di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 08/03/2018
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Seicento - Toscana - Firenze - Arte antica
Recensione della mostra 'Dipingere e disegnare “da gran maestro”: il talento di Elisabetta Sirani', a Firenze, Galleria degli Uffizi, dal 6 marzo al 10 giugno 2018.
Breve e tragica fu la parabola dell’astro d’Elisabetta Sirani (Bologna, 1638 - 1665), artista d’eccezionale virtù, figlia di quel Giovanni Andrea Sirani che, da scolaro di Guido Reni, ne divenne il più stretto e più fedele collaboratore, e pittrice in grado di sbalordire i suoi contemporanei grazie a un’arte elegante e moderna, innovativa e versatile, capace di misurarsi con esiti sempre felici sia nei soggetti profani che in quelli sacri, tanto nei ritratti quanto nelle allegorie. Parabola breve, ma intensa e luminosa: quando la ragazza venne a mancare appena ventisettenne, togliendo una figlia adorabile al povero padre malato, che le sarebbe sopravvissuto solo cinque anni, e un raro talento al mondo dell’arte, la sua fama già risplendeva, i committenti non vedevano l’ora di procurarsi un suo dipinto, i colleghi l’ammiravano e gradivano discuter d’arte con lei, altri pare la invidiassero, e il suo nome era tra quelli più noti nella natia Bologna. Ma il suo genio arrivò anche a valicare l’Appennino e ad affascinare la ricca e colta clientela fiorentina: i Medici, in particolare, non poterono fare a meno dei suoi meravigliosi quadri. Si racconta che in un’occasione, al cospetto di Cosimo III, Elisabetta stupì l’allora ventiduenne principe dipingendo con rapidità e prontezza uno dei bambini dell’allegoria della carità che compare nella tela con Giustizia, Carità e Prudenza oggi di proprietà del Comune di Vignola, tanto da convincere il futuro granduca a commissionarle subito una Madonna col Bambino.
Il legame tra Elisabetta e Firenze è uno dei molti temi su cui si fonda la mostra Dipingere e disegnare “da gran maestro”: il talento di Elisabetta Sirani, in corso alla Galleria degli Uffizi fino al 10 giugno 2018 e curata da Roberta Aliventi e Laura Da Rin Bettina. Fu il suo primo biografo, Carlo Cesare Malvasia (Bologna, 1616 - 1693), a scrivere che Elisabetta aveva un “modo di disegnare da gran maestro e da pochi praticato, ne meno dal padre istesso”: Malvasia in persona, del resto, era stato testimone oculare, avendola visto più volte all’opera su di un foglio di carta, a tracciare, con quella prontezza che le veniva riconosciuta come una delle sue più formidabili doti, pochi segni capaci di dar forma a una figura, completata poi con la punta d’un pennello intinto nell’inchiostro diluito in modo da creare una sorta di “disegno macchiato”. E fu ancora Malvasia a dar avvio al mito d’Elisabetta Sirani: con vivo trasporto e con una scrittura intrisa d’emozioni e di sincero dolore, reso vieppiù profondo dal fatto che il grande scrittore bolognese era un amico della famiglia Sirani, nella sua Felsina pittrice Malvasia non lesinò aggettivi nel tessere le lodi della giovane, definendola “cortese nell’udire, avvenente nelle risposte, gentile ne’ tratti”, “amabile fuor di misura”, “degna d’una fama eterna”, e ancora “prodigio dell’arte”, “gemma d’Italia”, “sole della Europa”, “pittrice eroina”. “Eroina” è termine certo dettato dalla particolare predilezione che Malvasia nutrì per l’artista, ma che tuttavia non appare così fuor di misura se raffrontato all’effettivo ruolo storico ricoperto da Elisabetta Sirani. Al di là delle mitizzazioni cui la sua figura è andata incontro e alle quali hanno giovato il suo elevato grado d’istruzione e il suo talento, la dolcezza del suo temperamento e la bellezza del suo aspetto, occorre sottolineare come Elisabetta Sirani avesse rappresentato il caso d’una donna che nel Seicento si trovò a dover gestire da sola (e per di più giovanissima) la bottega paterna, e soprattutto è necessario rimarcare che la giovane risulta elencata come professoressa nei registri dell’Accademia di San Luca, e che animò una sorta di cenacolo artistico, tutto al femminile, del quale fecero parte le sorelle Barbara e Anna Maria, anch’esse pittrici, e diverse altre giovani artiste. “Il principale significato della figura di Elisabetta”, ha scritto la studiosa Adelina Modesti in un contributo pubblicato nel 2001 in lingua inglese, “sta nella professionalizzazione della pratica artistica femminile, attraverso lo sviluppo d’un metodo di formazione professionale per le donne, al di fuori del tradizionale modello dell’uomo mentore (le artiste donne imparavano infatti il loro mestiere col tramite di colleghi uomini: padri, mariti, fratelli), e quindi nell’aver creato ampie strade per la produzione culturale femminile e per la trasmissione femminile della conoscenza, essendo stata educatrice e modello per la successiva generazione di donne artiste”.
