La pelle del camaleonte e il memento mori di Bertozzi & Casoni


Recensione della mostra “Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra” (Fontanellato, Labirinto della Masone, dal 14 settembre 2024 al 7 gennaio 2025).

Le nuove tecnologie, comprese quelle di ChatGPT, l’intelligenza artificiale che cerca di simulare capacità di dialogo con un interlocutore umano dandogli l’impressione di esercitare, appunto, un fattore critico che renda la conversazione credibile, se applicate all’arte che tipo di trasformazione portano in una categoria come quella del verisimile? A mio parere, siamo di fronte a forme di illusionismo che rendono di nuovo fondamentale la verosimiglianza come parametro di giudizio, un principio estetico molto discusso e considerato per esempio nella Controriforma, con i due tomi sulle “immagini sacre” del cardinal Paleotti, di contrappunto al cerebralismo manierista, ovvero all’anticlassicismo che rifiutava valori di armonia, misura, aulicità e imitazione tipici del Rinascimento. Verosimiglianza e naturalismo erano i due riferimenti fondamentali dell’estetica cattolica del Paleotti, di cui Caravaggio rappresenta – pur innovando le iconografie e i generi e spingendo sul pedale della verità che si raggiunge nel dipingere avendo davanti il modello reale – il vertice di una idea che non si ferma a imitare il vero ma lo interpreta avendo come paragone il verosimile. Ha senso, dunque, chiedersi anche oggi che ne è della verosimiglianza?

Credo che sia addirittura necessario, in un’epoca dove il Kitsch è diventato il grande uniformatore degli stili e del gusto, perché può aiutarci a ritrovare ciò che nelle varie forme d’avanguardia si era perduto, compreso chiederci fino a che punto l’arte “progredisce” (mi ritrovo qui con Benedetto Croce quando afferma che nell’arte non c’è progresso, ma evitando ogni idealismo credo che avesse ragione Henri Focillon quando, al termine “evoluzione”, preferì sempre quello di “sviluppo”, e diede una lettura aperta del continuum storico mettendo in campo il modello delle “famiglie” che legano diacronicamente artisti distanti secoli fra loro: Giotto e Piero della Francesca con Caravaggio, per esempio). La domanda sulla trasformazione dell’arte nella storia trova negli scultori della ceramica Bertozzi&Casoni il banco di prova per stabilire che cosa sia oggi “verosimiglianza”. Cosa che può fare anche la differenza fra opera d’arte e oggetto decorativo: Fausto Melotti fu restio, in effetti, ad applicarsi alla produzione di suppellettili e servizi da tavola in terracotta negli anni Trenta e Quaranta che Gio Ponti gli commissionava per una destinazione commerciale (i transatlantici) perché considerava quell’impegno altro rispetto alle ragioni dell’arte, ma poi accettò perché questo lavoro servile, per dir così, gli garantiva la sopravvivenza e gli dava tempo per fare la scultura-ceramica (ma certe sue suppellettili sono ancora oggi meravigliose); un altro artista che invece si dedicò solo alla scultura in terracotta e morì prematuramente in guerra nel 1941, Salvatore Fancello, fin dall’inizio diede forma a creazioni di superba fantasia elaborando un bestiario per il quale sperimentò nuove tecniche e, ad Albisola, lavorando accanto a Fontana: qualcuno sostiene che lasciò un segno sulle terrecotte riflessate dell’italo-argentino. L’arte della ceramica, più del design di oggetti, ha qualcosa da spendere proprio in una direzione che raggiunge piena espressione quando attraverso l’apparenza entra in profondità nella ricerca del vero e del bello. In ciò facciamo esperienza di quanto d’irrevocabile ci appartiene e ci chiama, direbbe il filosofo Vladimir Jankélévitch, che ci fa stare sospesi fra una sorta di semi-impotenza e di semi-potere, la condizione anfibia dell’uomo moderno, peraltro, e il trampolino più alto per l’artista. E il tandem Bertozzi&Casoni ne è una eloquente rappresentazione cresciuta negli anni fino a partorire frutti di abnorme e rutilante forza espressiva proprio come approssimazione al confine e superamento del verosimile.

Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Allestimenti della mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Paolo Bertozzi alla mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour
Paolo Bertozzi alla mostra Bertozzi&Casoni. Non è quel che sembra. Foto: Fotoglamour

