Mark Manders, quando si scrive con gli oggetti anziché con le parole. Com'è la mostra della Sandretto


Mark Manders orchestra il suo lavoro per instillare il dubbio e farci confrontare con i limiti della nostra cognizione: il suo potrebbe essere definito “illusionismo concettuale”. E adesso lo porta in mostra a Torino. La recensione.

Di regola siamo abituati a far afferire nell’alveo del concettuale un variegato catalogo di espressioni artistiche in cui le istanze legate al processo costruttivo e allo schema speculativo che determinano l’opera sono predominanti rispetto al risultato estetico e percettivo. Questa corrente artistica, sviluppatasi dopo il 1960 negli Stati Uniti a partire dalle sperimentazioni di Joseph Kosuth sulle relazioni logiche e semiotiche tra immagine e parola, ambiva a liberare l’arte dai vincoli formali e materici concentrando la ricerca sulle fasi di progettazione e ideazione. Per tutto il Novecento tale intento si è inscritto in un percorso già in atto di progressiva erosione degli aspetti fino ad allora considerati costitutivi dell’opera (come la mimesi, la prospettiva, il coinvolgimento emozionale, il rapporto con la cultura visiva del passato o il valore commerciale) culminante nella volontà di prescindere dall’opera d’arte e, nei suoi esiti più radicali, nella scelta di rinunciarvi del tutto. In base a queste premesse possono essere definite “concettuali” esperienze storicizzate molto diverse tra loro ma caratterizzate da un comune denominatore inconfondibile (come Land Art, Arte Povera, Minimalismo, Body Art, Narrative Art e altre tendenze affini), a cui si sono aggiunte nei decenni successivi le produzioni di artisti che, pur essendo svincolati dall’appartenenza a uno specifico gruppo, convergono nell’impegno a sussumere in varie combinazioni alcuni aspetti fondativi di tali esperienze seminali, come il rigore cromatico e geometrico, l’uso di oggetti desunti dal quotidiano o l’inclusione della parola scritta nell’opera. Le cose si sono complicate con il sincretismo transdisciplinare della stretta contemporaneità, in cui un assetto di stampo a prima vista concettuale, secondo questi parametri, non è più espressione inequivocabile della ricerca di un ordine ideale e teoretico, ma può anche essere il risultato di una riattivazione puramente estetica dei linguaggi attraverso i quali tale aspirazione aveva in passato trovato un’ipotesi di forma visibile.

Nello sterminato panorama del concettuale contemporaneo, negli ultimi tempi dominato dalla massiva irruzione di dati, processi e suggestioni provenienti dall’universo digitale, si distingue l’operato di Mark Manders (nato a Volkel, Olanda, nel 1968, vive e lavora a Ronse, Belgio) protagonista della mostra Silent Studio curata da Bernardo Follini alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino e visitabile fino al 16 marzo 2025. L’esposizione si configura come un’ampia antologica dedicata alla carriera più che trentennale di un artista con cui la fondazione ha costruito un rapporto molto solido negli anni, avviato con la sua partecipazione alla collettiva Guarene Arte 97, in occasione della quale, nel 1997, ha ricevuto il Premio Regione Piemonte per il progetto Autoritratto come edificio. E proprio questo ciclo, ancora in corso, è il fulcro di questa ulteriore tappa torinese, che trova la sua ambientazione ideale nella sede cittadina della Sandretto Re Rebaudengo, un edificio bianco, neutro e lineare di quasi 4.000 metri quadri dedicati alle mostre temporanee di arte contemporanea, attribuito alla fondazione nel 2022 in seguito a un bando europeo.

L’idea sottesa a tale ricerca, che l’artista porta avanti dal 1986, è quella di scrivere con gli oggetti invece che con le parole, utilizzandoli come materiali strutturali di un edificio finzionale narrativo composto in potenza da tutte le parole dell’Oxford English Dictionary e per questo predisposto a riformularsi in modo differente a ogni nuova occasione espositiva. Per Manders quest’edificio si fonda sull’idea che un’architettura possa rappresentare un autoritratto, permettendo a chi guarda di addentrarsi in quel recondito spazio mentale in cui la logica e le pulsioni subconscie del suo creatore si incontrano, ma al tempo stesso, una volta materializzato, trascende la sfera individuale per diventare collettivo negli apporti interpretativi del pubblico impegnato a decodificarlo. In linea con questo proponimento, l’idea iniziale della mostra è quella di costruire un nuovo autoritratto lasciandosi guidare dall’architettura minimalista della fondazione, molto simile allo studio dell’artista in Belgio a cui, in ultima istanza, rimandano sempre le sue ambientazioni. Come in ogni mostra, l’assenza dell’artista è il fulcro propulsivo dell’allestimento, poiché anche qui l’organizzazione narrativa sottesa alla visita prevede che il pubblico entri in quello che si intuisce quasi subito essere un luogo di lavoro, offerto allo sguardo immediatamente dopo che chi lo abita ne è uscito.