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Sala della mostra Dipingere e disegnare “da gran maestro”: il talento di Elisabetta Sirani |
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Sala della mostra Dipingere e disegnare “da gran maestro”: il talento di Elisabetta Sirani |
Al fine d’inquadrare storicamente la figura di Elisabetta Sirani, la mostra degli Uffizi, che parte dalla Sala Detti, comincia da una serie d’opere che offrono un’icastica testimonianza dell’ampia rete di committenti che la famiglia Sirani seppe costruire, e di cui la giovane artista si giovò, soddisfacendo le richieste d’una clientela colta, attenta, esigente e raffinata, che fu anche d’aiuto a Elisabetta nel farle da tramite con la corte medicea. Troviamo così una sequenza che c’introduce alle figure che furono per lei significative, a partire dallo stesso Carlo Cesare Malvasia, per il quale Elisabetta eseguì l’acquaforte che apre la rassegna e che traduce in incisione una Vergine immacolata ch’era stata in precedenza dipinta dal padre per la chiesa di San Paolo in Monte a Bologna: la Madonna, coi capelli lunghi sciolti sulle spalle, le mani che s’incrociano come d’istinto all’altezza del petto e lo sguardo sereno rivolto verso terra, si distingue per quel segno immediato, libero, quasi impulsivo che caratterizzò tutta la produzione grafica d’Elisabetta Sirani. L’opera che il pubblico incontra immediatamente dopo, un’ulteriore acquaforte, raffigurante una Madonna col Bambino e san Giovannino, reca una dedica a fra’ Bonaventura Bisi, minore francescano nonché valido pittore specializzato nella copia d’opere antiche, e soprattutto primo autore d’un elogio nei confronti della giovane: risale al 1658, quando Elisabetta era ancora ventenne e Bisi, in rapporti col cardinale Leopoldo de’ Medici, inviò una lettera al prelato con accluso un disegno di Elisabetta, domandandogli di “vedere questo poco di schizzo per essere di mano d’una putta molto valente, et è la figliola del nostro Sirano da Bologna d’età d’anni 19 in circa, e dipinge da omo con molta prontezza et invenzione”. Il cardinale dovette con tutta evidenza gradire l’omaggio del frate visto che, da quel momento in poi, non si sarebbero più interrotti i rapporti con Elisabetta: lo testimoniano anche due disegni, una Decollazione di san Giovanni Battista e un Ritratto di giovane, che il nobile bolognese Ferdinando Cospi (peraltro pure imparentato alla lontana coi Medici) inviò nel 1662 allo stesso Leopoldo de’ Medici, affermando che “la figliola [...] in hoggi è tenuta maestra et è lei che mantiene co’ sua lavori tutta la sua numerosa famiglia, anco con avanzo in capo al anno essendo il padre affatto impotente et il Volterrano che ha veduto le sue opere e lavorare le disse esser il meglio pennello che fusse ora a Bologna”.
