già estranei alle flessuosità del gotico internazionale, vengono indagati nelle loro espressioni accigliate con grande acutezza psicologica, e le loro figure, come già notava Berti, rimandano a Donatello: si guardi al san Giovenale, che riporta alla mente la principessa della predella del San Giorgio, o il san Biagio che richiama il San Ludovico bronzeo eseguito per Orsanmichele e oggi al Museo di Santa Croce. Masaccio, sottolinea Lucia Bencistà, seppe del resto cogliere “cogliere fino dai primi passi fiorentini, attraverso l’elaborazione e il ripensamento individuale, le novità prospettiche e plastiche dell’arte nuova di Brunelleschi e Donatello, ma anche, e soprattutto, il valore morale e culturale che da tali novità scaturiva prepotentemente”.
Di fronte, i curatori della mostra gli hanno messo, come detto, il Trittico di san Pietro martire del Beato Angelico, il primo pittore a cogliere pienamente la portata della rivoluzione masaccesca. La macchina del frate pittore condivide alcune innovative soluzioni con il Trittico di San Giovenale, anche se non sappiamo se l’Angelico arriva alle sue conclusioni in modo indipendente o dopo essersi misurato con le opere di Masaccio. È una questione che da tempo fa discutere gli storici dell’arte. È però indubbio che certi spunti siano comuni ai due artisti: su tutti, l’idea di legare i tre scomparti per far condividere alle figure uno spazio unitario, pur conservando la tradizionale tripartizione, e la stessa spazialità che compare nelle due scene della Predica e del Martirio di san Pietro martire dipinte sopra alle cuspidi, talmente originali che negli anni Cinquanta del secolo scorso furono ritenute aggiunte tarde di Benozzo Gozzoli. Si tratta in realtà del prodotto della mano d’un Beato Angelico che, scrive Angelo Tartuferi, “è già in grado di esibire un controllo della spazialità (nella collocazione prospettica del pulpito e degli edifici sullo sfondo) e un’assoluta padronanza nella restituzione delle masse plastiche (le figure femminili accoccolate a terra avvolte in ampi mantelli), che lo accreditano per l’appunto quale sodale indipendente di Masaccio al principio degli anni venti del Quattrocento”. Il Trittico di san Pietro martire segna una svolta nella carriera di Guido di Pietro, che da “uomo del Trecento” (così Tartuferi nel suo saggio in catalogo, tutto dedicato al confronto tra Masaccio e Beato Angelico) formatosi nell’alveo del più tradizionale linguaggio gotico, si trasforma in uno dei principali innovatori del suo tempo: anzi, si trasforma in un artista che, secondo ipotesi recenti, sarebbe da collocare al fianco di Masaccio nel rinnovamento della pittura, sebbene i due fossero divisi da una diversa concezione del loro naturalismo (moderno e decisamente più mondano quello di Masaccio, universale e misticheggiante quello dell’Angelico: due visioni della realtà che però “dal punto di vista degli esiti stilistici risultano invece praticamente identiche”, sottolinea Tartuferi).
Ad accompagnare il confronto tra Masaccio e Beato Angelico sono le due opere di altri due grandi del tempo, Masolino da Panicale e Filippo Lippi. Il primo è presente con la Madonna dell’Umiltà proveniente dagli Uffizi, opera della metà degli anni Dieci, ancora ovviamente inconsapevole di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco: elegante, dolce e raro prodotto della prima attività di Masolino, la Madonna dell’Umiltà rappresenta uno dei vertici dell’arte tardogotica fiorentina, un’opera, scrive Nicoletta Matteuzzi, “contraddistinta da una grazia pacata e sinuosa, dovuta alle forme allungate dei personaggi, alle ampie falcature dei panneggi, all’estrema delicatezza dei chiaroscuri e alla luminosità della gamma cromatica”. Anche Masolino, di lì a poco, sarebbe rimasto affascinato dalle novità masaccesche, e com’è ben noto avrebbe anche avuto modo di misurarsi direttamente con lui nella Sant’Anna Metterza e soprattutto nell’impresa della Cappella Brancacci. Diverso è invece il discorso per la Madonna col Bambino di Filippo Lippi, il più masaccesco dei pittori del primo Quattrocento fiorentino, la cui presenza in mostra è determinata proprio a illustrare le prime modalità di diffusione della lingua di Masaccio: opera giovanile, dimostra evidenti richiami a Masaccio non soltanto nelle volumetrie piene e solide delle figure, ma financo nella nicchia su cui la Madonna si staglia, un rimando alla Trinità dipinta da Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze.
