Una storia lunga, quella del Surrealismo. Non solo per via della sua duratura influenza, e nemmeno dei festeggiamenti del centenario, in corso in Italia e all’estero. Riferendoci alla cronologia che accoglie il visitatore del Centre Pompidou dal 4 settembre 2024 al 13 gennaio 2025, parliamo di quasi mezzo secolo di ricerca: dal 1924 al 1969. Le due date, che delimitano il percorso cronologico di Surréalisme, curata da Didier Ottinger e Marie Sarré, sono già di per sé significative, in quanto affermano una volta per tutte la sua longevità e, come si vedrà, anche in conseguenza di questo, la sua pervasività geografica e la sua fecondità nei più svariati generi artistici. Tradizionalmente incluso nelle avanguardie storiche di inizio Novecento, il Surrealismo condivide con alcune di queste – il Futurismo su tutte o il Dada da cui discende – una questione decisiva che straborda rispetto alla sola ricerca estetica e formale condotta nelle direzioni più disparate. Il Surrealismo è una visione del mondo, un approccio alla vita che tiene conto dei sentieri più imprevedibili, una filosofia. E lo fa da principio, nel documento che ne fonda l’atto di nascita: il manifesto pubblicato da André Breton, poeta e primo teorico della corrente, nell’ottobre del 1924.
Il testo, che vale la pena di essere riletto integralmente in occasione della ricorrenza del 2024, è un crogiolo di immagini, di credenze, di riferimenti letterari, scientifici e magici. Non a caso, dunque, il visitatore della mostra parigina, lo incontra nei primi minuti della visita. Subito dopo aver superato la linea del tempo, ultimo appiglio sicuro prima dell’invito a introdursi nel labirinto su cui è costruita la struttura della mostra, il visitatore oltrepassa un portale mostruoso, che si direbbe di una casa infestata in un parco giochi. Del resto in questi termini, si parlava delle mostre surrealiste sui giornali. “Combat”, nel recensire l’Exposition internationale du surréalisme, riportava il 26 settembre 1947, “è qualcosa che non ha nome in nessuna lingua e che assomiglia sia al Museo Tussauds di Londra sia alla festa di Neuilly, a un caravanserraglio e al Musée Grévin, a un’attrazione dell’ormai defunto Luna Park e al Cabaret du Néant e de l’Enfer, a un manicomio, al laboratorio del dottor Caligari”. I riferimenti sono accurati e restituiscono la sensazione di come il surrealismo fosse per il visitatore della metà del Novecento sorgente di visioni mostruose. Tra tutti i luoghi evocati, cattura lo sguardo il Cabaret de l’Enfer, storico locale parigino a tema infernale, il cui ingresso è stato eternato in un noto scatto di Robert Doisneau del 1952 e, in precedenza, da Eugène Atget almeno nel 1900 e intorno al 1910, prima di scomparire dietro la facciata di un supermercato. Questo rimando programmato non è dunque allegorico, quanto piuttosto topografico: il varco d’accesso in mostra rimanda direttamente al locale infernale che rappresenta uno dei molti luoghi surrealisti in città. Forse uno dei più suggestivi per la ricorrenza del 2024. Breton possedeva il suo studio proprio al quarto piano dello stesso immobile, con accesso dall’adiacente rue Fontaine, civico 42, segnalato oggi con una targa che ricorda l’indirizzo come “centre du mouvement surréaliste de 1922 à 1966”. Da qui prendono avvio già dalla fine degli anni Dieci le sperimentazioni che porteranno, sempre in questo studio, alla stesura del manifesto, considerato tra gli scritti più rilevanti del Novecento. Il testo nasce, per la verità, come spontanea prefazione alla raccolta “Poisson soluble”, con l’intento di fissare nero su bianco alcuni principi e traguardi dei processi di scrittura automatica, avviati a partire dal 1919, e sarà seguito da altri due manifesti nel 1930 e nel 1942.