Il fatto che le venissero riconosciute qualità “da omo”, che fosse considerata “maestra” e che addirittura Baldassarre Franceschini, il “Volterrano” cui Cospi si riferisce nella sua missiva, la ritenesse “il meglio pennello” di Bologna, potrebbero già costituire di per sé dettagli sufficienti a darci una prima idea di quali fossero le capacità di Elisabetta Sirani: per completare quest’idea giunge dunque puntuale il primo dipinto dell’esposizione fiorentina, una raffinatissima Galatea anch’essa eseguita per il marchese Cospi, firmata e datata sul bordo del cuscino, secondo quell’ingegnoso gusto che portava Elisabetta ad apporre la sua firma nelle aree più impensabili dei suoi dipinti. Si tratta dell’ultima opera che la giovane eseguì per il nobile: ci restituisce una Galatea dai tratti adolescenziali, col cerchietto in capo a dar ordine a una chioma dal taglio moderno, col velo agitato dal vento a formare un grande cerchio vermiglio che riprende un motivo largamente praticato da Francesco Albani e poi entrato a far parte del repertorio tipico di molti pittori felsinei, e raffigurata nell’atto di solcare le onde marine su di una bizzarra e scomoda conchiglia trainata da un grande delfino. Una Galatea ch’è quasi un’incarnazione dell’ideale femminile che popola l’immaginario d’Elisabetta Sirani: una ragazza dai lineamenti dolci e dal corpo minuto ma formoso e aggraziato, che denota un malcelato orgoglio giovanile col suo sguardo a metà tra l’innocente e il malizioso, e che col gesto studiatissimo della mano destra, colta mentre sceglie una perla dal vassoio portatole dal putto, palesa con palmare chiarezza il delicato garbo dei proprî modi. A completare l’elenco dei personaggi che mediarono i rapporti tra Elisabetta Sirani e la corte medicea, giunge il ritratto del conte Annibale Ranuzzi, altro committente di spicco della pittrice. Bisi, Cospi, Ranuzzi: tutti intermediarî e agenti dei Medici sul mercato bolognese, capaci di muoversi con abilità tanto tra i mercanti d’arte antica quanto tra le botteghe degl’artisti contemporanei. Trattavano i prezzi, cercavano e trovavano gli oggetti più pregiati, tenevano i rapporti con gli artisti più affermati e parallelamente sondavano i nuovi talenti, e una volta valutata la bontà d’un giovane ne seguivano i progressi per poi informare gl’illustri corrispondenti, caldeggiando l’acquisto di loro opere.
Fu così anche per Elisabetta, che nel ritratto di Annibale Ranuzzi s’avvale di pochi segni in pietra rossa, tecnica peraltro da lei poco adoperata, per tracciare uno studio che fissa sulla carta lo sguardo severo del nobile, espressione evidente d’un temperamento arcigno che risulta anche dalle lettere scritte di suo pugno. Una rigidezza di carattere che tuttavia si stempera nella lettera inviata a Leopoldo de’ Medici il 28 agosto del 1665, giorno della scomparsa d’Elisabetta. Il conte fu il primo ad avvisare il cardinale del tragico evento, che gettò nello sconforto tutta Bologna, poiché l’artista “tanto cresceva ogni giorno nella virtù, che se ne poteva sperare grandissima riuscita”. Il resto della lettera lasciava trapelare una costernatissima partecipazione al lutto: “se V.A. haverà congiuntura di vedere alcuna delle sue cose ultimamente fatte, conoscerà ancora il miglioramento considerabile che sempre v’era. So che all’umanità, o al genio virtuoso di V.A.S. non potrà se non dispiacere tal nuova, nondimeno glie la faccio nota per parermi considerabile, e perché non si meravigli che non le do ragguaglio de’ suoi disegni, mentre in punto che speravo di farli vedere al sig. Gio. Andrea, alquanto sollevato dai dolori della gotta, il pover’huomo è stato da questo travaglio inconsolabilmente assalito”.