Se potessimo dare ragione al biologo francese Jean-Pierre Changeaux – che propone un salto “epocale” dalla condizione mentale a quella neurale – ogni cosa potrebbe risolversi in un algoritmo. Se potessimo: ma non possiamo. La nostra sfida consiste tutta nella volontà di ingannare il sembiante. In termini attuali, il sembiante non è più una imitazione della realtà, è prima ed è oltre essa. Si chiama ChatGPT, è appunto intelligenza creata che nella sostanza può mentirci facendo credere che dice la verità: con un software detto chat bot, offre risposte automatiche il cui obiettivo è sembrare umane. Potrebbe essere il paradosso del Mentitore cretese trasformato in una verità molto più semplice di quanto appaia: il mentitore cretese è un paradosso perché la sua verità è controvertibile, cioè vale in entrambe le direzioni: mente dicendo di affermare il vero, dice il vero ma ci propina una menzogna. Eppure, la logica lo smentisce e, al tempo stesso, esso ci provoca perché afferma che “tutto può essere vero”. L’antesignano visivo di ChatGPT risale alla prova antichissima di Zeusi e Parrasio, i due greci che si sfidarono con la pittura. La conosciamo tutti. L’uva di Zeusi è un vero che inganna gli uccelli, ma non mente (il suo modus operandi tende la rete del verosimile le cui coordinate vogliono insinuare la perfezione); la sua menzogna è l’illusione, ma l’illusione talvolta spinge a vedere oltre le apparenze (il falso rivela); Parrasio ne trae le ultime conseguenze: un velo nasconde ciò che c’è sotto, ma non potrà mai essere sollevato, perché è già tutto ciò che si può vedere (Alètheia, verità, è “lo stato del non essere nascosto; lo stato dell’essere evidente”: ciò che non è, può rimanere sospeso al nostro sguardo un attimo prima che il drappo rosso di Parrasio si riveli un impossibile, ma vero, in quanto è soltanto pittura?). Zeusi ritenta dipingendo un ragazzo che tiene un cesto d’uva, e gli uccelli di nuovo vanno per beccare il frutto. Zeusi s’indispone, perché se la sua pittura fosse tanto perfetta da ingannare l’occhio, gli uccelli non si sarebbero mai avvicinati alla tela, temendo la reazione del ragazzo (troppo imperfetto da sembrare vero, ma questo apre la strada al verosimile). Il conflitto qui non è però tra percezione umana e inganno dell’arte, bensì tra natura e cultura. Un tema centralissimo, oggi, mentre l’Intelligenza artificiale provoca la capacità umana di separare il grano dalla pula (ciò che oggi, per esempio, mette alla sbarra l’informazione che si fa propaganda). Il che, in definitiva, ci dice che la perfezione è la grande illusione dell’uomo.

Bertozzi&Casoni, che da oltre quarant’anni formano la premiata ditta della scultura in ceramica e un brand con tanto di marchio societario, dopo due decenni d’impegno sulla maiolica faentina, dal Duemila ha adottato materiali e tecnologie di conio industriale dove il risultato, anche nella sperimentazione, è la resa sempre più mimetica della realtà, ma anche un’abnorme dissacrazione del reale, perché se una cosa è certa per i due scultori è che l’apparenza, o il sembiante che dir si voglia, vanno rifiutati, come scrive Edoardo Pepino, il direttore del Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci a Fontanellato, dove si tiene (fino al 7 gennaio) un’antologica del Giano ceramista con le opere nate in anni recenti (dopo la mostra a Imola in tre sedi meno di un anno fa). Bertozzi bolognese, Casoni ravennate, hanno unito ciò che cerca di restare separato, le due anime della regione dove sono nati, oltre i campanilismi perduranti. “Le opere non imitano e basta, ma creano nuovi mondi, nei quali si entra perché simili in maniera quasi rassicurante al nostro”, scrive Pepino. Se così fosse, tutto sarebbe lasciato ancora una volta alla nostra limitata capacità di discernere il vero, ma finiremmo per indispettire il demiurgo poiché i mondi di Bertozzi&Casoni non turberebbero nessuno: il titolo della mostra è vagamente magrittiano: Non è quel che sembra. Invece, accade proprio il contrario, e il più evidente sintomo di questa aura “diabolica” si ha nel formidabile e mefistofelico Pinocchio adulto e poliglotta, il cui sguardo luciferino ne conferma l’anima urticante, da vero trickster, che diventa causa di ulcera per il povero cetaceo che se lo trovò in pancia. La scultura dei due artisti (Casoni è morto però nel 2023) è molto irritante, dà immediate allergie alla pelle, quell’herpes di superficie si radica e produce crisi anafilattiche che soffocano lo sguardo e ogni sentimento, raschia le sfere più profonde della nostra ipersensibilità unendo, come in uno slancio rinnovato di furor barocco, la meraviglia e il ribrezzo, l’ipertrofico e la bulimia, l’alchemico e il mortifero, il gelido e l’onirico; compone mondi dove al centro sembra esserci la vanitas, ma ciò che domina è la lotta inesorabile dei due scultori con la caducità della vita, delle forme, dei rottami e degli scarti dell’esistenza; in altri termini – e qui bisognerebbe poter chiedere a Casoni – la loro è volontà di salvare il salvabile dalle grinfie della morte, fosse pure un bidone ammaccato e arrugginito, un mozzicone di sigaretta, una tavola apparecchiata con le suppellettili e i corredi di tazzine piatti e stoviglie abbandonati come reliquie postprandiali di feste consumate, con i loro dessert, le varie lecornie che non portano diritti alla Eat Art di Spoerri ma a un iperbarocco di sontuosa dépense, che non si placa, ma con la terra e con il fuoco sfoga i propri veleni su una pelle vetrificata, smaltata, che cattura riflessi di luce e rifiuta di arrendersi alla fine che tocca a ogni cosa di questo mondo.

