In una lettera datata 10 maggio 1548, Annibal Caro esprime a Giorgio Vasari il desiderio d’entrare in possesso d’una sua opera, suggerendogli che sarebbe stato meglio se il lavoro fosse stato fatto con una certa rapidità: non tanto perché Annibal Caro avesse fretta (e, nel caso, era riuscito comunque a trovare una giustificazione geniale), ma perché convinto che le cose nate dal “furore”, inteso come impulso poetico, siano quelle che riescono meglio, assunto valido tanto per la pittura quanto per la poesia, al punto che Caro non esita a dire all’amico “che voi siete così poeta come pittore”. Il concetto oraziano di ut pictura poësis ch’emerge esplicito dalla lettera di Annibal Caro è centrale non soltanto per godere a fondo di quel Teatro delle Virtù messo nel titolo della mostra che quest’anno Arezzo dedica al suo artista per marcare sul calendario la ricorrenza dei quattrocentocinquant’anni dalla scomparsa, ma anche per comprendere in maniera più piena la personalità di Giorgio Vasari, per capire chi fosse quel personaggio che oggi il grande pubblico tende a considerare soprattutto per la sua opera storiografica o, al più, per qualche suo dipinto su cui son caduti gli occhi durante una visita a un qualche museo, ma che in realtà si pone come figura decisamente più complessa, e non soltanto per la sua versatilità. Per avere un’idea, si potrebbe fare un esercizio: provare a immaginare chi potrebbe essere, mettiamo, un Giorgio Vasari del XXI secolo. Che mestiere farebbe oggi il Giorgio Vasari all’apice della sua carriera. Potremmo immaginarlo, volendo banalizzare, come un regista cinematografico (ché oggi, un Vasari non dipingerebbe, dato che la pittura nel 2024 non è certo l’arte più rilevante nel discorso pubblico), un regista visionario, effervescente animatore del dibattito culturale, un regista capace di ritagliarsi un ruolo da intellettuale (ce lo immaginiamo che scrive sui giornali, partecipa ai talk show, pubblica libri), con un vivo interesse per la storia del cinema (anzi: un regista che stabilisce una teoria del cinema rivoluzionaria), spesso impegnato nella realizzazione di campagne istituzionali, incline a incursioni nelle altre arti in cui s’è formato, senza trascurare spiccate doti da uomo marketing, da grande esperto di comunicazione. E anche immaginandoci una figura del genere non avremmo comunque un’idea completa e che corrisponda alla percezione che Vasari aveva di se stesso: la discrepanza è dovuta, potremmo dire, all’immagine pubblica dell’artista nel Cinquecento.
Prima di Vasari, malgrado le rivendicazioni degli artisti visivi e malgrado il notevole prestigio che pittori, scultori e architetti avevano visto riconoscersi progressivamente da almeno un secolo e mezzo, non esisteva una codifica teorica delle arti visive come la potremmo intendere oggi: pittura, scultura e architettura erano ancora le “arti ingegnose manuali”, come Vasari stesso le definisce nella Vita di Giovanni Antonio Sogliani. Ed è con Vasari che la definizione, da lui coniata, di “arti del disegno”, sotto la quale l’aretino avrebbe riunito pittura, scultura e architettura, diventa il fondamento d’una teoria estetica determinata a riconoscere alle arti visive le stesse prerogative delle lettere, della poesia, delle “arti liberali”, per adoperare un’espressione anacronistica. “La pittura e la poesia usano come sorelle i medesimi termini”, scriveva lui stesso nei Ragionamenti. E da questo desiderio di riconoscimento deriva anche la versatilità di Vasari: “Rade volte un ingegnoso è eccellente in una cosa che non possa agevolmente apprendere alcun’altra, e massimamente di quelle che sono alla prima sua professione somiglianti, e quasi procedente da un medesimo fonte” (così invece nella Vita dell’Orcagna). La prerogativa della teoria estetica di Vasari è, com’è naturale attendersi, il motto oraziano, benché al rovescio rispetto a come lo intendevano gli antichi, che parlavano di poesia paragonandola alla pittura, mentre in epoca moderna avveniva. Paul Oskar Kristeller osservava già nel 1951 che questa “ambizione della pittura, che intendeva partecipare del prestigio tradizionale della letteratura, spiega anche la popolarità” del concetto di ut pictura poesis, “che s’afferma con forza per la prima volta nei trattati sulla pittura del XVI secolo e che avrebbe conservato il suo fascino fino al XVIII”.