La mostra si chiude nella sala successiva, dove sono presenti due tavole, una Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista e Giacomo Maggiore di Francesco d’Antonio di Bartolomeo e una Madonna col Bambino in trono e due angeli di Andrea di Giusto, tese a dimostrare come l’attenzione dei pittori fiorentini nei confronti di Masaccio non fosse scemata neanche dopo la precocissima morte del valdarnese, scomparso a soli ventisette anni. Francesco d’Antonio di Bartolomeo è secondo Tartuferi uno degli interpreti più originali di Masaccio (ma anche del Beato Angelico e di Masolino): la Vergine e la figura erculea del Bambino potrebbero denunciare una diretta dipendenza dal Trittico di San Giovenale, nonostante la presenza dei due santi, molto più esili, che dimostrano invece la vastità degli orizzonti culturali di questo pittore curioso e singolare. Meno originale e più schematica l’interpretazione di Andrea di Giusto, peraltro collaboratore di Masaccio nel polittico di Pisa nel 1426: la commistione tra elementi nuovi (il plasticismo misurato della Vergine, memore soprattutto delle Madonne del Beato Angelico, lo scorcio prospettico) e tradizionali (l’andamento della bordatura dorata del manto della Vergine, le finezze delle dorature) ci restituiscono i tratti di un artista che, scrive Daniela Matteini, “sembra aver raggiunto un equilibrio tra l’adesione alla concezione tradizionale gotica e l’attenzione nei riguardi dei moduli formali dei maestri del primo Rinascimento fiorentino”.
C’è, infine, un’appendice alla mostra dentro alla pieve di Cascia. Un’appendice fissa, si potrebbe dire, dal momento che il lacerto d’affresco con l’Annunciazione di Mariotto di Cristofano, opera neogiottescca eseguita attorno al 1420, è stato considerato parte integrante dell’itinerario della rassegna, dato il suo ruolo di testimone vivo delle vicende che interessarono il Valdarno nei primi decennî del Quattrocento. E in più, Matteuzzi ricorda come siano certi i contatti tra Mariotto e Masaccio (il primo aveva sposato nel 1421 la figlia del patrigno di Masaccio), e in più i due pittori erano entrambi di San Giovanni Valdarno e separati da soli otto anni d’età, benché il più anziano Mariotto non risulti in alcun modo vicino alle novità masaccesche, “prefendo piuttosto”, scrive Matteuzzi, “rimanere fedele alla tradizione trecentesca o aggiornarsi su testi di altri pittori, come Lorenzo Monaco e Beato Angelico”. L’affresco di Cascia è comunque un altro testo figurativo che Masaccio potrebbe aver visto nel periodo in cui attendeva al Trittico di San Giovenale. Difficile dunque pensare a una mostra più connessa al territorio di quella ch’è stata allestita per il seicentenario del primo capolavoro di Masaccio.
Masaccio e i maestri del Rinascimento a confronto è una mostra corale, al cui eccellente risultato ha concorso un gruppo eterogeneo di studiosi di varia estrazione, tra esperti e giovani, ch’è stato in grado di mettere a punto un percorso armonico ed equilibrato, e a raccontarlo in un catalogo di notevole spessore scientifico e culturale, letteralmente tradotto in termini divulgativi negl’inappuntabili apparati di sala. Gli apparati, peraltro, si distinguono anche sotto il profilo della sostenibilità: non ci sono pannelli invasivi che, negli spazî ristretti del Museo Masaccio, avrebbero prodotto nient’altro che inquinamento visivo, e sono stati però sostituiti da agilissimi QR Code che rimandano a testi pubblicati sul web e a una gradevole audioguida gratuita che accompagna il pubblico quasi opera per opera. Una soluzione che anche le grandi mostre dei musei più famosi dovrebbero tenere in seria considerazione per alleggerire i loro percorsi di visita. Masaccio e i maestri del Rinascimento a confronto è poi una mostra dalla natura bifronte: racconta una storia che nasce nella provincia più profonda, ma dalla quale son germogliate le basi della pittura rinascimentale, ed è allestita nelle sale d’un piccolo museo celato tra le colline del Valdarno, ma parla con gli strumenti della museografia più aggiornata. L’impronta degli Uffizi, del resto, è marcata e la si distingue con chiarezza, e l’esposizione di Reggello può essere annoverata tra gli esiti più ragguardevoli del progetto Uffizi Diffusi, che segna un ulteriore passo nell’innalzamento dei suoi già elevati standard di qualità. Masaccio e i maestri del Rinascimento a confronto è dunque mostra che, in breve, indica la strada per un futuro che sarà sempre più all’insegna d’occasioni come quella di Reggello: esposizioni di dimensioni contenute, fondate su progetti scientifici di alto livello, tese alla valorizzazione delle opere e della storia del territorio, capaci di parlare agli studiosi così come al grande pubblico con identica disinvoltura.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).