All’ingresso della mostra, i rappresentanti francesi del movimento accolgono il visitatore in un corridoio buio: André Breton, Suzanne Muzard, Salvador Dalí, René Magritte, Raymond Queneau, Jean Aurenche, Marie-Berte Aurenche, Max Ernst, Pierre e Jacques Prévert, Louis Aragon, Yves Tanguy, Paul Éluard, Jacques André Boiffard e Luis Buñuel compaiono, impertinenti e in qualche caso inquietanti, nelle fototessere d’epoca scattate alle cabine fotografiche della fine degli anni Venti. Dopo questo breve itinerario, il percorso di visita ammette al cospetto del manoscritto originale di Breton. Esposto al centro della sala, è il vero oggetto di culto della ricorrenza, mostrato integralmente per la prima volta, grazie al prestito della Bibliothèque nationale de France. Le carte parlano, poi. Nell’ambiente circolare in cui sono esposte, è la voce dell’autore ad animarle, grazie alla ricostruzione effettuata dall’équipe dell’Institut de Recherche et de Coordination Acoustique/Musique (IRCAM) del museo, tramite l’intelligenza artificiale e grazie ad alcune registrazioni storiche e il coinvolgimento di un attore. Mentre le immagini di volti, scritti, situazioni e mappe scorrono in una suggestiva proiezione immersiva, le coordinate surrealiste che guideranno il percorso tra le opere vengono fornite.
Innanzitutto, la sua descrizione è scandita in modo telegrafico da Breton e può essere letta anche in forma stampata, sotto teca, in un documento intestato del Bureau de Recherche Surréalistes. L’organismo, noto anche come Centrale surréaliste e definito “romanesque auberge pour les idées inclassables et les révoltes poursuivies” da Louis Aragon, viene fondato con qualche giorno di anticipo rispetto alla pubblicazione del manifesto. Tra le sue prime azioni, la produzione di 16 papillons surréalistes: adesivi gialli, verdi e rosa che, sull’esempio di un’azione dada di Tristan Tzara e Paul Éluard nel 1920, avrebbero contribuito alla diffusione nelle strade della rivoluzione surrealista, attraverso aforismi provocatori e astrusi e, come si diceva, la sua definizione: “SURRÉALISME, n.m. Automatisme psychique pur par lequel on se propose d’exprimer, soit verbalement, soit par écrit, soit de toute autre manière, le fonctionnement réel de la pensée. Dictée de la pensée, en l’absence de tout contrôle exercé par la raison, en dehors de toute préoccupation esthétique ou morale”. Verbalmente o per iscritto, con qualsiasi mezzo, il surrealismo è un automatismo psichico volto a far emergere il funzionamento del pensiero, lontano da ogni preoccupazione estetica o morale.
Dopo il portale dell’Inferno e dopo il prezioso manoscritto, il visitatore è invitato a introdursi nel labirinto, luogo mitologico ricorrente fin dall’immaginario letterario surrealista che mette al centro la città di Parigi (come nei romanzi Le Paysan de Paris di Louis Aragon, 1926; Nadja di André Breton, 1928; Dernières nuits de Paris di Philippe Soupault, 1928). L’impostazione labirintica con la quale i curatori hanno ordinato l’esposizione è poi mutuata dalle stesse mostre surrealiste, in particolare dall’Exposition internationale du Surréalisme del 1938 (Galerie des Beaux-Arts, Parigi) e del 1947 (Galerie Maeght, Parigi). Tredici parole chiave conducono lungo i topoi del Surrealismo, a partire dalle prime intuizioni e dai primi maestri, fino ai riferimenti letterari, a posizionamenti politici e alle visioni del cosmo, passando per luoghi e atmosfere: Entrée des médiums, Trajectoire du rêve, Lautréamont, Chimères, Alice, Monstres politiques, Royaume des mères, Mélusine, Forêts, Pierre philosophale, Hymnes à la nuit, Larmes d’éros, Cosmos, questi i nomi delle sezioni. La vastità di opere esposte include alcuni “capolavori da manuale” – si pensi ad esempio alle tele di Giorgio de Chirico (Le Chant d’amour, 1915), di Paul Delvaux (L’Aurore, 1937), di Max Ernst (La Toilette de la mariée, 1940), di Salvador Dalì (Reve causé par le vol d’une abeille autour d’une pomme-grenade, une seconde avant l’éveil, 1944), di René Magritte (L’Empire des lumières, 1954). Ma la volontà di condurre una ricerca fuori dai percorsi più noti del surrealismo e di riconnetterlo con figure precedenti e in alcuni casi con situazioni successive permette di esplorare anche il lavoro di artisti meno blasonati o che non ci si aspetterebbe di incontrare. Il percorso è denso e vorticoso, le suggestioni moltissime e ogni tentativo di sintesi complesso da articolare, senza tralasciare tasselli che evidentemente soltanto uniti possono rappresentare appieno un movimento che già alla fine degli anni Trenta accomunava le ricerche di artisti provenienti da quattordici paesi diversi.