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Elisabetta Sirani, Vergine Immacolata (acquaforte; Bologna, Pinacoteca Nazionale, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Elisabetta Sirani, Madonna col Bambino e san Giovannino (acquaforte; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Elisabetta Sirani, Decollazione di san Giovanni Battista (1662; pietra nera, pennello e inchiostro diluito su carta; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Elisabetta Sirani, Galatea (1664; olio su tela; Modena, Museo Civico d’Arte)
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La firma sulla Galatea
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Elisabetta Sirani, Ritratto di Annibale Ranuzzi (pietra rossa su carta; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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La seconda sezione della rassegna intende approfondire, con attenta indagine stilistica, le peculiarità della produzione grafica dell’artista bolognese. Interessante novità è rappresentata da una Sacra famiglia con sant’Anna e san Gioacchino, che a Firenze viene esposta per la prima volta con l’attribuzione a Elisabetta Sirani (era stata sinora riferita a Domenico Maria Canuti): si tratta dello studio per il dipinto, anch’esso presente in mostra, realizzato attorno al 1662 come variante d’un precedente quadro eseguito per un gioielliere di Bologna. Si tratta d’una sacra conversazione in cui i personaggi partecipano con enfatica gestualità, e che l’attenzione della pittrice si fosse concentrata soprattutto sui gesti e sugl’atteggiamenti dei personaggi (il particolare più eloquente in tal senso è il gesto di san Gioacchino, nonno di Gesù, che per gioco gli porge un paio di ciliegie) risulta evidente dal tratto che si fa più marcato e studiato in prossimità delle mani e degl’occhi dei personaggi, che Elisabetta Sirani costruisce con quel segno svelto e libero che mosse a meraviglia molti suoi contemporanei, anche perché la prestezza e il vigore delle linee erano considerati qualità prettamente maschili. La produzione dell’artista non abbonda di fogli marcati a pietra nera come lo studio per la Sacra Famiglia: ciò nondimeno Elisabetta Sirani eccelse anche in questa tecnica. Occorre osservare però gli studî con l’inchiostro diluito onde avere un’idea più solida e completa delle abilità dell’artista bolognese: una Sant’Agnese e un San Girolamo che il pubblico incontra in rapida successione costituiscono due mirabili saggi d’invenzione e velocità d’esecuzione. Dopo aver tracciato le figure, Elisabetta prendeva un pennello, lo intingeva nell’inchiostro diluito e aggiungeva campiture che le davano modo di studiare il chiaroscuro delle sue figure, le ombreggiature e le lumeggiature. Nella Sant’Agnese, per esempio, l’inchiostro è utilizzato per impostare lo sfondo cupo della composizione e per sottolineare le ombre, oltre alle pieghe dei panneggi. Lo stesso dicasi per il foglio col san Girolamo, dal quale appare evidente come la rapida pennellata segua i contorni della figura del santo e delle rocce per delineare i contrasti chiaroscurali.
C’è anche spazio per le acqueforti: particolarmente interessante è l’incisione tratta dalla Mater dolorosa dipinta nel 1657 per il padre oratoriano Ettore Ghislieri, come attesta anche l’iscrizione posta a corredo dell’immagine nell’opera a stampa. Un classico tema dell’iconografia mariana, quello della Madonna addolorata con gli angeli che recano i simboli della Passione, è declinato da Elisabetta Sirani in termini d’equilibrata e composta, ancorché totale, partecipazione emotiva al dolore: di grande intensità è il dettaglio dell’angioletto che, inginocchiato nell’angolo destro della composizione, piange strofinandosi gl’occhi colle mani. Una composizione che, ha notato la studiosa Vera Fortunati, dà efficacemente corpo ai principî pedagogici oratoriani, fondati sul gioco, sulla felicità, sulla vitalità: così, i cromatismi tersi e luminosissimi, e l’affetto trasmesso dagli angeli che attorniano la Vergine, aiutano a sopportare meglio il dolore e a confortare il devoto nella sua orazione. La pennellata minuziosa che segue le forme trova un’eco immediata nell’incisione: il segno, che anche nell’acquaforte si fa minuto, divenendo talora più denso e marcato, talaltra più fine e delicato, ricrea con dovizia le ombre e i chiaroscuri del dipinto.
