Era il 1986 e Fabrizio Plessi portava alla Biennale di Venezia di quell’anno una delle sue installazioni più famose, Bronx, debitrice in certa misura dell’arte di Nam June Paik: ventisei televisori sistemati dentro una struttura di ferro, col monitor rivolto verso il soffitto d’una stanza angusta e buia, ventisei pale conficcate nel mezzo, e i loro riflessi a creare sugli schermi l’effetto dell’acqua. Sulle pagine del New York Times, Michael Brenson, critico d’arte del giornale americano, scriveva che Bronx era l’installazione più drammatica di tutta la Biennale. Poi, dodici anni dopo, Plessi arrivava per la prima volta con una sua personale in America, nella sede di SoHo del Guggenheim Museum, aperta nel 1992 e chiusa dieci anni più tardi. Il compito di recensirlo spettò allora a Grace Glueck, che seppe cogliere in due righe il senso dell’arte di Plessi: “usare la tecnologia per potenziare e interpretare i misteriosi regni della natura e della storia, mescolando il virtuale col reale, per così dire”. Allora come oggi, a Plessi interessava catturare il movimento dell’acqua e del fuoco, così come lo scorrere del tempo.
Il Plessi di oggi forse non è più l’artista sperimentale degli anni Ottanta e Novanta: artista italiano tra i più noti, apprezzato probabilmente più all’estero che in patria, ha esposto ovunque, spesso con progetti tutt’altro che riusciti, costretti entro dimensioni poco più che decorative (uno su tutti: l’albero di Natale del 2020 a Venezia), oppure semplicemente cadenzati, rivisitazioni di opere già proposte in precedenza, che non si sottraggono all’effetto déjà-vu. Un artista che, dai primi anni Duemila a oggi, s’è dimostrato sempre fedele a se stesso: quando però non è obbligata a forzature, l’arte di Fabrizio Plessi è in grado di sprigionare tutta la tensione che sostiene le sue opere. Il progetto più recente di Plessi s’intitola Plessi sposa Brixia, ed è una serie di cinque interventi che l’artista emiliano-veneziano porta a Brescia, negli spazî del Santa Giulia e del Capitolium, nell’anno in cui la città lombarda è capitale italiana della cultura. Sono in parte opere che si sono già viste, e quelle inedite non sono neppure tra le più interessanti del gruppo. E sono però anche interventi che traggono forza dal contesto che li ospita, particolarmente congeniale, nel caso del progetto curato da Ilaria Bignotti, a esaltare il neobarocco elettronico di questo artista che da più di quarant’anni lavora col video, benché tenda a rifiutare, giustamente, la definizione di “videoartista”. Plessi, più che ai “videoartisti” giovani che ormai si propongono sempre più con estenuanti film o documentarî dal taglio cinematografico, somiglia, potremmo dire, a uno scultore. Plessi vede il video così come uno scultore vede il marmo: le sue opere hanno a che fare con le forme, con la luce, col movimento, più che con un contenuto narrativo (anzi, non esiste narrazione nelle opere di Plessi). Il video gli consente d’operare nello stesso modo in cui uno scultore opera con lo scalpello, aggiungendo in più la dimensione temporale: “Un tempo manipolato, compresso, eterogeneo, sincronico che l’artista utilizza a suo piacimento senza rispettare le cronologie”, ha scritto Alberto Fiz. “Il suo obiettivo è quello di creare un’opera d’arte totale, wagneriana, nella quale suono, architettura, scultura, tecnologia, convivono allargando lo spettro della visione”.
Plessi è artista che fa convivere il naturale con l’artificiale, l’effimero con l’eterno utilizzando il video non come struttura grammaticale, ma come mezzo poetico che esalta l’opulenza barocca del suo immaginario visivo. Il video, nell’opera di Plessi, “viene inglobato”, ha scritto Achille Bonito Oliva, “nelle sue valenze di contenitore, di emittente di immagini e suoni, di scatole che scandisce lo spazio, di simulacro e di stabilizzatore temporale. Lo spazio occupato viene investito, e per questo alterato, da progetti legati a un immaginario capace di misurarsi con la complessità tecnologica e con le strutture profonde dell’universo psichico che vengono attivate dal riferimento a materiali primari ed elementari come l’acqua, il fuoco, l’aria e la terra”. Il “potere evocativo di rinviare alla natura e ai suoi movimenti”, come lo chiamava Bonito Oliva, nel lavoro di Plessi è forte anche quando le sue opere non hanno per oggetto la natura, ma si pongono in rapporto con l’antichità, come nel caso dei lavori che punteggiano il percorso di Plessi sposa Brixia.