Bertozzi&Casoni, Autunno (2020; ceramica policroma, 74 x 49 x 48 cm)
Bertozzi&Casoni, Autunno (2020; ceramica policroma, 74 x 49 x 48 cm)
Bertozzi&Casoni, Gravità (2023; ceramica policroma, 43 x 37 x 34 cm)
Bertozzi&Casoni, Gravità (2023; ceramica policroma, 43 x 37 x 34 cm)
Bertozzi&Casoni, Tempo (ceramica policroma, 49 x 75 x 50 cm)
Bertozzi&Casoni, Tempo (ceramica policroma, 49 x 75 x 50 cm)
Bertozzi&Casoni, Architettura Design (2016; ceramica policroma, 42 x 66 x 45 cm)
Bertozzi&Casoni, Architettura Design (2016; ceramica policroma, 42 x 66 x 45 cm)
Bertozzi&Casoni, Flamingo (2012; ceramica policroma, 68 x 75 x 75 cm)
Bertozzi&Casoni, Flamingo (2012; ceramica policroma, 68 x 75 x 75 cm)
Bertozzi&Casoni, Barile Spix (2022; ceramica policroma, 100 x 55 cm)
Bertozzi&Casoni, Barile Spix (2022; ceramica policroma, 100 x 55 cm)
Bertozzi&Casoni, Istantanea (2022; ceramica policroma, 16 x 27 x 30 cm)
Bertozzi&Casoni, Istantanea (2022; ceramica policroma, 16 x 27 x 30 cm)

Anni fa, quando il tratto percorso da Bertozzi&Casoni era tale da essere urgente o provvidenziale un primo bilancio, i due artisti allestirono un catalogo dei loro lavori tra il 1980 e il 2010. Franco Bertoni, per vari anni direttore del Museo delle ceramiche di Faenza, scrivendone l’introduzione toccava un punto decisivo: Bertozzi&Casoni, partiti dalla maiolica faentina e arrivati alla polimaterica ceramica frutto di intersezioni biochimiche che segna la svolta di collaborazione con la Cooperativa ceramica di Imola e alcune tecnologie del design, progettano la loro unicità nel panorama internazionale: “hanno liberamente perseguito un compito ormai dato per trascorso e defunto: riposizionare l’arte contemporanea sulle lunghe prospettive e sulle direttrici di marcia indicate dalla grande tradizione dell’arte”. Non si può essere soltanto di rottura, il vero innovatore cambia i fattori in campo ripensandone l’aggregazione. Secondo Bertoni, mai, prima di Bertozzi&Casoni, la ceramica aveva raggiunto tanta “ipnotica perfezione esecutiva”. Ma questo può essere affermato perché i due scultori non temono, diceva ancora Bertoni, “il confronto né con le più sofisticate esperienze contemporanee né con l’antico”.

È stato scritto, sulla base di alcuni studi filologici, che il presunto primato della pittura nel paragone leonardiano delle arti è stato anticipato dallo stesso Leonardo in una versione dove sosteneva che il primato spettava invece alla terracotta policroma. Il modellato e il colore insieme è certamente un momento dell’universo primitivo dell’arte a cui il fuoco ha poi dato la durezza plastica necessaria a stare nella terza dimensione. Non mi attarderò su questo tema fascinoso, però si deve prendere atto che quella sostanza artistica in Bertozzi&Casoni sembra aprirsi a una nuova possibilità (verosimiglianza aumentata), quella dove le macchine assecondano l’inventio dell’artista rendendo resistente e splendente ciò che è sommamente fragile: “un mezzo considerato marginale e invece dotato di una singolare e insostituibile capacità di linguaggio”, conclude Bertoni. Iperrealismo che si iberna nella nitidezza della mimesis trovata nell’algoritmico? È forse bruttezza meravigliosa che parla la lingua di un mondo, il nostro, dove il barocco può essere intelligenza gelida che affida alla scienza e alla tecnologia un compito di perfezione inebriante ma mortifero.

L’emblema nella mostra di Bertozzi&Casoni a Fontanellato è la tartaruga che striscia sopra le rovine dell’umano e del mondo. Nella sua impacciata deambulazione, macina lenta sotto di sé ogni poetica del frammento e non rispetta nemmeno l’autorità di poeti come Eliot e Pound, ovvero sovrasta con ottusa umiltà reliquie di scheletri, pelli e sassi. E c’è il camaleonte fantozziano con l’occhio strabuzzato e la lingua tesa di lato, piena d’avidità golosa, essere lunare che si guarda attorno come volesse controllare la metamorfosi della propria pelle in un mosaico di pustolose verruche. “Nuove frontiere della superficie” perché nell’epoca dell’artificiale soltanto ciò che muta di pelle può far credere di essere uguale a se stesso, però diverso. Bertozzi&Casoni, sacerdoti del memento mori e dell’horror vacui, si appellano a un motto inesorabile: “Ora occorre fare”. Vorrebbero anche “far vedere”, ma in realtà si negano nell’aristocratico riflesso astratto della luce sulla ceramica. La natura e la verità del mondo, in fondo, continuano a nascondersi ai più.


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Maurizio Cecchetti

L'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti

Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).




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