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Elisabetta Sirani, Sacra famiglia con sant’Anna e san Gioacchino (1662; pietra nera su carta; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Elisabetta Sirani, Sacra famiglia con sant’Anna e san Gioacchino (1662 circa; olio su tela; Milano, Collezione privata)
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Elisabetta Sirani, San Girolamo (pietra nera, pennello e inchiostro diluito su carta; Bologna, Pinacoteca Nazionale, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Elisabetta Sirani, Sant’Agnese (pietra nera, pennello e inchiostro diluito su carta; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Elisabetta Sirani, Mater dolorosa (1657; olio su rame; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
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Elisabetta Sirani, Mater dolorosa (1657; acquaforte; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Confronto tra le due versioni della Mater dolorosa
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A un piccolo gruppo d’olî è affidato il compito di far conoscere al pubblico la bottega della famiglia Sirani, dalla quale uscivano opere d’altissima qualità, che promuovevano (e, del resto, non poteva essere altrimenti) un soave classicismo d’ascendenza reniana declinato in toni meno solenni e compassati e, viceversa, improntati a un più caldo sentimentalismo. Tipico esempio di tale maniera è la Madonna col Bambino e san Giovannino, di proprietà della Cassa di Risparmio di Cesena e la cui attribuzione oscilla tra Giovanni Andrea ed Elisabetta, tanta è la vicinanza dei modi: al giocoso movimento del san Giovannino (la resa pressoché tattile degl’incarnati nella penombra e dei boccoli mossi rasenta il virtuosismo) rispondono tanto l’atteggiamento del Bambino, proteso verso il cugino per unirsi al gioco, quanto lo sguardo bonario di Maria, che curiosamente regge il figlio con le mani incrociate, quasi in gesto di preghiera. Ancora, un disegno di Giovanni Andrea per una più composta opera sullo stesso tema, venne ripreso da Elisabetta, che lo tradusse, trasformandolo però in una Sacra famiglia con san Giovannino, in olio su rame (per quanto l’attribuzione sia incerta, dacché potrebbe anche trattarsi d’opera della sorella minore Barbara) e in acquaforte. L’autoritratto prestato dal Museo Pushkin di Mosca chiude la sezione: Elisabetta si ritrae abbigliata con un mantello di seta che testimonia lo status da lei raggiunto, con la catenella d’oro al collo, simbolo della pittura (nell’Iconologia di Cesare Ripa si chiarisce che l’oro rappresenta la nobiltà del mestiere di pittore, e la maschera che doveva pendere dalla catena, nascosta nell’autoritratto d’Elisabetta, serviva “per mostrare che l’imitazione è congiunta con la pittura inseparabilmente”) e con dietro di lei sculture e libri come simboli di cultura.
