Vi sono artisti di cui, grazie alle biografie storiche e alle testimonianze documentarie, conosciamo con certezza l’intera esistenza, compresi i loro spostamenti, le loro frequentazioni, le loro committenze, e talvolta persino i loro pensieri, anche se questi sono vissuti secoli e secoli fa, e vi sono invece artisti di cui ancora al giorno d’oggi sappiamo ben poco, e per questo il lavoro degli studiosi per cercare di ricostruire il più fedelmente possibile la vita di questi è tuttora in corso, attraverso studî, aggiornamenti e confronti. È questo il caso di Cecco del Caravaggio (Francesco Boneri; 1585 circa – dopo il 1620), pittore attivo tra Cinque e Seicento, che fu allievo e modello di Caravaggio; possiamo ipotizzare la sua data di nascita intorno al 1585. È “l’unico artista della cosiddetta cerchia caravaggesca di cui ancora non si conosce né il sicuro luogo, né la data di nascita, così come non ne conosciamo luogo e data di morte”, sottolinea Gianni Papi, lo studioso a cui si deve la ricostruzione dell’artista, come ormai la conosciamo. Ed è proprio su questa ricostruzione che si è impostata la mostra Cecco del Caravaggio. L’Allievo Modello allestita fino al 4 giugno 2023 negli spazî rinnovati dell’Accademia Carrara di Bergamo e curata dallo stesso Papi e da Maria Cristina Rodeschini, direttrice della sede museale.
“La mostra è dunque l’esito di quella ricostruzione e di essa presenta tutti gli aspetti e i motivi di interesse, così come le incertezze”, scrive il curatore nel catalogo, che alle ricerche su Cecco ha dedicato trent’anni sfociando in diverse pubblicazioni, di cui due monografie del 1992 e del 2001 e una serie di articoli e contributi. “Tale ricostruzione è – mai come in questo caso – indiziaria, spesso suggestiva, edificata su elementi che si reggono l’un l’altro con una logica condivisibile, però senza che nessuno di essi sia definitivamente accertato”, spiega Papi. “Cecco propone una sfida continua, per la sua ostinata decisione di nascondersi, di non fornire tracce di sé, di affidare a un gruppo di quadri – la più parte misteriosi, talvolta sconvolgenti – tutto quello che vuol far sapere di sé”. Papi ha ipotizzato in passato una sorta di damnatio memoriae, ma si rende conto anche che l’artista in questione possa essere “un personaggio del tutto atipico, probabilmente insofferente alle regole, destinato a suscitare contrasti, forse inimicizie”. Il suo nome non compare né nelle cronache storiche né in quelle giudiziarie e nemmeno nei censimenti pasquali. È menzionato nella Pasqua 1605 un “Francesco garzone” censito insieme a Caravaggio nella sua abitazione in vicolo San Biagio, verosimilmente identificabile con Cecco del Caravaggio (documento pubblicato per la prima volta nel 1981 da Marini). Il suo nome e cognome, Francesco Boneri, emerge solo due volte: il 6 gennaio del 1619 negli elenchi dell’Accademia di San Luca, come affiliato in una congregazione, appare come “Francesco Boneri” in compagnia di Giovanni Baglione e di altri come Ottavio Leoni, Tommaso Salini, Paolo Guidotti, Baccio Ciarpi e Alessandro Turchi. Una novità interessante che è emersa grazie alla ricerca di Francesca Curti negli archivi della Capitale in occasione della mostra e che rivela la partecipazione del pittore all’importante istituzione, testimoniando, come sottolinea la studiosa nel suo saggio, “l’affermazione di Cecco negli ambienti artistici romani”. Due anni prima, l’11 ottobre 1617, Francesco Boneri risulta invece nell’elenco dei debitori per l’acquisto di merci presso un fondaco sito in una zona di Roma prossima al palazzo della Cancelleria, residenza del cardinale Alessandro Peretti Montalto, che come scrive la studiosa “può essere forse considerato, per ora, il suo primo mecenate”. Nel suo saggio in catalogo, Curti rende noto infatti che in questa data il “Mercante fondacale” Carlo Aldobrandi si impegnava a consegnare a un altro mercante, Giulio Cesare Marchesini, tutto ciò che era presente nella sua bottega, di proprietà di quest’ultimo e dove Aldobrandi esercitava. Oltre alla vendita, i mercanti svolgevano anche attività finanziarie e nella lista dei debitori consegnata da Aldobrandi a Marchesini compare il nome di “Francesco Boneri”.