L’idea di Plessi è quella di celebrare una sorta di matrimonio tra se stesso e la città e i suoi abitanti per consegnare, si legge nelle presentazioni, “un messaggio di responsabilità e di consapevolezza del patrimonio storico, archeologico e iconografico di Brescia”, attraverso un “viaggio che mette in evidenza le vestigia e il patrimonio della città, reinterpretandoli attraverso il caratteristico alfabeto tecnologico e multimediale di Plessi, ovvero con la luce, il suono e le immagini in movimento”. Al di là della natura forse un po’ naïve (e anche un poco immodesta, verrebbe da dire) del progetto e degl’intenti che lo sostengono (non s’era mai sentito d’un artista che coltivasse il proposito di sposare un’intera città, anche se al di là delle trovate la metafora potrebbe esser letta in maniera più profonda, intendendo l’atto di fedeltà dell’artista nei riguardi di chi lo ha preceduto, come a dire che anche gli artisti più radicali e sovversivi non possono far a meno di dimenticare il passato), è innegabile che la meraviglia suscitata dalle sculture elettroniche di Plessi risulti come amplificata dalle tracce del passato antico di Brescia, sebbene il procedimento dell’artista non sia nuovo: lavorare sulla memoria collettiva d’un luogo per trascendere il particolare e toccare l’universale. Quando le opere di Plessi si misurano con le rovine, il suo atteggiamento non si discosta troppo dal sentimento degli artisti che lo hanno preceduto negli ultimi duecentocinquant’anni, almeno da Füssli in poi: esprimono l’inquietudine dell’essere umano dinnanzi al suo destino. Nel suo caso con un senso di sublime elettronico, potremmo chiamarlo, che traduce nelle forme di archetipi in movimento quello che s’osserva, a Brescia, tra le sale del Santa Giulia, e che aggiunge la dimensione del tempo trasportando il riguardante su di un vettore temporale che è al contempo lineare (passato, presente e futuro) e ciclico. Plessi ha cominciato a porsi di fronte al passato con questo piglio almeno dall’edizione del 1987 di Documenta a Kassel, dove presentava Roma, una scenografica installazione in cui l’artista immaginava una sorta di arco di trionfo in rovina, costituito da pietre e video con immagini di acqua che scorreva: così, con questo impianto teatrale, di forte impatto, Plessi affidava alle immagini la sua irrequietezza, la sua meraviglia. Poi, nei trent’anni successivi, il suo sentimento s’è espresso con opere caratterizzate da una maggiore immediatezza, e anche da una più evidente facilità, potremmo dire, ma i suoi lavori non hanno perso il loro fascino, né è venuto meno il loro potere evocativo.
Non c’è un percorso prestabilito per immergersi in Plessi sposa Brixia. Di solito la visita del Santa Giulia dalla sezione dedicata all’arte altomedievale, di conseguenza la prima opera che s’incontra lungo l’itinerario di visita è uno dei due inediti, Floating santa Giulia: qui, l’artista ha tradotto in video una delle opere più note del museo, la seicentesca Santa Giulia crocifissa attribuita a Giovanni Carra, donandole movimento e una facies dorata. I panneggi della scultura, nel video di Plessi, sono agitati da una brezza leggera che intende assumere il significato del fluire del tempo e della storia: il visitatore contemporaneo diventa testimone del sacrificio della santa martire sulla croce. Alla forza della sua fede allude invece la doratura, elemento tipico delle opere recenti di Fabrizio Plessi: l’oro, per lui, rimanda alla luce, all’incorruttibilità, è il “sogno di un mondo migliore”, come lui stesso ha detto in un’intervista. L’oro richiama però anche la vanità, il carattere effimero dell’esistenza: lo sottolinea lo stesso Plessi in alcuni dei disegni che compongono la seconda sezione della mostra, La mia testa è un foglio A3, allestita nella Sala dell’Affresco. Qui, il pubblico ha modo di vedere un’ottantina di disegni per progetti collegati alla mostra, che ha cominciato a prender forma nel 2020. Un’occasione, dunque, per conoscere il processo creativo dell’artista (Plessi stesso ha detto che per lui il disegno è una sorta di esigenza biologica), per vedere da vicino come la sua immaginazione lavora prima che le sue opere prendano forma, per leggere anche alcuni commenti dell’artista sulle sue opere. Per esempio, su alcuni fogli ricorre una citazione shakespeariana (dall’Enrico VI) leggermente rivisitata: “La gloria è simile a un cerchio d’acqua d’oro che non smette mai di allargarsi fino a che si disperde nel nulla”. È il sentimento che anima, per esempio, le Colonne colanti, opera che si trova nella sezione romana del Santa Giulia: tre schermi con altrettante immagini di colonne corinzie, prima stabili, sontuose, magnifiche, e poi avviate verso un processo di disgregazione durante il quale le vediamo squagliarsi e colare a terra fino a scomparire. L’idea della colonna che cola non è nuova: già nel 2019 Plessi aveva presentato un’opera simile alle Terme di Caracalla a Roma. Nel suo immaginario, la colonna rappresenta il tentativo d’elevazione verso l’eternità, frustrato dalla finitezza della nostra esistenza: a una connotazione “pessimistica”, per così dire, Plessi ne aggiunge però anche una più propositiva, come a dire che le rovine del passato sono il lascito della storia e, in quanto tali, custodiscono dei valori, ragion per cui occorre prendersene cura.