Allestimenti della mostra Mark Manders. Silent Studio
Allestimenti della mostra Mark Manders. Silent Studio
Allestimenti della mostra Mark Manders. Silent Studio
Allestimenti della mostra Mark Manders. Silent Studio
Allestimenti della mostra Mark Manders. Silent Studio
Allestimenti della mostra Mark Manders. Silent Studio

Il percorso si apre con una sorta di anticamera in cui si materializza in maniera paratattica il glossario personale di Manders, che nella sala principale comparirà in una disposizione ambientale sintattica. Incontriamo anzitutto l’assemblaggio Perspective Study (with All Exhisting Words), 2005-2025, dove l’immagine ribaltata specularmente di quella che sembrerebbe la riproduzione fotografica di un quotidiano montata su tela ha come perno un neon spento, scollegato dalla presa di corrente. Si tratta di un lavoro emblematico, parte di un ampio ciclo intitolato Room with All Exhisting Words, consistente in una serie di dieci quotidiani fittizi, perfettamente verisimili, nelle cui pagine considerate nell’insieme compaiono senza ripetersi tutte le parole del vocabolario inglese appena menzionato collocate in ordine casuale. L’artista ha in più occasioni dichiarato l’origine autobiografica della serie (e della sua poetica tout court), radicata nella volontà giovanile di diventare romanziere che lo ha condotto dapprima a elaborare una “planimetria” di tutto il materiale di scrittura in suo possesso, e poi alla scelta di utilizzare gli oggetti come vocaboli per poter fingere di avere a disposizione tutte le parole possibili, diventando quindi autore di un romanzo immaginario in qualità di artista visivo. Entrando nel dettaglio dell’opera in mostra, dunque, capiamo che nonostante la carta, l’impaginazione e l’impostazione tipografica siano del tutto credibili, il testo non si configura come una cronaca leggibile, ma come una composizione poetica nonsense che introduce il tema della relazione tra le parole, gli oggetti e le sculture. Al tempo stesso, il fatto che il neon sia spento benché funzionante introduce il sospetto che l’ambiente alluso non sia un luogo espositivo, ma un laboratorio in cui ciò che l’artista ha realizzato compare in una dimensione cristallizzata, altro aspetto cruciale essendo lui abituato a lavorare per lunghissimi periodi (anche decadi) sulle stesse opere. Il titolo Perspective study, invece, è un rimando agli studi di prospettiva con cui, dal Rinascimento in poi, tutti gli artisti di formazione accademica si devono confrontare (in questo caso, la riproduzione dell’oggetto-giornale inclinato rispetto al piano pittorico), ma forse anche il suggerimento cifrato di “mettere in prospettiva” le opere per coglierne la sintassi interna e le reciproche relazioni.

Il secondo lavoro che incontriamo è Skiapod 57, 2005-2024, un acrilico su legno in cui appare una strana figura antropomorfa disossata e sproporzionata sdraiata sulla schiena, con una grande lingua rossa protesa all’esterno e una sola gamba terminante con un piede sovradimensionato, utilizzato come ombrello parasole. Lo Sciapode è un’altra chiave di volta nel pensiero creativo di Manders, una supposta creatura mitologica di sua invenzione nata dall’appropriazione di un vocabolo del dizionario “a cui nessuno è interessato”, attuata per dimostrare come sia possibile costruire un intero mondo da una sola parola. A questo personaggio l’artista (sul suo sito) ha dedicato anche una pagina Wikipedia con un misto di informazioni reali e fallaci, presentandolo come una ricorrenza in varie culture mondiali sin dai tempi dell’antica Grecia.

Questa narrazione filologica contaminata da informazioni aggiuntive fallaci viene avvalorata da una serie di opere fake nello stile di altri artisti, come Philip Guston o Maria Lassnig, che raffigurano lo Sciapode, al punto da rendere impossibile discernere il vero dal falso. Il mondo dunque inteso come storia riscrivibile, ma anche altamente fraintendibile, una dimostrazione per l’artista della concomitante forza e debolezza della mente umana. Cominciamo a guardarci attorno con crescente sospetto, quando ci accorgiamo che gli altri elementi esposti nella sala (mobili in stile modernista, piccole opere dell’artista collocate all’interno di teche al pari di alcuni enigmatici attrezzi da pittore per reggere la matita o proiettare ombra) ambientano la nostra presenza in un ambiguo setting pseudo-domestico. In realtà, entrando in questa sala d’aspetto, siamo già stati intrappolati all’interno dell’opera perché tutto ciò che vediamo (come in ogni mostra di Manders) è stato concepito, progettato e prodotto da lui, compresi i mobili e le strutture espositive. E, infine, un esempio della scultura figurativa di Manders, una sagoma abbozzata in argilla con il volto etrusco stilizzato protetta da garze e lasciata riposare in bilico su una sedia tappezzata di giornali, forse la stessa su cui l’artista era seduto mentre la modellava. La scultura, oltremodo ambigua nel suo apparire al contempo malleabilmente umida e prossima a sgretolarsi, è priva di braccia e si colloca in un tempo sospeso in cui l’archeologia e lo studio preliminare collidono. L’agnizione avviene quando, leggendo le didascalie, scopriamo che la creta non è il loro materiale costitutivo, ma il bronzo, successivamente mimetizzato tramite interventi pittorici in modo da simulare l’effetto dell’argilla, avvicinando improvvisamente l’opera al versante della pittura a dispetto della sua ostentata negligenza cromatica.