Vasari arrivò a formalizzare la propria idea in un momento relativamente avanzato della sua carriera, ma dobbiamo immaginarla in nuce fin dagli esordî, se occorre leggere una delle sue prime opere note, il celeberrimo Ritratto del duca Alessandro de’ Medici che apre la mostra di Arezzo assieme al ritratto dello stesso Vasari eseguito dallo Stradano, alla stregua d’un lungo poema celebrativo scritto con gli strumenti della pittura, coi pennelli e coi colori: ecco allora l’armatura lucente come metafora dello “specchio del principe” poiché “il principe dovrebbe esser tale che i suoi popoli potessero specchiarsi in lui nelle azioni della vita” (è ancora Vasari a fornire, nei Ragionamenti, una sorta di parafrasi del suo ritratto), siede su di una sedia tonda perché il cerchio indica il suo regnare perpetuo, un dominio che non ha inizio né fine, e poi la seduta è fasciata con un panno rosso che allude al sangue sparso dai Medici contro i suoi nemici, l’elmo non è indossato dal duca ma è posato a terra in segno di pace, e via dicendo. La qualità di Vasari ch’emerge immediata dalla mostra di Arezzo, curata da Cristina Acidini con Alessandra Baroni, al di là delle sue doti comunicative fuori dal comune e messe fin da subito al servizio dei Medici, è la sua capacità d’elaborare iconografie inedite, una qualità che dev’esser letta alla luce delle sue ambizioni teoriche: la mostra ne dà immediata prova dedicando una buona metà della sala sulla formazione di Vasari (spiccano qui, peraltro, le Tentazioni di san Girolamo che assieme al ritratto di Alessandro de’ Medici costituiscono un altro prestito eccellente dagli Uffizi, sul quale ci si potrebbe molto dilungare per indugiare sul mirabile accostamento tra motivi sacri e profani che Vasari dispiega sulla sua tavola) all’Allegoria della pazienza, motivo iconografico nato a tavolino, elaborato da Vasari, con la partecipazione di Michelangelo e dello stesso Annibal Caro, per soddisfare una richiesta del vescovo di Arezzo, Bernardetto Minerbetti.
L’Allegoria della pazienza, scrive Carlo Falciani che nel catalogo della mostra le ha dedicato un saggio, rappresenta un unicum “fra le allegorie vasariane specialmente per l’anomala semplicità e per il parco uso di simboli che la contraddistingue”: l’originale, oggi in collezione privata (alla mostra se ne vede una replica di dimensioni più contenute, esposta assieme a una variante sempre di mano di Vasari e a una grande tela che la riprende, attribuita in questa occasione al Bastianino, ma solo dieci anni fa attribuita alla collaborazione tra Giorgio Vasari e Gaspar Becerra: l’invenzione vasariana ebbe fortuna soprattutto a Ferrara perché il committente era in stretto contatto con personalità ferraresi), si discosta da qualunque tradizionale raffigurazione della pazienza per proporne una lettura originale, che potesse soddisfare una duplice esigenza, ovvero da un lato porsi come modello, eventualità della quale il vescovo Minerbetti aveva parlato a cena col cardinale Ippolito II d’Este, che aveva scelto la Pazienza come sua impresa, e dall’altro creare un’immagine che potesse essere anche rappresentativa delle vicende del suo committente. La pazienza viene dunque resa da Vasari come una donna nuda, a braccia conserte (citazione dal Giudizio universale di Michelangelo, probabilmente suggerita dallo stesso vecchio artista) per sottolinearne la disposizione d’animo, colta mentre osserva una goccia che cade da una orologio ad acqua e aspetta paziente che consumi la roccia alla quale la donna è incatenata (anche se la catena non sempre compare), il tutto chiuso con un motto di Annibal Caro, “diuturna tolerantia”. L’inedita iconografia, essenziale e fornita di pochi attributi in ossequio al pensiero michelangiolesco che preferiva porre l’accento sugli atteggiamenti piuttosto che sugli accessorî, nasceva dunque dalla collaborazione tra un artista giovane, un poeta e un artista vecchio (ch’era anche poeta, com’è noto), e non sarebbe stato un caso isolato nella produzione vasariana: la sua arte s’è spesso giovata del lavoro congiunto coi letterati specialmente nell’ambito degl’incarichi di corte.