Il primo capitolo di mostra, intitolato Entrée des médium, citando un testo pubblicato da Breton nel 1922 su “Littérature”, esplora le origini del surrealismo nella sua dimensione medianica. Cronologicamente ci si sposta indietro fino al 1860, con una acquaforte simbolista di Victorien Sardou, La maison de Mozart, e compare fin da qui uno dei maestri riconosciuti del movimento: il “pre-surrealista” Giorgio De Chirico e il suo emblematico Ritratto [premonitore] di Guillaume Apollinaire (1914), in cui il poeta francese assume le sembianze di Orfeo che indossa un paio di occhiali da sole a simboleggiare la capacità di vedere il mondo al di là delle apparenze. Sullo sfondo la silhouette di Apollinaire segnata da una cicatrice anticipa quella che davvero comparirà sul suo volto a distanza di anni e a seguito di un ferimento. Questa vicenda fa dello stesso De Chirico un chiaroveggente per i surrealisti. Storia analoga a questa è quella dell’Autoportrait di Victor Brauner (1931), in cui l’artista si mostra senza l’occhio che perderà solo anni dopo. Sempre di Brauner, è esposto il noto dipinto Le Surréaliste (1947), accostato a Ogoun Ferraille (1947) di Hector Hyppolite. Entrambe le opere, altamente simboliche, mostrano riferimenti più o meno espliciti agli arcani del Giocoliere e del Bagatto e al mondo dei tarocchi che il visitatore re-incontra successivamente lungo il suo percorso di visita. La loro presenza, poi, comincia a tratteggiare nella mente del visitatore i confini geografici del movimento: non solo Parigi, quale capitale delle avanguardie, ma da subito l’Europa, vista le origini rumene di Brauner, che poi diverrà francese d’adozione, ma anche l’America Latina, considerate la provenienza haitiana di Hyppolite.
Il tema della vista negata che apre a nuovi universi percettivi compare nuovamente anche in opere quali Angel of Anarchy (1936-1940) di Eileen Agar o in Museum (1951) di Edith Rimmington. I due lavori, una scultura e un disegno, delle artiste britanniche, aprono un’altra questione che riguarda l’approfondimento sulla storia del surrealismo offerto dal Pompidou: la presenza, fin dagli esordi, di una forte componente femminile all’interno del gruppo, generalmente meno nota al grande pubblico e via via più attenzionata grazie a progetti espositivi quali Fantastic Women. Surreal Worlds from Meret Oppenheim to Frida Kahlo (Schirn Kunsthalle Frankfurt, 2020) o Surréalisme au Féminin? (Musée de Montmartre, 2023) ed evocata fin dal titolo dalla 59° Biennale di Venezia, che citava un libro di fiabe di Leonora Carrington, Il latte dei sogni. In occasione del centenario, lo stesso Pompidou, grazie a Marie Sarré ha pubblicato Les Magiciennes. Surréalisme et alchimie au féminin. Leonora Carrington, Ithell Colquhoun, Remedios Varo (2024) che raccoglie e in parte traduce per la prima volta in francese alcuni testi delle tre artiste.