Sempre nella sezione romana si ammira Underwater Treasure, altra rivisitazione di lavori precedenti: qui, i mosaici della Brescia romana sono sommersi dall’acqua, altro elemento presente fin dagl’inizî della ricerca di Plessi. Lo scorrere dell’acqua cela e rivela di continuo le forme dei pavimenti musivi dell’antica Brixia, alludendo all’azione dello scorrere impietoso del tempo sulle opere dell’essere umano e alla nostra memoria, fluttuante tra le onde della storia. Ci si sposta poi nella basilica di San Salvatore, dove s’ammira un altro intervento completamente nuovo, realizzato appositamente per questo luogo: Plessi sposa Brixia, l’opera che dà il titolo alla mostra, è un monumentale anello di metallo dorato che allude all’unione dell’artista con la città, e al cui interno scorre un fluido dorato, come simbolo di rinascita, trasformazione, palingenesi. Un’opera dai toni positivi: “l’anello”, si legge nella guida, “diventa un’icona potente e un incitamento all’educazione, all’amore e al rispetto della storia”, essendo “il simbolo della fiducia e della lealtà dell’arte al pubblico, e di questo a quella: lo spettatore infatti instaura con l’opera un dialogo e uno scambio basati sulla reciprocità e sul riconoscimento di comuni valori”. L’anello è sicuramente l’intervento più scenografico della mostra: occupa in altezza quasi tutta la navata della basilica di San Salvatore, anche se, come per tutti gli altri interventi della mostra, il suo accostamento agli spazî storici è rispettoso, tenuto anche conto del fatto che la basilica è uno spazio musealizzato e ha ospitato in passato altri interventi forse ancor più impattanti, come quello di Navarro Baldeweg nel 2020. È però anche l’opera più didascalica e facile delle cinque che Plessi ha portato a Brescia. Il percorso si conclude infine nel Capitolium, dove il pubblico ammira Capita aurea: tre grandi schermi neri con altrettante teste scultoree in bronzo che si fondono progressivamente fino a colare e a sparire in una pozza di metallo liquido che poi, a sua volta, finirà per scomparire agli occhi del riguardante lasciando lo schermo nero: dopodiché, il ciclo ricomincia. Ancora, un’altra vanitas: il tempo scorre e scioglie le glorie terrene, e poi rinasce dalle sue stesse ceneri.
Plessi sposa Brixia prosegue il filone delle mostre in cui l’artista si trova a confrontarsi col patrimonio che ci giunge in eredità dal passato: si era già cimentato con operazioni simili, giusto per citare i due esempî più recenti, a Venezia (L’età dell’oro) e a Roma (Il segreto del tempo), e poi indietro fino alle mostre nella Valle dei Templi di Agrigento o nella Camera dei Giganti di Palazzo Te a Mantova. Non da oggi Plessi subisce il fascino delle rovine, non da oggi avverte il richiamo dell’antichità che provoca il suo immaginario, e soprattutto l’intento di restituire l’opera d’arte allo scorrere del tempo anima l’arte di Plessi fin dagli esordî della sua carriera, al pari della sua volontà di liberare calore e umanità da un mezzo solitamente ritenuto freddo, distante, algebrico quale è il video. “Alla società dello spettacolo e degli spettri televisivi, linguaggi in cui il digitale ha delegittimato il simbolico”, ha scritto Marco Tonelli, “Plessi oppone lo spettacolo dell’opera d’arte come ritorno nel simbolico o meglio nel flusso della storia”. Un mezzo fluido come il video risulterà dunque particolarmente consentaneo alla poetica dell’artista, specie se l’idea è quella di misurarsi con la storia.
L’opera stessa di Plessi, in maniera del tutto coerente coi suoi propositi, è effimera, e a mostra chiusa molto probabilmente sopravviverà unicamente nei ricordi di chi l’ha vista, o tutt’al più nei disegni. La poesia dei lavori di Plessi, tecnologica e primordiale al contempo, risiede nella loro capacità di avvicinare il riguardante a una materia impalpabile, sia essa l’acqua o il tempo che scorre, nell’incontro momentaneo, fuggevole e irripetibile con una proiezione in movimento che rende allo spettatore l’essenza di ciò che vede. Ed è anche per questa ragione che le sue opere, le sue sculture fatte di video, hanno a che fare molto più col reale che col virtuale.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).