Tutta una sezione della mostra, quella sulla “apoteosi della virtù”, che comincia appena dopo il capitolo sulla Chimera di Arezzo riportata nella città in cui fu trovata proprio al tempo di Vasari, in data 15 novembre 1553, è centrata sulle allegorie che Vasari produsse per il duca Cosimo de’ Medici (ma non solo: esposta qui è anche la Fucina di Vulcano eseguita per il principe Francesco) e sull’impegno che l’artista profondeva nell’arricchire di nuovi significati quei principî virtuosi che muovevano la sua arte e animavano la sua stessa esistenza, tanto che questo suo “teatro delle virtù” sostiene l’impalcatura della rassegna fin dal titolo: “che Vasari fosse artista colto […] era ed è risaputo”, scrive Acidini, ma “che nella sua pittura riversasse infinite e sottilissime citazioni tratte da un vasto universo di simboli noti, meno noti e perfino peregrini e rari, componendo immagini cariche di significati allegorici, a lungo è stato percepito come un appesantimento erudito. Più un disturbo alla bellezza della pittura, che un valore intellettuale aggiunto”. Le ricerche più recenti si son dunque concentrate sull’interpretazione dei suoi apparati visuali e del complesso di riferimenti, citazioni letterarie, implicazioni allegoriche che impregnano le immagini vasariane e che contribuiscono a fare delle opere dell’aretino dei complicati poemi visivi, spesso sfidanti per la critica contemporanea dato che nei secoli la comprensione dei codici utili a decifrare le allegorie è andata via via sfumando. Siamo però aiutati dal fatto che ci sono rimasti testi utili per comprendere il significato delle sue immagini: tra questi, le opere di Vincenzio Borghini, coltissimo monaco benedettino che instaurò con Vasari un robusto sodalizio intellettuale, oggetto d’un denso saggio di Eliana Carrara pubblicato nel catalogo della mostra. È nello Zibaldone di Borghini che si conserva la descrizione delle allegorie oggi conservate nelle raccolte della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, tutte esposte in mostra, che facevano un tempo parte della casa fiorentina dell’artista (anche se non sappiamo come fossero disposte) e che sono legate alle splendide allegorie che Vasari dipinse per il soffitto di Palazzo Corner Spinelli.
Ed è ancora Borghini a illuminare il significato dell’Oblio e del Sogno che vediamo raffigurati nei due meravigliosi disegni giunti in prestito dal Metropolitan di New York: l’oblio è dunque una donna stesa a terra e appoggiata a un vaso da cui esce l’acqua del fiume Lete, il fiume della dimenticanza della mitologia greca, quello in cui le anime dei Campi Elisi si tuffavano per perdere il ricordo della vita passata (i demoni che svolazzano nel cielo sopra alla figura femminile che abbraccia il vaso alludono alle cure e ai tormenti che l’oblio consente di dimenticare). Il sonno è invece una donna alata che fa addormentare un giovane mentre sopra di lui volteggiano alcuni putti che reggono specchi, allusione alle deformazioni illusorie che la realtà assume mentre si sogna. Vasari si tenne fedele alle idee di Borghini, seppur apportando alcune modifiche (per esempio, Borghini suggeriva di rappresentare il sonno come una damigella piena d’occhi: Vasari evita invece qualunque mostruosità) e conservando così una certa autonomia di pensiero che andava inevitabilmente nella direzione di quell’autonomia delle arti visive che lui stesso auspicava e che più avanti nella sua carriera avrebbe sostenuto con crescente convinzione. Questa nuova autocoscienza potrebbe essere uno degli elementi da tenere in considerazione nel momento in cui, seguitando a visitare la mostra, si rammenta l’insolito episodio della Porta Virtutis di Federico Zuccari, esposto a chiusura della sezione al pari della sua Calunnia di Apelle, soprattutto per ricordare al visitatore come l’allegorismo vasariano abbia affascinato gli artisti più giovani, oltre che per mettere in evidenza i rapporti tra Zuccari e Vasari (furono collaboratori e Zuccari fu anche successore di Vasari, ma tra i due non mancarono gli attriti): tuttavia occorre osservare che forse difficilmente un artista si sarebbe spinto a orchestrare un’operazione di discredito pubblico d’un suo committente e d’un suo avversario (la Porta Virtutis nasce come dipinto polemico contro lo scalco di papa Gregorio XIII, Paolo Ghiselli, che aveva rifiutato un’opera da lui commissionata a Zuccari, ritenendola scadente, e assegnando l’incarico al pittore bolognese Cesare Aretusi) se non avesse maturato una percezione nuova del proprio status.
