di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 10/01/2017
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Arte contemporanea
Recensione della mostra 'Usodimare' di Giovanni Frangi, a La Spezia, CAMeC, fino al 19 febbraio 2017.
Cantare la poesia del mare. Compito non facile, per il quale è indispensabile un amore viscerale per il mare, che riesca anche a sostanziarsi in un rapporto intenso, colmo di passione, continuo, vicino. Uomo libero, sempre amerai il mare, scriveva Baudelaire: perché non è detto che la vicinanza al mare necessaria per cogliere il suo lirismo debba per forza essere geografica. Certo: chi vive sulle rive del mare tutto l’anno è facilitato, anche in virtù del fatto che, come recita una frase di Egisto Malfatti entrata nell’immaginario comune delle genti della costa al punto da essersi trasformata in una sorta di detto popolare, i figli dei marinai, ovunque andranno, sapranno sempre di sale. Ma con la poesia del mare ha grande familiarità anche un milanese come Giovanni Frangi (1959), pittore con tutta evidenza colto e sensibile (basta osservare i suoi quadri per comprenderlo): segno che, alla fine, la vicinanza al mare prescinde dal luogo di nascita.
L’alta frequenza della parola "vicinanza" nelle prime battute di questo contributo è dovuta al fatto che può essere un’ottima chiave di lettura per chi si avvicina a Usodimare, la mostra delle opere di Frangi sul tema marino ospitata fino al 19 febbraio 2017 nelle sale del CaMEC di Spezia. Il mare è a poche decine di metri dalla sede dell’esposizione. L’aria che si respira entrando nel museo è pertanto quella carica di sale che avvolge ogni città che s’affaccia sul mare. Che si sente soprattutto verso sera, quando ti inebria col suo profumo di iodio e nelle giornate più umide ti s’incolla addosso lasciandoti la pelle attaccaticcia. Entrare al CaMEC dopo aver fatto una passeggiata lungo il golfo è il modo migliore per farsi trasportare dai suggestivi dipinti di Giovanni Frangi, che conducono il visitatore in un viaggio attraverso il Mediterraneo (ma non solo) che poi, inevitabilmente, finisce col riportarlo a casa, sulle rive di quell’insenatura a cui gli amori di Lawrence, la morte di Shelley e le intemperanze di Byron hanno fatto guadagnare il nome di “golfo dei poeti”. Usodimare come Antoniotto Usodimare, il mercante genovese del Quattrocento che girò il mondo in nave per esplorare e conoscere. I viaggi di Frangi sono meno avventurosi ma non vengono meno all’intento di esplorare, attraverso una pennellata fluida, liquida, quasi trasparente, quello che sta sopra e sotto la superficie dell’acqua.
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L’ultima sala della mostra Usodimare con il ciclo Arcipelago realizzato da Giovanni Frangi in occasione dell’esposizione |
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Mappa della mostra |
Le Isole sono vedute visionarie di scorci marittimi in giro per il mondo, che con i loro colori violenti e innaturali (Gauguin, del resto, ci ha insegnato che l’artista, se vede il mare rosso, lo deve dipingere rosso) avvolgono l’osservatore, guidato nel suo viaggio dalle inquadrature nere che incorniciano il panorama: finestre aperte su scorci meravigliosi? Prue di barchette che solcano le acque portandoci alla meta assieme a qualcuno? Perché l’approdo all’isola, per Giovanni Frangi, è sempre condiviso con una persona: arriviamo a Samos, in Grecia, con Mara, guardando assieme a lei la luce rossastra del sole che inonda le acque dell’Egeo trasformandolo in una specie di mare tropicale coloratissimo. Le acque di Cuba ispirano invece un ricordo giocoso in compagnia di Michi, che assume le forme di grandi lettere da cubofuturista russo che si dispongono ordinatamente lungo il bordo inferiore del dipinto. La risacca risuona invece in Essaouira: una spiaggia marocchina su cui s’infrangono le onde, velata d’un rosso vermiglio che divide il mare dai nostri pensieri ma al contempo lo avvicina al nostro animo, perché il rosso diventa lo schermo attraverso cui il pittore contempla (e ci permette di contemplare) le onde che si smorzano sulla riva, rendendoci partecipi della sua riflessione. C’è infatti da sottolineare che, per Frangi, il mare non è né quello esclusivo alla Pérez-Reverte, di cui può parlare solo chi merita di farlo e chi ne è all’altezza, né quello rumoroso e affollato da commediola estiva. Quello di Frangi è un mare lirico, meditativo, fatto per essere visto, respirato e ascoltato in silenzio, magari in compagnia di qualcuno che si ama, sulle note di artisti altrettanto meditativi: un blues di Buddy Guy, o un jazz di Chet Baker, per esempio.
