La Torre del Castello dei Vescovi di Luni, che si erge nel punto più alto del borgo ligure di Castelnuovo Magra, su Piazza Querciola, torna a ospitare un altro progetto espositivo dedicato ai grandi della fotografia. La Turris Magna, parte di ciò che rimane ancora oggi, insieme a tratti dei muri perimetrali e a un’altra torre circolare minore, dell’antico castello duecentesco noto per aver dato luogo alla Pace di Dante nell’ottobre 1306 (luogo quindi in cui l’Alighieri fece porre fine a una guerra durata sette anni tra marchesi e vescovi), è da anni infatti teatro di mostre fotografiche di notevole rilievo e di alta qualità: partendo da una sentita e affollata lectio magistralis del celebre fotografo statunitense Steve McCurry che si è tenuta in piazza nel 2015, i cinque piani della Torre hanno ospitato gli scatti di Elliott Erwitt, dello stesso Steve McCurry, di Bruce Chatwin, Letizia Battaglia, Tano d’Amico, Mario Dondero, Vivian Maier, Pepi Merisio. Progetti espositivi frutto di un’amministrazione comunale che si è dedicata con passione e intelligenza a un piccolo borgo come Castelnuovo Magra, e che hanno richiamato in sei anni circa ventimila visitatori.
Dopo l’emergenza sanitaria che ha obbligato a uno stop, la Torre del Castello dei Vescovi di Luni è ripartita alla grande accogliendo gli scatti in bianco e nero di Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 1930) per la mostra Gianni Berengo Gardin. Il colore distrae. Un mondo in bianco e nero, visitabile fino al 9 ottobre 2022 e curata da Elisabetta Sacconi in collaborazione con la figlia del famoso fotografo, Susanna Berengo Gardin. Il titolo ricorda ai visitatori uno dei principi saldi del suo fare fotografia: è fermamente convinto che il colore “distragga” dal contenuto, perché porta a guardare il particolare e non l’intero scatto. Le fotografie esposte, come tutte quelle ch’egli ha realizzato nell’arco della sua attività, sono inoltre in analogico perché non hanno bisogno di essere editate, e ci tiene a sottolinearlo. A partire dal 2001 imprime sul retro di ogni sua stampa fotografica un timbro con la scritta: “Vera fotografia, non corretta, modificata o inventata al computer”. E non hanno né didascalie né titoli, perché alle “buone” fotografie basta solo un luogo e una data.
“In ogni singola immagine la narrazione è totale: il racconto si apre, scorre e si chiude nello spazio e nel tempo di una singola fotografia”, spiega Maurizio Garofalo, che con Berengo Gardin ha condiviso viaggi e conversazioni. “È un dono raro, la capacità di sintesi estrema; è una ricerca dello sguardo che studia, attende, comprende e coglie la scena (e la storia) in una frazione di secondo”. Per Gianni Berengo Gardin la fotografia è documento; è uno strumento in grado di cogliere storie e di testimoniare qualcosa. “Molti mi dicono che sono un artista, ma non ci tengo a passare per artista, sono un fotografo artigiano”, ha lui stesso dichiarato. Al centro dei suoi scatti, come si nota anche da quelli in mostra, è sempre l’uomo calato all’interno di luoghi, di situazioni, di culture e della sua quotidianità. L’essere fotografo è per lui quindi essere narratore, aspetto che la curatrice ha volutamente evidenziato lungo tutto il percorso di visita: brevi testi, uno per ciascun piano, offrono un personale racconto degli scatti protagonisti di ogni sezione da parte del fotografo stesso. Piccole narrazioni che accompagnano i visitatori e che diventano souvenir da portare a casa, a ricordo del viaggio intrapreso negli spazi espositivi della torre attraverso le fotografie di viaggi di Berengo Gardin.
L’inedita mostra, costruita e pensata appositamente per questa sede, si concentra infatti solo sui famosi reportage all’estero del fotografo: la sua necessità di testimoniare qualcosa si lega in queste occasioni alla sua curiosità di vedere il mondo, ricordando tuttavia che non vuole raccontare un’avventura fine a se stessa, bensì intende dare vita a un racconto che diventi memoria di un passato che grazie alla fotografia è giunto fino al presente. Ed ecco che ogni piano è un viaggio in un preciso luogo geografico; in senso cronologico, ma che nulla vieta al visitatore di percorrere come più preferisce, poiché ogni luogo è storia a sé (l’unico “obbligo” è dato dalla struttura della torre, dentro la quale si sale e si scende “arrampicandosi” su una piccola scala di legno che via via diventa sempre più ripida). Partendo dal piano terra e salendo al primo piano si va a Parigi, città dove Gianni Berengo Gardin realizza i suoi primi reportage e dove vivono e lavorano i grandi fotografi francesi e i personaggi di spicco della cultura; si lega particolarmente a Robert Doisneau e a Willy Ronis. Il lungo soggiorno nella capitale francese dal 1953 al 1954 è per lui molto importante perché da fotoamatore diventa professionista. “Lavoravo al mattino, prima come cameriere, poi alla reception di un grande albergo, e avevo il pomeriggio libero per andare in giro a fotografare”, racconta. Gli piace soffermarsi su ogni angolo della città e sulle persone che vede per strada. “Una delle cose che mi colpì di più, furono le persone che si baciavano tranquillamente per strada, cosa che da noi era ancora considerata ‘oltraggio al pudore’”, ricorda. Ed è proprio quello scatto a catturare lo sguardo di chi comincia il “viaggio” fotografico insieme agli altri visitatori. Una panchina, un tram che passa veloce dietro, e l’appassionato bacio di una giovane coppia che rimane impresso qui, per sempre.