Neppure l’arte sacra si sottrasse alla continua reinvenzione di simboli e allegorie cui Vasari sottopose le raffigurazioni tradizionali. Per vedere il più mirabile frutto della sua creatività occorre lasciar la Galleria Comunale e visitare la sezione allestita nella ex chiesa di Sant’Ignazio, per la quale è stato ottenuto dall’arcidiocesi di Firenze il prestito d’un caposaldo vasariano, la fortunata Allegoria dell’Immacolata Concezione, straordinario prodotto della fantasia d’un Vasari che già nel 1540, su commissione di Bindo Altoviti, metteva a punto la nuova iconografia dopo lunghe consultazioni con amici e letterati tra i quali il dotto Giovanni Lappoli, detto il Pollastra, canonico della Cattedrale di Arezzo e precettore dell’artista stesso: Vasari aveva ideato un’immagine nuova, singolare, che affrontava il termine della concezione senza peccato di Maria fondendo due passaggi della Bibbia, quello della Genesi in cui Dio maledice il serpente per aver tentato Adamo ed Eva, e quello dell’Apocalisse in cui si descrive la “donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”. Per Vasari fu un successo straordinario, dacché gli furono chieste alcune repliche e l’invenzione fu copiata, e la circostanza probabilmente gli suggerì di continuare ad applicare alle opere sacre e alle pale d’altare quel linguaggio allegorico che gli era così congeniale, andando a pescare anche da fonti non così scontate: interessante in mostra il confronto tra il Tetravangelo di Rabbula, un rarissimo codice siriano del VI secolo che venne donato a Clemente VII prima del 1534 e poi pervenuto alla Biblioteca Laurenziana prima del 1573, e la Crocifissione con la Madonna, san Giovanni e santa Maria Maddalena, in cui Vasari riprende un topos d’origine bizantina, quello del sole e della luna inclusi nelle scene di crocifissione e di compianto sul Cristo morto per significare il dolore di tutto il creato per la morte di Gesù, stessa situazione che si nota nella singolare Pietà fra il sole e la luna di Palazzo Chigi Saracini a Siena (dove, nei due astri, compaiono anche le figure mitologiche di Apollo e Diana). La stessa figurazione si trova nella scena della crocifissione miniata sul Tetravangelo, circostanza che ha portato la curatrice Acidini a ipotizzare che Vasari abbia avuto accesso al codice “visti l’appartenenza medicea […] e il suo arrivo a Firenze nell’arco della vita e dell’attività dell’artista; ed è suggestiva congettura che egli prendesse visione diretta del foglio con la Crocifissione, dove spiccano i corpi celesti abbrunati e dolenti”. Più tradizionali, ma non meno intensi e meditati, altri dipinti che occupano la sezione sull’arte sacra, come il recentemente scoperto Cristo portacroce e l’inedita Sacra Famiglia, entrambi di proprietà della famiglia Esteves, opere in cui Vasari, pur formalmente ineccepibile e pur dipingendo opere di finissima qualità (basti vedere l’intensità del Cristo) s’attiene a figurazioni più convenzionali.
