C’è un confine sottile tra realtà e fantasia, e la maggior parte dei fotografi sceglie subito in quale dei due spazi agire. E poi ci sono pochi, come Gregory Crewdson, che invece si muovono in costante equilibrio percorrendo quel confine quasi a voler sfidare chi li guarda a decidere in che spazio collocarli. E così, se entrate nelle nuove Gallerie d’Italia in piazza San Carlo a Torino, inaugurate a maggio 2022, sarete immediatamente catapultati nel cuore di una strana provincia americana, grazie alla mostra Gregory Crewdson. Eveningside, qui fino al 22 gennaio 2023. Nato del 1962 a New York, Gregory Crewdson è considerato oggi tra i più grandi fotografi contemporanei, ed espone qui, per la prima volta, la sua nuova serie di fotografie che dà titolo alla mostra: Eveningside (2021-2022). In parte commissionate da Gallerie d’Italia/Intesa Sanpaolo, sono state concepite dall’artista come l’atto finale di una trilogia che abbraccia dieci anni di lavoro, i cui due progetti precedenti, Cathedral of the Pines (2012-2014) e An Eclipse of Moths (2018-2019), sono anch’essi in mostra a sottolineare la continuità del percorso, introdotto dalla serie Fireflies del 1996, prodotta con modalità completamente diverse rispetto a quelle che avrebbero caratterizzato in seguito il lavoro di Crewdson, dal momento che queste fotografie, che catturano le lucciole che di sera passavano nei pressi della baita della famiglia del fotografo in Massachusetts, sono eseguite senza alcun tipo di costruzione.
Crewdson ha poi lavorato su formati di stampa molto grandi che riempiono il campo visivo e attirano chi li guarda direttamente dentro il suo immaginario. È una realtà ricostruita la sua, perché ogni foto è messa in scena con attori (tra cui la compagna Juliane Hiam e i loro figli), una illuminazione studiata, e interventi di post-produzione. Nei suoi set in genere lavorano almeno quaranta persone, coinvolte in una lunga preparazione che dura mesi in cui il fotografo definisce ogni dettaglio. Eppure, la prima impressione che le immagini restituiscono è quella di una provincia americana reale, forse estremizzata, ma comunque plausibile.
Cathedral of the Pines, che apre la mostra, è una riflessione sul rapporto tra la natura e l’uomo. Nella foto dal titolo The Mattress (2014), nel mezzo di una foresta remota di pini maestosi, si trova un materasso adagiato a terra, coperto di fiori recisi. Un uomo lo contempla, probabilmente un poliziotto sceso da una delle autopattuglie parcheggiate sul fondo. Ma un’immagine che richiama il dramma concitato di alcuni film gialli è in realtà una scena di pura contemplazione, come se il tempo fosse fermo attorno alla scoperta di questo oggetto nel bosco, che evoca un’azione che si è compiuta in quel luogo, ma senza tracciarne i confini del racconto. In questa serie, per la prima volta nel lavoro di Crewdson, la luce è naturale, appena forzata nei punti chiave del racconto. I colori saturi si combinano con una velatura complessiva che evoca una fotografia del passato, mentre la definizione e i dettagli fotografici denotano l’uso di una tecnologia del tutto contemporanea.
Così, nel successivo Woman at sink (2014), una donna di fronte alla finestra contempla un oggetto posato sul piano, illuminata da una luce tanto naturale quanto irreale. Quell’istante unico che è la sostanza stessa della fotografia nelle foto di Crewdson assume il potere di evocare, con incredibile forza, un prima e un dopo. Viene quasi da trattenere il fiato di fronte alle sue immagini, insieme ai suoi personaggi. “Come spesso accade nelle opere di Crewdson, il mondo si incrina impercettibilmente”, scrive Jean-Charles Vergne, curatore della mostra e autore dei testi del catalogo.
Mi ha ricordato le atmosfere di un libro che ho amato, ormai scomparso dal mercato, di Leif Enger dal titolo La pace come un fiume (Fazi Editore, 2002) che si muove nello stesso delicato equilibrio tra una realtà estremamente concreta, fatta di gente semplice e di gesti quotidiani, di una natura maestosa che li circonda e li protegge, e un qualcosa di surreale che pervade tutto, in un’attesa costante che qualcosa di magico accada. E se anche le foreste descritte non sono le stesse (i protagonisti di Enger si muovono in Minnesota, quelli di Crewdson in Massachusetts), è la stessa la speranza che sottende ogni immagine anche quando è piena di desolazione e di smarrimento.