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Giovanni Frangi, Mara a Samos (2004; olio su tela) |
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Giovanni Frangi, Michi a Cuba (2005; olio su tela) |
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Giovanni Frangi, Essaouira (2002; Primal e pigmenti su carta) |
La poesia di Frangi ovviamente non si ferma alle increspature della superficie ma si spinge anche a indagare i fondali. Le impressioni delle isole, quelle vedute che richiamano parimenti gli acquerelli di Degas (forse le produzioni meno note della sua carriera, ma probabilmente anche quelle più emotivamente intense) e i turbinii di Turner, artista che torna alla mente quando il nostro sguardo si perde oltre l’orizzonte dei dipinti di Frangi, lasciano spazio all’infantile epifania sommersa di View-Master, installazione concepita come l’omonimo giocattolo degli anni Trenta, una sorta di binocolo attraverso il quale perdersi in fantastiche visioni. È un’enorme scatola di compensato, sulla quale l’artista ha apportato alcuni, striminziti fori paralleli che permettono di sbirciare al suo interno. Ci appare un mondo fatto di scogli, alghe, meduse, creature che nuotano sul fondo scuro e impenetrabile di un fondale di cui non possiamo far parte, ma che possiamo solo indagare da osservatori esterni. Radicalmente opposto è, invece, l’approccio a cui ci chiama l’acquario di Wabi-Sabi: la scatola, questa volta, è aperta, e noi entriamo al suo interno, iniziamo a nuotare in questo mare cristallino insieme a miriadi di pesciolini che riuniti in festosi banchi ci accompagnano, segnando con la loro presenza e il loro movimento i punti cardinali di tutto l’insieme. I pensieri qui possono rimanere per un po’ fuori dalla scatola, perché Wabi-Sabi è un inno alla leggerezza, al totale coinvolgimento emotivo: siamo noi stessi che diventiamo parte dell’opera. Un inno alla leggerezza che, in realtà, è profondo e pregno di significato, come il titolo dell’opera ci induce a pensare: “wabi-sabi” è una Weltanschauung giapponese fondata sull’assunto che tutto, in questo modo, è transitorio e, di conseguenza, non c’è niente che sia destinato a rimanere. Noi siamo parte di una natura che esiste in un dato momento ma che poi non sarà più: siamo noi osservatori-spettatori-nuotatori, dunque, la metafora al centro dell’opera, dall’istante in cui entriamo in questo meraviglioso acquario fino all’attimo in cui ci lasciamo alle spalle i guizzi avvolgenti del mondo sommerso che Frangi ha dipinto con la sua consueta eleganza. Una riflessione sul rapporto tra uomo e natura, una costante nell’arte di Giovanni Frangi (come ci fanno sapere le puntuali didascalie a corredo delle sale dell’esposizione), sulla quale siamo così chiamati a intervenire in prima persona.
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Giovanni Frangi, View-Master, il fondo del mare (2006-2016; gommapiuma, pigmenti, primal, spray, carta) |
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Particolare di View-Master |
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Giovanni Frangi, Wabi-Sabi (2010; olio su tela) |
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Particolare di Wabi-Sabi |
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I pesci di Wabi-Sabi |
Dalla meditazione ammantata di leggerezza torniamo alla contemplazione nella sezione River: siamo sempre sull’acqua, ma lasciamo per un attimo il mare per immergerci nei fiumi. Ci sorprendono in particolare i pannelli dell’Adige: vedute di un impressionista degli anni Duemiladieci che ha presente la lezione di Monet e ci offre quelli che ci appaiono come due intensi notturni nei quali le acque del fiume che scorre tra Veneto e Trentino si colorano di un blu cupo solcato da riflessi biancastri. La pennellata è più che mai acquosa e distesa. Piccoli tocchi di bianco in lontananza ci inducono a pensare che sul fiume noi stiamo navigando, e in lontananza vediamo le luci di una città. Più vicine a noi, forme oblunghe, ombre che si distendono sull’acqua, guizzi che quasi somigliano a figure umane: non siamo dunque soli, in questa nostra veleggiata sull’Adige?
