Doveva essere un bel tipo, questo Sweerts. Di famiglia fiamminga nobilitata dal commercio tessile, ricordano oggi nel catalogo della mostra, in corso a Roma ancora fino al 18 gennaio all’Accademia di San Luca Andrea, G. De Marchi e Claudio Seccaroni, “chiese e ottenne un titolo che non espose, né sulla persona, né sulle opere”. Da cui si evince “assoluta risolutezza di carattere”. E così abbiamo introdotto il tema principale: il mistero che aleggia attorno a Michael Sweerts, nato a Bruxelles probabilmente attorno al 1618 e morto nelle terre esotiche dell’Oriente indiano, a Goa, nel 1664, dove si era gettato forse per rispondere a una crisi mistica, al seguito della missione lazzarista. Il “Cavre Suars” o “monsù Suars” negli inventari di Camillo Pamphilj – nipote di Innocenzo X, che lo fece cardinale nel 1644 – risulta come “Monsu Michele Suarss fiammengo” oppure “Cavaliere Suars fiamengo”, e fu al servizio del principe dal giugno 1652.
L’elemento che pesa dunque maggiormente sulla rilettura critica del pittore fiammingo del XVII secolo, Michael Sweerts, sembra essere la scarsa disponibilità di notizie biografiche. A proposito dell’onorificenza, di cui lui stesso fece richiesta al papa, i due storici italiani osservano: “Di certo non gli piacevano quegli orpelli e la sua stessa fine in paesi lontani, non segnala certo qualcuno che intenda crogiolarsi in privilegi”. L’oscurità che ingoia in gran parte le origini di Sweerts è simile a quella che avvolge i primi vent’anni e oltre di Caravaggio, del quale ben poco di rilevante si sa prima della sua venuta a Roma, anzi quasi niente. E Sweerts studiò certamente le opere del lombardo, almeno quelle in casa Pamphilj, ma non può essere definito un caravaggesco in toto.
A causa dell’incertezza biografica oggi si pensa che Sweerts sia arrivato a Roma circa a 28 anni d’età, nel 1646; si conosce la nascita indicata nel 1618 nell’atto battesimale, che non si concilia tuttavia coi dati resi noti dal pittore, il quale ha dato informazioni poco attendibili se nel 1649 dichiarava di avere 25 anni e tenne fermo questo riferimento fino al 1650-1651, sostenendo di essere nato nel 1624-1625, così che, alla morte nel 1664, dai registri delle Missions Étrangéres ricostruite da Kultzen nella monografia del 1996, l’età del pittore oscilla fra i 36 e i 48 anni. Nelle carte rinvenute nell’Archivio Apostolico Vaticano recentemente ritrovate Sweerts dice di “dimorare in Roma da sette anni” il che anticiperebbe la sua presenza nell’Urbe al 1643. Altri documenti anticipano di qualche anno ancora. Uno, ritrovato nell’Archivio Apostolico Vaticano, risale al 25 settembre 1650 ed è una istanza a Innocenzo X nella quale il pittore chiede di essere accolto tra i cavalieri dello Sperone d’oro (la Militia aurata) e dice di aspirarvi “sì per la nascita, come anco per essere eccellente nella Scienza della Pittura”. Quanto allo scarso interesse ad esibire titoli, come si sottolinea nel catalogo, non mostrò mai nemmeno lo stemma di famiglia nelle proprie effigi. Eppure, nonostante i privilegi nobiliari, già qualche decennio dopo la sua morte, si era persa notizia o traccia di molte sue opere (di fatto, prima del cavalierato, pare firmasse poco i suoi quadri).