Si va poi a New York, dove il fotografo si reca nel 1969 insieme all’amico fotografo e giornalista Giancarlo Scalfati con il quale ha condiviso il suo primo studio a Milano. Conosceva già gli Stati Uniti attraverso i grandi della letteratura, come Hemingway e Dos Passos, ma è durante questo viaggio che Berengo Gardin ha modo di cogliere la capitale statunitense nella sua normalità, che si riflette ad esempio in un bambino che passeggia per strada con una demoniaca maschera di carnevale oppure in un gruppo di ragazzi spettinati dal vento (da notare i capelli lunghi e lisci di una ragazza colti mentre stanno su dritti in aria), o in passanti che affollano le strade della metropoli. “Rimasi molto colpito dalla vivacità della città, da quante situazioni offriva all’occhio del fotografo ad ogni angolo di strada, e dalla facilità, direi indifferenza, con cui le persone si facevano fotografare”, narra il fotografo.
È nella sezione spagnola che il pubblico ha occasione di vedere l’unico scatto inedito presente in mostra, che rappresenta lavoratori in pausa pranzo, seduti per terra, su una sedia, su una cassetta o sulla parte anteriore di una macchina che fa da sfondo alla scena. C’è anche la fotografia della processione della Settimana Santa a Siviglia, scatto voluto da Cartier-Bresson per la sua collezione privata. Berengo Gardin compie due reportage in Spagna nel 1970 e nel 1973: il primo per documentare proprio la Settimana Santa di Siviglia, festa popolare a cui partecipano i cittadini riuniti in confraternite; il secondo su incarico del Touring Club Italiano per rappresentare soprattutto paesaggi e architetture, sempre però con la presenza dell’uomo. Sono immagini di villaggi bianchi e di campagne assolate: una con mulini a vento ricorda molto i paesaggi di Don Chisciotte e Sancho Panza, un’altra raffigura un muro bianco a cui fa da contrasto la scritta “Cristo” e un’anziana signora intenta con un grande paniere. Sono momenti di vita tratti dalla pura quotidianità.
Salendo ancora s’incontrano la Gran Bretagna e la celebre Morris affacciata sul mare, scelta come immagine guida della mostra, che incantò il fotografo perché l’unica in una giornata di vento ad avere a bordo due persone al riparo dal freddo. “Durante questo viaggio scattai la foto della Morris sulla scogliera, con i due passeggeri che guardavano il mare; al momento non l’avevo tenuta in grande considerazione, forse non l’avevo nemmeno stampata, ma è poi diventata una delle mie foto più note”, racconta Gianni Berengo Gardin. In Gran Bretagna andò tra il 1976 e il 1977 su incarico anche in questo caso del Touring Club Italiano. “Ero stato particolarmente felice dell’incarico perché ero affascinato dallo stile di vita degli inglesi”, ammette. Dell’Inghilterra Berengo Gardin è appassionato di tutto, “le pipe, il tabacco, le scarpe, i vestiti, le auto”. Anche del rigido codice dell’abbigliamento che impone ai partecipanti della Royal Ascot di indossare piume, cappelli e tight.
Al quinto piano ecco infine che si va direttamente in India grazie agli scatti che immortalano villaggi, campagne, paesini, dove vivono i contadini e le loro famiglie che il fotografo ha modo di conoscere. Il reportage in India, tra il 1976 e il 1977, nasce infatti da un progetto personale del fotografo, in quanto ammiratore di Gandhi, il quale invitava gli occidentali a non fermarsi all’idea dell’India delle grandi città. Racconta dunque la presenza umana che si fonde con il paesaggio, come quell’uomo di spalle che su un carretto trainato da buoi si allontana tra gli alberi o il bambino che guarda verso l’obiettivo in mezzo alla campagna o ancora il personaggio in controluce sotto a un arco che sembra dialogare con un pappagallino sulla mano. Grazie ad Antonio Monroy, grande conoscitore dell’India, Berengo Gardin ebbe l’opportunità di esplorare una vasta zona rurale tra Delhi e Bombay e soprattutto di conocere da vicino la vita dei villaggi.
Il percorso espositivo si conclude all’ultimo piano, dove sono esposti ritratti del fotografo raramente visibili e uno schermo che trasmette l’intervista che gli fece Maurizio Garofalo e che fa emergere il suo lato più intimo.
Raccontare l’intera carriera di Gianni Berengo Gardin nella Torre del Castello dei Vescovi di Luni sarebbe stato abbastanza complicato data la vastità della sua produzione (oltre un milione di fotografie e più di duecentosessanta libri pubblicati) e gli spazi ristretti a disposizione, perciò la scelta di concentrarsi su un unico aspetto è molto apprezzabile. In questo modo il visitatore compie un piacevole itinerario, ben scandito e misurato, attraverso le opere in mostra. La presenza di un inedito dà al progetto un importante rilievo, ma anche gli altri scatti, selezionati in collaborazione con la figlia del famoso fotografo, danno vita a un racconto (o cinque) per immagini di una data società e cultura. Una rassegna che si conferma all’altezza del rapporto che Castelnuovo Magra si è costruito negli anni con la fotografia.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.