Sempre nel testo Entrée des médium, Breton scrive “on sait [...] ce que, mes amis et moi, entendons par surréalisme. [...] un certain automatisme psychique, qui correspond assez bien à l’état de rêve”. Anche nel Manifesto del 1924 il tema del sogno è centrale e tiene conto anche delle ricerche mediche e psicoanalitiche appena precedenti o contemporanee. Breton afferma “credo alla futura soluzione di quei due stati, in apparenza così contraddittori, che sono il sogno e la realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà, se così si può dire. È alla sua conquista che sto andando, certo di non arrivarci ma troppo incurante della mia morte per non prefigurarmi in qualche modo le gioie di un tale possesso”. Questo concetto duale è ben rappresentato, quasi illustrato, con forza da Diego Rivera in Les vases communicants (1938), manifesto dai colori violenti e il tratto marcato, realizzato in occasione delle lezioni di Breton all’università del Messico. L’immaginario onirico si dispiega, poi, nella sua potenza attraverso i lavori perturbanti di Salvador Dalì (Le rêve, 1931), quelli energici e caotici di André Masson (Dans la tour du sommeil, 1938), quelli più poetici di Joan Miró (La sieste, 1925). Presente come precursore anche Les yeux clos (1890) di Odilon Redon. Ancora nel filone onirico rapiscono i fotomontaggi di Dora Maar (Senza titolo, Main et coquillage, 1934; Le simulateur, 1936) e quelli di Grete Stern (Sueño nº 17: ¿quién será?, 1949).
Se le prime sale mostrano gli aspetti più noti e riconosciuti del surrealismo, ovvero quelli legati alla surrealtà come dimensione del sogno, proseguendo ci si addentra in sezioni che certamente moltiplicano e arricchiscono i riferimenti del Surrealismo, il tutto sempre affiancato da un ricco corredo documentario e, in pochi casi, da selezionate pillole cinematografiche (Hans Richter, Alfred Hitchcock,Luis Buñuel). L’affiancamento spontaneo di immagini incongrue e spiazzanti prosegue secondo la definizione di ‘bellezza’ data dal poeta Lautréamont, pseudonimo di Isidore Ducasse e figura ispiratrice per i surrealisti: “Beau comme la rencontre fortuite sur une table de dissection d’une machine à coudre et d’un parapluie”. Da questa stessa citazione prende il titolo l’opera di Man Ray (1932-33), che affianca alcuni oggetti iconici di cui Le téléphone aphrodisiaque (1938) di Dalì e la Nuage articulé (1937-2023) di Wolfgang Paalen sono senz’altro i più emblematici, insieme alla scultura/arredo Table (1933) di Alberto Giacometti. Estendendo il concetto di assemblaggio, i surrealisti arrivano a concepire, già dal 1925, il gioco del cadavre exquis: alcuni esemplari in mostra raccontano il funzionamento dell’esperienza che, mutuando un procedimento dapprima applicato al linguaggio, produce opere collettive in cui il genio individuale è volutamente soppresso. Da ancora un altro punto di vista, assume su di sé questi stessi significati di unione e accorpamento di elementi incongrui la mitologica figura della chimera, che diventa simbolo surrealista. Birthday (1942) di Dorothea Tanning è forse una delle rappresentazioni che in mostra più catturano l’attenzione su questo tema. Affine in questo, anche la figura leggendaria di Melusina, cara a Breton, che dà il titolo a un’intera sezione di mostra, in nome di una rinnovata unione tra uomo e natura, binomio che si presta a diverse interpretazioni. La foresta diventa luogo della fusione panica, ma anche porta d’accesso all’inconscio e principio di un nuovo viaggio iniziatico. Ne sono interpreti, tra gli altri, Marx Ernst (La forêt, 1927; Vision provoquée par l’aspect nocturne de la porte Saint-Denis, 1927), Wifredo Lam (Lumière de la forêt, 1942), Joseph Cornell (Owl Box, 1945-46), ma pure, prima dei surrealisti, Caspar David Friedrich (Frühschnee, 1821-1822). Sul tema della notte, mai nominata nel manifesto surrealista eppure sempre presente sottotraccia, tanto più nelle rappresentazioni di una natura ambivalente e oscura, le fotografie di Brassaï (Statue du Maréchal Ney dans le brouillard, 1932; Quai de Conti, 1930-32; Jardin du Luxembourg, s.d.) che esplorano invece scorci della capitale parigina, già sfondo della passeggiata notturna del citato Le paysan de Paris.