Prima di quella in corso, in Italia la retrospettiva più ampia che gli venne dedicata risale al 1958. Fu allestita a Roma negli spazi di Palazzo Venezia e il comitato esecutivo annoverava una maggioranza di studiosi fiamminghi e tedeschi e di alcuni storici italiani, fra i quali Giuliano Briganti, l’allievo di Longhi che si era messo in luce per gli studi su Pellegrino Tibaldi e il manierismo e per aver curato a Roma nel 1950 una mostra sui “Bamboccianti” al quale lo stesso Sweerts veniva accostato nella mostra di Palazzo Venezia, dove, nell’introduzione del catalogo, si sottolineava che, quando il grande storico fiammingo-tedesco Wilhelm Martin gli dedicava nel 1907 una ventina di pagine sulla rivista “Oud-Holland”, Michael Sweerts pittore. Schema per una biografia e catalogo dei suoi dipinti, dell’artista si conoscevano solo 22 opere attribuite, mentre nell’anno della mostra romana, “tale numero si è triplicato, ed abbiamo oggi anche un’idea molto più chiara delle opere di bottega, come di quelle degli artisti appartenenti alla cerchia di lui”.
Sarebbe difficile dire che l’attuale matassa sia stata effettivamente molto più dipanata negli ultimi decenni, se Andrea G. Dee Marchi e Claudio Seccaroni, a proposito delle “Novità su vita e opere di Sweerts”, introducendo il catalogo della mostra ora all’Accademia di San Luca scrivono che “sul terreno della filologia gli è stata affibbiata in modo insostenibile almeno una ventina di quadri su un catalogo di circa centocinquanta”. Quindici tele in tutto sono il bottino di questa retrospettiva dove vengono messe in risalto le questioni aperte nel catalogo di Sweerts. E si tratta anche di attribuzioni che vengono, per esempio, dagli studi di uno dei principali commissari della mostra del 1958, Rolf Kultzen – uno specialista di Sweerts, ma anche interprete della pittura veneziana del Seicento e del Settecento, in particolare di Francesco Guardi –, che, dopo un primo catalogo redatto nel 1954, ancora nel 1996 stilò un elenco nel quale oggi i due studiosi italiani individuano varie opere dubbie: una Osteria, di ubicazione ignota; la Buona Fortuna e le Lavandaie di collezione Mambrini; cinque tele con i Sensi sparse fra mercato e l’Accademia a Vienna; tre tele con Fanciulli, di collocazione mancante; un Violinista al Museo Puskin; un Mendicante, molto rovinato, della collezione di Mina Gregori e altre tele. È rilevante questa sottolineatura della fallacia di certe attribuzioni, perché segnala un problema deontologico diffuso fra i conoscitori attivi oggi: da vari decenni ormai si manifesta una tendenza estensiva del catalogo degli artisti – si pensi a Caravaggio e Artemisia, ma ultimamente anche vari fiamminghi: con speculazioni azzardate per quanto riguarda i caravaggeschi sulle copie confuse spesso per originali – che alimenta un mercato spesso privo di inibizioni che garantiscano l’affidabilità del commercio antiquariale.
Su Sweerts sono mutati molto i tempi dell’esame critico. All’epoca della mostra di Palazzo Venezia veniva ancora definito un pittore di “bambocciate”, molto attivo nella propria bottega a Roma. Il titolo Michael Sweerts e i bamboccianti testimonia, in effetti, che già allora gli studi di Briganti cominciavano a dare frutti e alimentavano un collezionismo esigente. I curatori della mostra del 1958 ricordavano proprio che da alcuni anni l’architetto e storico dell’arte romano Andrea Busiri Vici spingeva perché fosse allestita una mostra di Sweerts in Italia. Busiri Vici era diventato un conoscitore dei fiamminghi e lo stesso Briganti nel 1989, sulla rivista “Studi Romani”, ne celebrava la scomparsa tracciandone un ritratto anche come esperto: “Fu indubbiamente un pioniere di quel gusto per episodi apparentemente marginali della cultura artistica seicentesca e settecentesca (i bamboccianti, per esempio, o i vedutisti e i paesaggisti italiani italianizzanti) che si diffuse anche fuor d’Italia negli anni Sessanta e Settanta”.