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Giovanni Frangi, Adige 1 (2014; olio su tela) |
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Giovanni Frangi, Adige 2 (2014; olio su tela) |
Una rapida occhiata alla Cascata strategicamente piazzata attorno alle scale che conducono al piano inferiore (è un’installazione che ricrea, appunto, una cascata: un dipinto con l’acqua che scorre in verticale, unico caso in tutta la mostra, infrangendosi sui sassi di gommapiuma piazzati ai piedi del dipinto) ci guida verso l’inevitabile conclusione del nostro percorso. Arcipelago è un ritorno a casa: dopo aver girato il mondo ed esserci immersi nelle profondità, Giovanni Frangi ci riconduce sulle rive del golfo dei poeti (però non prima di averci fatti passare per un attimo dalla Grecia), presentandoci un ciclo, ideato appositamente per Usodimare, con alcune vedute di Portovenere, delle Cinque Terre, della Palmaria. Qui, un inedito segno nero, semplice ma potente, che occasionalmente digrada in sfumature anch’esse liquide, traccia le linee di un paesaggio familiare investito di colori acidi che a un primo impatto ci riportano alle vedute del Vesuvio di Andy Warhol. Solo che là sottolineavano un’esplosione, un dramma, un agitarsi convulso della materia. Qui invece descrivono paesaggi interiori ancor prima che vedute del golfo. L’osservatore, ancora, si trova sull’acqua, e rivolge il suo sguardo verso la terra, verso quelle “rocce scure e lustre dei graziosi promontori, tra l’uno e l’altro dei quali appariva, vicina e invitante, una breve insenatura di sabbia o di fine ghiaia”, con le loro “rigogliose foreste che risalivano ininterrotte le ripide colline e chiudevano via via la vista senza mai arrivare a scoprire il cielo né la più piccola abitazione”, come scriveva in una sua memoria un altro dei grandi poeti che frequentarono il golfo, Mario Soldati. Lui parlava della costa attorno a Lerici, ma la sua descrizione ben si attaglia alle vedute di Frangi che guardano invece verso Portovenere e la Palmaria. Le “rocce scure e lustre” con le loro spiaggette vicine a noi sono la nostra guida, il nostro appiglio a cui aggrapparci, come ci suggerisce Marco Meneguzzo, curatore della mostra, per non affogare nelle colate di rosa. E per continuare a perdersi nella meraviglia di una natura dalla quale Frangi, per l’occasione, sembra aver espunto qualunque traccia umana (come Soldati aveva fatto nella sua memoria), riportandoci a un golfo dei poeti ancora lontano dal turismo chiassoso e non ancora diventato l’odierno “golfo dei container” secondo il nomignolo inventato da Marco Ferrari, scrittore spezzino profondo conoscitore e raffinato narratore di questi luoghi che, nonostante tutto, rimangono ancora colmi di poesia. Basta saperla trovare e saperla cogliere, e l’invito di Frangi è palese.
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Giovanni Frangi, Cascata (2005; olio su tela, gommapiuma) |
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Giovanni Frangi, Arcipelago, Palmaria vista sud ovest (2016; olio su tela) |
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Giovanni Frangi, Arcipelago, Alba chiara (2016; olio su tela) |
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Giovanni Frangi, Arcipelago, Settembre (2016; olio su tela) |
L’acqua di Frangi, uno dei più interessanti pittori del panorama italiano contemporaneo, scorre in uno spazio che sta a metà tra il dato naturale e l’introspezione ma che mal si presta a essere racchiuso entro rigide convenzioni. Liquidi non sono soltanto i dipinti di Giovanni Frangi, ma è la mostra stessa, che consente al visitatore, come già detto, di “nuotare” tra le opere dell’artista milanese, di scegliersi un proprio filo conduttore, di tornare all’inizio e ricominciare a guardare di nuovo come fosse trasportato da una corrente che scorre dentro le sale del CAMeC, istituto tra i più aggiornati e, al contempo, tra i meno scontati in Italia in fatto di arte contemporanea, cui va il merito di aver dato vita a una retrospettiva densa, che rilegge in ottica unitaria i lavori di Frangi degli ultimi quindici anni sul tema dell’acqua presentandoli al pubblico (anche a quello non necessariamente avvezzo alla pittura contemporanea) con coerenza e sorprendente capacità comunicativa. Una rassegna di alto livello qualitativo, legata indissolubilmente al territorio che la ospita (quindi ulteriormente intelligente), e dalla quale traspaiono non soltanto la cultura e le riflessioni filosofiche dell’artista, ma anche, forse più banalmente, tutto il suo amore per il mare, da condividere con altri amanti del mare, e non solo.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).