La chiusura dell’itinerario di visita è affidata a una ricca sala sui disegni e a una sezione dedicata all’Accademia delle Arti del Disegno, costituita nel 1563 per volere dello stesso Giorgio Vasari con l’obiettivo di formare i giovani alla pratica dell’arte, e presto divenuta anche una sorta di laboratorio delle commesse ducali: la creazione di Vasari si configura come la prima accademia formale per artisti della storia, modello per tutte le accademie a venire, nata anche col preciso intento di equiparare lo status degli artisti a quello dei letterati e degl’intellettuali. In mostra, i primi anni dell’Accademia delle Arti del Disegno son ripercorsi con le opere di diversi artisti che s’associarono al sodalizio vasariano, con particolare enfasi sui dipinti che, nel quadro del progetto che sostiene la rassegna, affrontano il tema delle virtù che guidano l’artista nel suo operare: val la pena indugiare specialmente sulle opere che rendono implicitamente omaggio al simbolo michelangiolesco delle tre corone (ovvero la pittura, la scultura e l’architettura) che, scrive Alessandra Baroni, “rappresenta un chiaro richiamo alla Firenze medicea, in particolare quella di Cosimo, fondatore e generoso mallevadore dell’importante istituzione”. Una sorta di logo moderno, che troviamo nell’inedita Allegoria delle virtù e dell’occasione, opera di Michele Tosini e di un collaboratore, nell’Allegoria delle Virtù e dell’Accademia di Giovanni Stradano, e poi ancora nell’Allegoria della Temperanza, della Giustizia e della liberalità sempre dello Stradano, un logo del quale Vasari stesso, nella Vita di Michelangelo, illustra il significato: “tre corone o vero tre cerchi intrecciati insieme, in guisa che la circonferenza dell’uno passava per lo centro degl’altri due scambievolmente. Il quale segno usò Michelagnolo, o perché intendesse che le tre professioni di scultura, pittura et architettura fussero intrecciate et in modo legate insieme, che l’una dà e riceve dall’altra comodo et ornamento e ch’elle non si possono né deono spiccar d’insieme, o pure che come uomo d’alto ingegno ci avesse dentro più sottile intendimento. Ma gl’accademici, considerando lui in tutte e tre queste professioni essere stato perfetto, e che l’una ha aiutato et abbellito l’altra, gli mutarono i tre cerchi in tre corone intrecciate insieme, col motto: ‘Tergeminis tollit honoribus’, volendo perciò dire che meritamente in dette tre professioni se gli deve la corona di somma perfezzione”.
Emerge dal Teatro delle virtù allestito per la ricorrenza di quest’anno un Vasari forse sin troppo sottovalutato dal grande pubblico, che lo ha sin troppo relegato al suo ruolo di storiografo: dalle sale della rassegna s’erge semmai la figura d’un artista che fin dagl’inizî della sua carriera non esitò a elaborare una teoria estetica da cui avrebbe tratto origine un concetto di “arte” ch’è poi quello giunto sino ai giorni nostri, un artista fermamente convinto che le arti fossero tutte sorelle e che le loro differenze s’esprimessero soltanto nella varietà e nella diversità dei mezzi espressivi: il “teatro delle virtù” che accompagnò tutta la sua carriera può esser visto come una sorta di traduzione per immagini d’un pensiero che Vasari avrebbe poi organizzato con più sistematicità teoretica nelle Vite, se vogliamo la prima teoria moderna dell’arte.
Certo, la mostra di Arezzo non è la prima che esplora il genio proteiforme di Vasari e il suo universo, e non è neppure la prima a evidenziare (seppur in maniera un poco implicita, in questo caso) l’importanza della sua figura nella storia dell’arte occidentale. Forse però mai prima d’ora era stato posto un accento tanto verticale sul processo di costruzione d’immagini e di modelli che ha prodotto la più parte dei capolavori per cui l’artista aretino è noto. Vasari. Il teatro delle virtù è, in sostanza, la mostra per leggere i capolavori di Giorgio Vasari al di là della loro superficie. E varrà la pena sottolineare che la finalità di questa solida, validissima rassegna ha anche molto a che fare con la nostra attualità, con la nostra realtà di persone che vivono in un’epoca d’abbondantissima sovrapproduzione visiva, bersagliate da un continuo, incessante diluvio d’immagini, circondate da contenuti mediocri, propaganda, fake, prodotti dell’intelligenza artificiale: l’invito, peraltro dichiarato, che la mostra ci rivolge, è quello d’esaminare i complessi apparati vasariani col fine d’affinare gli strumenti critici utili per orientarci in quel “popoloso universo delle icone che oggi ci accompagnano, ci circondano, ci assaltano tramite i media più varî e pervasivi”, dichiara la curatrice Acidini, “così da svelare a sé e agli altri i congegni visuali della propaganda politica, della manipolazione sociale, della persuasione commerciale e d’altro ancora”. Decodificare le immagini, insomma, e soprattutto risalire alle loro origini, ai loro motivi. Vasari non potrebbe essere più attuale.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).