Se già negli anni Venti lo storico di origini russe Vitale Bloch rivolgeva a Sweerts le sue attenzioni e nel 1950 espresse il desiderio di realizzare una retrospettiva al “Cavalier Suars”, la riscoperta era ancora in pieno svolgimento quando nel 1968 Bloch pubblicò in Francia un saggio ben illustrato che prendeva in considerazione anche l’epilogo esistenziale del pittore, dopo il 1660 (“fuggito” coi missionari cattolici nelle terre esotiche), intitolato appunto Michael Sweerts. Suivi de Sweerts et les missions etrangeres par Jean Guennou. Va aggiunto che il direttore del Museo Boymans, Ebbynge Wubben, introducendo la mostra di Palazzo Venezia ricordava che nella collettiva svoltasi a Londra nel 1955 sugli artisti secenteschi a Roma, la pittura di Sweerts veniva paragonata alla “Metafisica” di De Chirico e Carrà; aggiungendo: “Nonostante gli effetti plastici cui esse giungono, attraverso il modellato risentito, le figure dello Sweerts sono assorte, isolate e statiche anche quando gestiscono o sembrano cercare una comunione scambievole… L’artista predilige la luce morente, quale è quella della sera, per cui i quadri sono immersi in una atmosfera melanconica. I motivi di genere, tolti dalla vita del popolo romano, sono eseguiti secondo regole classiche e accademiche: realismo e accademismo”.
Ma non era fuori centro l’osservazione di Franz Roh che in Sweerts prendevano forma “lievi, preziosi contrasti”. Dopotutto, sono le stesse forzature notate da una parte della critica caravaggesca nell’interpretazione “classica” che si è voluto dare del Merisi, la cui pittura manifesta a Roma un genio ribelle le cui scelte sono sgradite a una parte della stessa Controriforma più clericale; in tal senso, anche il far uso del chiaroscuro è stato inteso, artatamente, come arma per rinchiudere la rivoluzione di Caravaggio nel tenebrismo-naturalismo.
Seguendo l’osservazione di Emilio Lavagnino, storico dell’arte e soprintendente laziale che tirava le fila della mostra di Palazzo Venezia, secondo cui il caravaggismo – quando Merisi era morto da 5 anni e Ribera aveva indirizzato le ricerche di molti suoi seguaci (lo si è visto meglio grazie agli studi di Gianni Papi) – “a Roma, verso il 1615, si direbbe in piena ripresa anche per il validissimo intervento di alcuni fiamminghi e olandesi, fin quando, subito dopo il 1625, sembra voler rapidamente mitigare la violenza delle sue luci”. Se, da un lato, sembra voler sostenere il peso dell’esempio di Sweerts, Lavagnino lo rende più ambiguo quando parla di una nuova idea caravaggesca avanzata dall’olandese Pieter van Laer, collegando la mostra del 1950 sui “bamboccianti” svoltasi a Roma in Palazzo Massimo e quella dell’anno successivo a Milano su Caravaggio e i caravaggeschi, curata da Longhi. Il mondo degli umili celebrato da Caravaggio e dai suoi discepoli – “fino allora respinti da qualsiasi rappresentazione ufficiale”, perché manchevole di “decoro”, d’altra parte sarà, più di un secolo dopo, sia pure con uno scarto ruspante e terragno come quello del Ceruti, la linea caravaggesca inseguita anche da Sweerts proprio in ragione di una visione nuova e aperta degli ultimi, disincatata, cioè non prona al pauperismo, ovvero, nel caso del fiammingo, senza una forzatura ideologica come poteva scaturire dalla tradizione borromaica che arava ancora le terre bresciane e bergamasche. Non “incidenti e storielle, caratteristici del popolo minuto degli accattoni, dei taglia-borse, dei guitti, dei ciarlatani” che Bellori appunto vedeva rivolta polemicamente a nome dei disgraziati verso quella società di ambito clericale e notarile; in realtà, per quanto riguarda Sweerts, più attenta alle sottili contraddizioni che svelano sempre il comune impasto di bene e di male che rende gli uomini nobili e miserevoli senza ricette prestabilite. Era credo deludente, per lo stesso Sweerts, ripensare all’orgoglio luterano di “quei riformati che tornando verso le loro limpide città del Nord Europa con certe precise immagini nel bagaglio potevano dimostrare, documenti alla mano, che nella gran città dei papi non era tutt’oro ciò che riluceva”.