Mark Manders, Perspective Study (with All Exhisting Words) (2005-2025)
Mark Manders, Perspective Study (with All Exhisting Words) (2005-2025)
Mark Manders, Skiapod 57 (2023; tavola, 227 x 250 cm)
Mark Manders, Skiapod 57 (2023; tavola, 227 x 250 cm)
Mark Manders, Fox/Mouse/Belt (1992-1993; bronzo dipinto, cintura, 15 x 120 x 40 cm)
Mark Manders, Fox/Mouse/Belt (1992-1993; bronzo dipinto, cintura, 15 x 120 x 40 cm)

Siamo ora abbastanza scaltriti dal punto di vista percettivo e razionale per accedere alla stanza successiva, il cuore della mostra-studio dove queste suggestioni si compongono in una grandiosa sinfonia ambientale. All’ambiente principale ci introduce sulla soglia la piccola opera esposta nel 1997 a Guarene, Fox/Mouse/Belt, 1992, raffigurante una volpe e un topolino appiattiti a terra e allacciati l’uno all’altro da una vera cintura in cuoio, ispirata dalla volontà di creare un’opera a partire dalle tre parole presenti nel titolo. Inevitabile, pensando alla modalità di collegamento tra linguaggio e opera di cui questo lavoro è conseguenza, supporre un’inconsapevole prefigurazione dei prompt sui cui si fonda oggi la collaborazione tra l’uomo e l’AI.

Poi l’immaginario di Manders si espande e deflagra in un sontuoso cantiere scandito da impalpabili quinte di cellophane opaco, dove alcune delle sue iconiche grandi sculture poggiano su rudimentali tavoli da lavoro come se fossero state abbandonate in corso d’opera e attendessero il ritorno dell’artista per essere completate. Questi misteriosi busti dal volto imperturbabile e privo di connotazioni individuali, in cui il profilo del collo e delle spalle ricalca la cifra ideale dei soggetti umani dipinti da Piero Della Francesca, appaiono sezionati da tavolette incuneate in quella che sembra creta fresca (in verità bronzo camuffato), un’allusione ambivalente agli studi sul colore e sulla geometria dell’artista e alla necessità tecnica (in questo caso fittizia) di porzionare durante la modellazione sculture in argilla di tali dimensioni. Anche tutti gli altri elementi che appaiono disseminati nello spazio come materiali da allestimento, compresi la corda a cui è ancorata una testa gigante, gli accumuli di materia grezza negli angoli o un anonimo sgabello, sono collocati secondo una partitura ritmica ben precisa e, ça va sans dire, sono riproduzioni iperrealistiche in bronzo degli oggetti citati. L’unica argilla reale è, invece, la polvere di cui è cosparso il pavimento, che costituisce un’ennesima intercapedine significativa di quest’opera ambientale, essendo lo scarto degli stampi modellati dall’artista per la fusione delle sculture.

Il percorso si conclude con un altro imprescindibile aspetto dello studio, una sequenza di disegni appesi tramite mollette a un filo (come davvero avviene nel laboratorio di Manders in Belgio) che corre lungo tutta la parete opposta all’entrata, all’esterno dell’area circoscritta dalle cortine in cellophane. Anche se in molti di essi si possono riconoscere richiami alle opere esposte, non si tratta necessariamente di bozze progettuali di lavori a venire, ma piuttosto di pensieri cristallizzati dal segno grafico e lasciati decantare sulla superficie del foglio, come avviene per le sculture nello spazio tridimensionale o per le parole in quello mentale. Al pari degli altri elementi che compongono la mostra, anche i disegni si configurano come “ritratti”, poiché derivano la loro ragion d’essere dalla necessità di esplicitare come l’artista pensa e agisce per via indiziaria, lasciando al visitatore l’onere (e soprattutto il piacere) di accordarsi alle sue logiche per esplorarne fino in fondo le labirintiche conseguenze.

Alla luce di queste riflessioni appare chiaro come, nonostante di primo acchito la formalizzazione della ricerca di Manders sembri derivare da un’ispirazione estetizzante e scenografica, in realtà sia saldamente ancorata nell’ambito concettuale, di cui costituisce una personalissima ed eclatante declinazione. Tutto è orchestrato per instillare il dubbio e farci confrontare con i limiti della nostra cognizione e le relazioni reciproche tra i vari elementi sono governate, come nella migliore tradizione, da una struttura di regole aleatorie ma inderogabili. In questa stupefacente invenzione, che potremmo definire come “illusionismo concettuale”, ritroviamo inoltre armonizzati e compresenti (appena sotto la pelle del visibile) i principali caratteri del concettualismo storico a cui si accennava all’inizio, come la centralità del testo scritto e del processo, il minimalismo compositivo e l’importanza semantica dell’oggetto, a ulteriore riprova della coerenza, della tenuta logica e dell’attualità di questa più che trentennale ricerca.


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