Il percorso espositivo si conclude nella Sala del Camino, dove il pubblico trova alcune opere a soggetto allegorico: si tratta senz’altro dei dipinti più interessanti, dacché temi meno convenzionali davano modo a Elisabetta di cimentarsi nei suoi lavori con più libertà e con quell’originalità inventiva che le era propria e che i contemporanei unanimemente le riconoscevano. La rassegna espone anche la summenzionata tela con Giustizia, Carità e Prudenza, oggi a Vignola, che l’artista dipinse per Cosimo III de’ Medici. Si trattava di un’opera celebrativa, cui era demandato il compito di rappresentare le virtù che dovevano ispirare un buon governo, e segnatamente quello dei Medici sulla Toscana: stante l’importanza del dipinto, Elisabetta profuse grandissimo impegno nella sua realizzazione, come testimoniano i numerosi studî che ci sono pervenuti. Le tre protagoniste del dipinto, ognuna corredata d’attributi iconografici tipici (i bambini per la Carità, con quello in basso a sinistra che riprende il san Giovannino cesenate, la spada e la bilancia per la Giustizia, lo specchio per la Prudenza) contribuiscono a dar corpo a un ideale di virtù ch’è forse muliebre ancor prima che politico e che si riflette nell’atteggiamento fiero e dignitoso delle tre donne (si veda in particolare la posa della giustizia), nella loro bellezza che non cede alla leziosaggine, nella fermezza di gesti e sguardi. Elisabetta aggiunge la propria firma sui bottoni del corpetto blu della Giustizia, e il raffinato uso d’includere il proprio nome entro i dettagli più insoliti ricorre anche in una delle ultime opere della giovane, il Ritratto di Anna Maria Ranuzzi nelle vesti della Carità, dove il nome dell’artista compare sul polsino destro della veste della protagonista, sorella di quell’Annibale Ranuzzi di cui s’è detto: l’opera, che s’inserisce nel filone dei ritratti allegorici (e dove peraltro torna il motivo delle ciliegie), fu eseguita nel 1665, poco prima che l’artista si spegnesse.
È invece d’un anno precedente la Porzia firmata sullo schienale della sedia che l’artista inserisce dinnanzi alla nobildonna romana: figlia di Catone Uticense e moglie del Bruto che organizzò la congiura contro Giulio Cesare, Porzia si tolse la vita in seguito alla morte del marito, avendogli promesso che si sarebbe suicidata se il loro piano fosse fallito. Esempio di fermezza, viene raffigurata da Elisabetta non, come da tradizione, nel momento del suicidio, bensì nell’atto di ferirsi la coscia per dimostrare a Bruto la propria convinzione nel volerlo seguire nelle sue trame politiche: l’artista intendeva rivendicare con evidenza il ruolo attivo della donna in grado d’elevarsi al di sopra della condizione subalterna che al suo tempo le era riservata (simboleggiata dalle ancelle nell’altra stanza) e di dimostrare la propria parità con l’uomo. Il gusto, tipico del classicismo bolognese, per la riduzione ai minimi termini dei particolari più truculenti delle narrazioni, è evidente nella ferita stessa della donna: poco più che un graffio, con due rivoli di sangue che le solcano le carni. Viceversa, grande attenzione è concessa alla resa dei materiali: si osservino le sete, le stoffe, gli ori, i gioielli che Porzia reca in capo. La sezione è completata da un Amorino trionfante, altro dipinto di committenza medicea, eseguito in occasione del matrimonio, celebrato nel 1661 (e in seguito rivelatosi uno dei più infelici della storia dei Medici), tra Margherita Luisa d’Orléans (la destinataria dell’opera) e Cosimo III: di conseguenza, è una tela che assomma tutto il campionario d’allegorie e simboli proprî d’un dipinto matrimoniale. La figura del protagonista stesso, anzitutto: il dio dell’amore rappresenta un chiaro invito per i due sposi. E poi le sei perle: disposte a rievocare lo stemma mediceo, alludono al nome di Margherita Luisa d’Orléans (margarita è il termine greco per “perla”). E ancora, il putto sopra al delfino, simbolo di piacevolezza (per Ripa “un delfino che porti a cavallo un fanciullo” è l’icona dell’“animo piacevole, trattabile et amorevole”), e il vento che gonfia il velo dell’amorino, simbolo benaugurante.