Un pittore delle giovani generazioni di oggi saprebbe giocare con l’ironia sulle forme classiche come Sweerts seppe fare stando appunto in equilibrio tra realismo e classicismo, calandosi negli stessi strumenti dell’accademia, i calchi in gesso che rivediamo come un cimitero di reliquie nelle sue tele dove raffigura uno studio d’artista? “Visse e dipinse diversamente dai cliché del tempo, dimostrando un’attenzione senza confronti per la vita reale dei soggetti di classi diverse che descriveva”, commentano De Marchi e Seccaroni. Ma amava esercitare la didattica ad allievi che nell’accademia cercavano il punto di partenza per acquisire i migliori strumenti d’arte. Disegni, cartoni e l’uso di tipologie ritornavano anche nei suoi stessi dipinti. E vari gli furono debitori per questi modelli che venivano ripetuti. Con Johannes Lingelbach, lo scambio amicale generò anche uno scambio di modelli grafici. Ma come osservano i curatori, Sweerts “appare poco interessato alle mode e a crearsi una schiera di seguaci”, ai quali imporre il proprio magistero, infatti “sono poche le opere ascrivibili con certezza alla bottega… che si distinguano dalle repliche e dalle rare copie”. Ne risulta un approccio anticonformistico “capace di far convivere miserie ed eleganze, allontanandosi dai repertori iconografici ritenuti più nobili”.
A proposito del mistero che alita ancora attorno a lui, De Marchi e Seccaroni notano che spesso la confusione nasce anche sui tratti somatici del suo volto, “incompatibili fra loro e con i più inaffidabili identikit”. Intanto, bisogna stare ai riscontri certi. Uno è l’Autoritratto del 1645 circa, conservato agli Uffizi, mentre un’altra tela, sempre con un suo Autoritratto di qualche lustro dopo, quando già aveva fatto rientro da Roma a Bruxelles e prima della partenza per l’Oriente: ormai uomo maturo, si presenta con elegante posa in abiti per niente sontuosi, mentre dipinge e ci guarda sullo sfondo di un paesaggio immerso in una luce serotina che sottolinea il suo volto con un’aura fuori dal tempo. Siamo probabilmente nel 1659 e Michael appare tutt’altro che remissivo, anzi ne risalta un carattere difficile, intransigente lo definisce Claudio Strinati, pronto alla discussione anche sopra le rime, con una volontà di sfida e il bisogno di trovare pace interiore, che si collegano forse anche a un dato personale, la sua presunta inclinazione omosessuale, secondo le ricerche di Lindsey Shaw Miller, che i curatori con una certa diffidenza definiscono gay drama.
Anche la ricerca di un approdo religioso è tema di discussione; si sa abbastanza poco, ma la fuga verso Oriente sembra indotta dalla conversione, che ben presto lo porterà anche a dissapori con gli stessi missionari che lo avevano accolto nelle loro compagnie. Un’anima in pena? Certo, come ha intitolato qualche anno fa Dominique Cordellier un suo saggio-narrativo, Le peintre disgracié: Sweerts era un uomo insoddisfatto e melanconico. E forse quella sua poetica che definiva “presa dalla vita” doveva far risaltare il sentimento “amaro” che lega appunto ironia e percezione dell’inesorabile consumarsi del tempo, cioè di se stesso. Le sue tele di mendicanti, bevitori, filatrici e i gruppi riuniti all’aperto in piccole situazioni paesaggistiche, sembrano risolversi in uno strano stato d’animo “sereno”, dove il raggiungimento dell’equilibrio rende le sue effigi umane quasi insensibili alla tragicità della vita, come se tutto dovesse accadere e l’esito finale emergesse da un procedimento ironico. Una forma di scetticismo molto nordico nei modi.