Persino in An Eclipse of Moths, il progetto più politico del fotogrago, la rassegnazione non vince mai sul racconto. In questo secondo percorso, Crewdson si muove su vasti e desolati paesaggi post-industriali, quelli di Pittsfield nel Massachusetts, che ha vissuto per anni del benessere generato dalla sede locale della General Electric che dava lavoro alla maggior parte degli abitanti, e che dopo la chiusura della fabbrica ha visto a poco a poco spegnersi le sue luci. È questa l’”eclisse delle falene” a cui allude il titolo, una metafora della delusione che si nasconde sotto la facciata del sogno americano. Anche qui, il fotografo impiega i mezzi più disparati per creare immagini in cui i luoghi abbandonati sono rappresentati con una limpida bellezza, colori pieni, una luce così impossibile da apparire sovrannaturale. Sono immagini colpiscono per una prima impressione di meraviglia e serenità, ma solo quando la mente di chi osserva comincia a percepire i dettagli e a prendere consapevolezza dell’oggetto del racconto, emerge il loro lato più drammatico.
Starkfield Lane (2018-2019) è una foto di oltre un metro per due, che ha colori che ricordano i paesaggi di Edward Hopper e la stessa sensazione di solitudine e sospensione dei suoi quadri. È impossibile non lasciarsi affascinare dalla luce diffusa, che non corrisponde a nessuna illuminazione del giorno, e non essere allo stesso inquietati dal mistero che traspare dall’insieme. Eppure, ciò che resta è la speranza di un riscatto, una redenzione di religiosa accezione, così ben evocato da Redemption Center (2018-2019) con i suoi simboli chiari: una parvenza di croce al centro dell’immagine, l’insegna sul muro del Redemption center, un uomo contrito che cerca nel riflesso dell’acqua una speranza.
Infine, con la serie Eveningside, Crewdson entra più a fondo nelle vite delle persone, e si muove dentro i confini della vita quotidiana, nei luoghi di lavoro e negli spazi desolati di una città vuota eppure viva. Le figure che popolano gli scatti sono spesso viste attraverso le vetrine dei negozi, nel riflesso di uno specchio, o incorniciati in un contesto di lavoro. Lo sguardo che sbircia dentro le finestre è una scelta ricorrente nelle opere di Crewdson che abbiamo già visto in alcune composizioni di Cathedral of the Pines e ancora una volta ricorda i ritratti di Edward Hopper, di cui più volte il fotografo ha esplicitamente citato le opere (come nel progetto Hopperiana. Social distancing before Covid-19 del 2020). Come in Hopper lo sguardo attraverso le finestre permette un racconto intimo ma allo stesso tempo distaccato. I protagonisti sono cristallizzati nel loro momento di riflessione, generando così il senso di un tempo sospeso, di attesa e di speranza.
Crewdson sottolinea la grazia del momento con una combinazione più o meno intensa di luce e ombra, effetti speciali come nebbia, pioggia, fumo e foschia, ed esaltando le moltiplicazioni di riflessi, negli specchi, nelle cornici delle finestre, nelle vetrine. Così in Madeline’s Beauty Salon (2021), guardiamo una donna attraverso la vetrina di un parrucchiere, nella sua solitudine impossibile, che si moltiplica nello specchio davanti a lei.
Per la prima volta a confronto con il bianco e nero, l’artista crea una atmosfera cupa e sospesa, evocativa dei film noir e di tanto cinema classico. Così come in Morningside Home for Women dove una ragazza è appena scesa da un taxi in una strada desolata, che pure suggerisce un accenno di speranza. Le pantofole ai piedi, l’alba alle spalle suggeriscono che fugge da qualcosa, e qui forse potrà trovare un luogo di serenità. L’aspetto sinistro, la quiete apparente che – non me ne vorrà Crewdson – mi ha ricordato la provincia gotica della serie Wednesday di Tim Burton, e che delle foto di Crewdson condivide una inaspettata ricerca della felicità.
Conclude Jean-Claude Vergne, con parole che sono all’altezza delle foto che accompagnano: “Sono individui che ricordano di aver ascoltato, con l’orecchio incollato al pavimento, i brani lacunosi di storie di balene bianche e marinai storpi”.