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Elisabetta Sirani o Giovanni Andrea Sirani, Madonna col Bambino e san Giovannino (olio su tela; Cesena, Cassa di Risparmio di Cesena)
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Giovanni Andrea Sirani, Madonna col Bambino e san Giovannino (pietra nera, pennello e inchiostro diluito su carta; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
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Elisabetta o Barbara Sirani, Sacra famiglia con san Giovannino (olio su rame; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
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Elisabetta Sirani, Allegoria della pittura (autoritratto?) (1658; olio su tela; Mosca, Museo Pushkin)
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Elisabetta Sirani, La Giustizia, la Carità e la Prudenza (1664; olio su tela; Vignola, Comune di Vignola)
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Elisabetta Sirani, Anna Maria Ranuzzi ritratta come la Carità (1665; olio su tela; Bologna, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna)
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Elisabetta Sirani, Porzia (1664; olio su tela; Bologna, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna)
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Il sangue sulla coscia di Porzia
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Elisabetta Sirani, Amorino trionfante in mare o Amorino Medici (1661; olio su tela; Bologna, collezione privata)
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Vien spontaneo domandarsi quali altri esiti avrebbe toccato la pittura d’Elisabetta Sirani, se la giovane non fosse stata colta da prematura scomparsa: è retorico, eppure è la reazione più naturale che si prova dinnanzi ai suoi disegni e ai suoi dipinti. Il pubblico può però farsi un’idea osservando la qualità delle opere esposte alla mostra fiorentina: non è la prima mostra in assoluto sulla pittrice bolognese, che già in passato ha avuto l’onore d’una monografica, ma si tratta d’una rassegna che, com’è tipico delle mostre agli Uffizi dedicate in tutto o per la più parte alla grafica, si mantiene costantemente su di un livello molto alto, è sostenuta da un progetto scientifico di qualità, curato peraltro da due studiose giovanissime, e riesce a mantenere alta l’attenzione del pubblico per tutta la durata dell’itinerario espositivo (cosa che non sempre accade nelle mostre dedicate alla produzione grafica d’un artista). L’assenza d’un vero catalogo è in parte compensata da un’esposizione online, raggiungibile sul sito degli Uffizi, con riproduzioni di buon livello, presenti per tutte le opere, e in gran parte corredate di brevi note descrittive: è questa ormai una prassi che accomuna tutte le mostre di grafica del museo fiorentino realizzate nell’ambito del progetto Euploos, e la presente non se ne discosta.
Costituisce però una particolarità che caratterizza l’esposizione su Elisabetta Sirani la presenza di dipinti, oltre ai disegni e alle stampe: più nel dettaglio, la rassegna opera confronti tra disegni, dipinti e stampe sempre precisi e allettanti, ed è in ogni suo passaggio estremamente coerente con gli obiettivi dichiarati in apertura di percorso: illustrare, come si legge nell’introduzione, “alcuni aspetti chiave per la comprensione della figura di Elisabetta Sirani”, ovvero “il suo ruolo di donna artista nel contesto culturale bolognese coevo e la fama di cui godette in vita; la velocità e la destrezza esecutiva a lei peculiari; la capacità di affrontare non solo temi sacri e ritratti, generi ritenuti nel Seicento i più consoni alle pittrici, ma anche soggetti allegorici e storici, spesso interpretati con iconografie non convenzionali” e, ovviamente, fornire al pubblico alcuni strumenti per approfondire la conoscenza d’una personalità tra le più interessanti di tutto il secolo diciassettesimo. Val la pena rimarcare come le curatrici abbiano operato una selezione ridotta, dal momento che in tutto la mostra consta di trentatré opere, ma altamente rappresentativa del percorso biografico e artistico di Elisabetta Sirani, e financo utile a ricostruire il contesto storico entro cui l’artista si trovò a operare: impresa tutt’altro che agevole, e alle curatrici si riconosce il merito d’aver con successo atteso a tale compito. Dietro a ogn’opera esposta si cela infatti il tassello d’un mosaico che restituisce al pubblico di Dipingere e disegnare “da gran maestro”: il talento di Elisabetta Sirani il ritratto d’una pittrice aggiornata, moderna, avanti rispetto ai suoi tempi, dotata d’un talento naturale, capace di rivaleggiare coi suoi colleghi più quotati e di raggiungere la clientela più colta, influente e importante.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).