I due curatori compiono un passo decisivo, oltre quanto già era stato stabilito dai precedenti studiosi, cercando corrispondenze fisiognomiche fra i personaggi ritratti, per definire sia un volto più stabile del pittore, sia dei modelli che adoperò e che ritornano in tele diverse e anche diluite nella cronologia. “Fra queste, ad esempio, c’era un uomo con capelli corti e barba sagomata, che ritrasse almeno quattro volte, l’ultima delle quali ormai connotato con segni d’invecchiamento”. Stesso confronto con la ragazza che si pettina, di cui in mostra troviamo due tele analoghe ma con differenze importanti a livello compositivo: in entrambe nell’angolo in basso a destra, lasciata sul pavimento, una cesta con panni (una natura morta quasi caravaggesca), mentre in primo piano nella tela dell’Accademia di San Luca, oltre alla ragazza che tiene sulle gambe uno specchio, un’altra in piedi la aiuta. Dietro, a sinistra, vediamo un’apertura che sfonda fuori dalla casa, dalla quale sta entrando un uomo con mantello e cappello; nella tena di analogo soggetto, conservata a Firenze nel Museo di Casa Martelli, la ragazza è nella medesima posa, in basso la cesta con i panni, ma adesso è sola: sono scomparsi sia la donna che l’aiutava a pettinarla sia l’uomo sullo sfondo. La materia più levigata nelle forme e solida nel colore, e la composizione più semplice, potrebbe far precedere questa tela all’altra, considerato, come è stato fatto notare da Kultzen, che le scene con più figure rappresentano una evoluzione nel percorso di Sweerts. Il soggetto e la sua realizzazione hanno sollecitato sia accostamenti con le tipologie della Vanitas, come suggerito da Lavagnino, sia il richiamo alla Maddalena Doria del Caravaggio: De Marchi a tal proposito ha ricordato che Sweerts dovette vederla in casa Pamphilj proprio nel periodo in cui il papa gli concedeva il cavalierato. Altro elemento che sottolinea la perizia di studio di Sweerts è la corrispondenza dell’abbigliamento della ragazza con la moda romana del secondo decennio del Seicento. Tutto questo denota una meticolosità di studio, che conferma il carattere sicuro di sé che esercitò per tanti anni con i suoi allievi d’accademia.
Perché dunque decise di partire per l’Oriente quando ormai era un pittore affermato e lodato? In una lettera del marzo 1661 a san Vincenzo de’ Paoli (già morto), un missionario definisce Sweerts “uno dei più grandi pittori al mondo, se non il più grande”, uno che devolve ciò che guadagna ai poveri, si confessa spesso, dorme sul duro, mangia poco e quasi mai carne. Un vero mistico, per così dire, nonostante la personalità abile negli affari e nei rapporti sociali. Per le sue competenze linguistiche e l’abitudine a trattare coi nobili era un candidato perfetto per i missionari. Il loro stretto legame con la politica estera della Francia (vedi oggi la funzione di Abu Dhabi e Singapore), doveva favorire l’interesse nazionale in competizione coi mercanti olandesi.
Nel settembre 1661 Sweerts parte per l’Oriente. E ben presto cominciano le lamentele, dove arrivano a definirlo ipercritico: “Diventa insopportabile, fa la morale a tutti. Non gli importa del sacerdozio, insomma di tutte le cose; in compagnia contraddice tutti”. Giustamente De Marchi e Seccaroni obiettano che non si può dire se fosse crisi psichiatrica ovvero se Sweerts avesse ben presto aperto gli occhi sulle “motivazioni extrapastorali dell’iniziativa, non condividendole”. Nella parte finale del viaggio, scrivono i curatori, forse s’imbarcò verso l’India dove venne abbandonato malconcio a Goa. Oppure, venne indirizzato lì dai carmelitani di Isfahan che avevano la loro sede in quella città. Ma altre piste parlano di un “pittore nobile” che sulla costa orientale dell’India ritraeva dignitari locali. La tomba non è mai stata ritrovata. Anche in questo caso, sia pure con le debite differenze di storia personale, la fine di Sweerts ha strane analogie con quella di Caravaggio di cui ancora non è del tutto chiarito il tragico epilogo della morte. Una fine che distingue Sweerts, concludono i curatori, dalle “consuetudini proprie agli artisti del tempo”.
L'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti
Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).