L’immaginario letterario, sempre rilevante nella formulazione delle proposte visive dei surrealisti, è alla base di una serie di opere dedicate esplicitamente a Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (1865) di Lewis Carroll o influenzate dalla riscoperta delle pagine del marchese De Sade. Il personaggio di Carroll rompe per i surrealisti il vincolo del pensiero logico e diventa quasi un’ossessione per loro e il punto di partenza per successive rielaborazioni e riletture: liriche e sognanti in René Magritte (Alice au pays des merveilles, 1946), notturne e cupe in Clovis Trouille (Le rêve d’Alice dans un fauteuil, 1945), ipnotiche e suggestive rispetto al mondo degli oggetti quotidiani con Marcel Jean (Armoire surréaliste, 1941) o ancora sociali e sulla condizione femminile in Dorothea Tanning (Portrait of a Family, 1954). L’amore, con la contrapposizione eterna tra Eros e Thanatos, è visto come sentimento libero, rivoluzionario e scandaloso. Lo dimostrano, ad esempio, le illustrazioni erotiche di Toyen (Sans titre, 1930), le immagini conturbanti di Dalì (Le grand masturbateur, 1929) e di Félix Labisse (Danaé, 1947), gli oggetti di Mimi Parent (Maîtresse, 1996) o La Poupée di Hans Bellmer (1935-1936).
La mostra del centenario del Surrealismo al Centre Pompidou è parte di un percorso itinerante, partito dal Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique di Bruxelles, che toccherà nel corso del 2025 la Fundación MAPFRE a Madrid, la Kunsthalle di Amburgo e il Philadelphia Museum of Art, con declinazioni specifiche per ogni sede. Allestito su una superficie di oltre 2200 metri quadrati, il percorso di approfondimento si estende fuori dalle sale del museo e prende ulteriore spazio nei luoghi simbolici del surrealismo e nelle gallerie che mostrano quale impatto il movimento abbia lasciato sulla produzione contemporanea. Del resto, e anche questi sono temi che i curatori hanno voluto sottolineare in occasione della ricorrenza in atto, il Surrealismo ha avuto una portata rilevante nel fornire una nuova possibile lettura del mondo e nel tentativo di riplasmarlo, spesso in aperta avversione con sistemi politici oppressivi, totalitari e colonialisti. L’attenzione alle mitologie legate alla creazione (si vedano i dipinti di Yves Tanguy, Maman, papa est blessé, 1927 o Vent, 1928; il ciclo Fête des Mères di Brauner); l’universo fatto di mostri, talvolta interpretati come allegorie politiche più o meno riconoscibili, a partire dalla stessa immagine guida del progetto espositivo (Max Ernst, L’ange du foyer ou le Triomphe du Surréalisme, 1937); la necessità di trovare nuove riconciliazioni tra scienza e poesia e l’attenzione rivolta dunque all’alchimia (Remedios Varo, Papilla estelar, 1958); lo sguardo che si fa ampio, arrivando a visioni del cosmo e al desiderio di plasmare una civiltà rinnovata, che prenda le mosse anche da modelli non-occidentali, per riconsiderare e mettere in dubbio, come in Prolégomènes à un troisième Manifeste ou non (1942), il posto dell’uomo e degli esseri viventi più in generale.
Il centenario del Surrealismo al Centre Pompidou, che si avvia poi a una chiusura pluriennale, è una vera re-immersione in un movimento troppo spesso concentrato su un numero ristretto di personalità e generalmente ricondotto a una dimensione europea. La mostra, che segue cronologicamente nello stesso museo altri approfondimenti tematici (La Révolution Surréaliste, 2002; La subversion des images, 2009; Le Surréalisme et l’objet, 2013; Art et liberté, 2016) e monografici, è accompagnata da un podcast e da un poderoso volume che indaga e accompagna il lettore sia ai capitoli di mostra sia a più puntuali affondi su temi cruciali per il surrealismo (accanto a riflessioni sulla meraviglia, ad esempio, la dimensione globale, il ruolo della donna, la visione politica e il rapporto tra arte e società) e non meno attuali per il lettore di oggi.
L'autrice di questo articolo: Stella Cattaneo
Specializzanda in Storia dell'arte e valorizzazione del patrimonio artistico presso la Scuola di Specializzazione dell'Università degli studi di Genova. Attualmente curatrice di Casa Museo Jorn (Albissola Marina, Savona), ha partecipato a convegni e giornate di studio all'Università di Losanna e all'Università di Genova (2019) e a seminari internazionali di museologia (école du Louvre, 2018). I suoi interessi di ricerca si rivolgono prevalentemente all'arte contemporanea con particolare attenzione al periodo del secondo dopoguerra e all'opera di Yves Klein.