L’identificazione con Cecco è avvalorata dal rione romano in cui si trovavano queste botteghe vicino alla residenza del cardinal Montalto e dalla presenza nella zona di molti esponenti di importanti famiglie bergamasche. Perché quest’ultima considerazione rafforzerebbe l’identificazione del nostro pittore? Gianni Papi scrive di potersi ritenere soddisfatto perché alcune deduzioni che formulava già nel 1992 sulla base di indizî, come l’origine bergamasca del pittore, sono risultati essere pressoché certezze. La precedente bibliografia critica era infatti convinta che Cecco fosse fiammingo, francese o spagnolo, complice l’affermazione di Roberto Longhi che lo definiva “una delle più notevoli figure del caravaggismo nordico”, da intendere ora, grazie all’aggiornamento degli studî, come nordico del Nord Italia, e non del Nord Europa. Consultando le Vite dei pittori bergamaschi di Francesco Maria Tassi, Papi propose che l’artista appartenesse alla famiglia di pittori originari di Alzano Lombardo, il cui cognome era Boneri o Bonera, o Boneri di Astori. Niccolò Boneri, tra i maggiori esponenti di questa famiglia, aveva fornito a metà Cinquecento diversi quadri grandi, andati perduti, per la decorazione della cappella Colleoni a Bergamo: testimonianza del prestigio riconosciuto all’artista. In occasione della mostra, Gianmario Petrò ha compiuto ricerche sul territorio bergamasco e bresciano sulla famiglia Boneri (il suo saggio nel catalogo propone infatti questo tema, con addirittura l’albero genealogico della famiglia Boneri di Alzano), anche se non sono emersi dati fondamentali per individuare un Francesco che possa corrispondere al pittore. “La ricerca di questa famiglia dovrà continuare, consapevoli che qualcosa di davvero utile può emergere ovunque tra le carte dei nostri ricchissimi archivî”, ha concluso Petrò. È ipotizzabile, sostiene Papi, che un ramo della famiglia Boneri si sia trasferito a Roma considerando che Cecco doveva già essere a Roma attorno ai quattordici-quindici anni. O è probabile anche che i Boneri abbiano affidato Cecco a Caravaggio per il suo apprendistato, sapendo di lasciarlo a un artista della loro terra che stava avendo successo a Roma.
Il soprannome Cecco del Caravaggio è citato in un brano delle Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini, in cui il medico biografo inserisce “Francesco detto Cecco del Caravaggio” nella “schola” di Caravaggio insieme a Ribera, Spadarino e Manfredi, ovvero i quattro artisti che hanno portato avanti, ognuno a proprio modo, le modalità alla base del naturalismo di Merisi. Secondo Papi fu comunque l’articolo di Michael Wiemers del 1986, in cui si rendeva noto un brano del diario di Richard Symonds, viaggiatore inglese presente a Roma intorno al 1650, a dare la spiegazione più verosimile e logica di questo soprannome. Il brano parla dell’Amore vincitore di Caravaggio, allora in collezione Giustiniani, rivelando che il modello che aveva posato per quest’opera era proprio Cecco del Caravaggio: “was his boy”, “his owne boy or servant thait laid with him”, ovvero il ragazzo che giaceva con Caravaggio. Francesco era soprannominato Cecco del Caravaggio poiché il suo rapporto col maestro era stato talmente stretto da averlo inciso nella sua identità e inoltre il brano esplicita che quel legame era anche sessuale. Frasi, come afferma Papi, che confermavano le inclinazioni omosessuali di Caravaggio e che fanno intendere come il tipo di legame tra Cecco e Caravaggio fosse noto e tramandato a Roma.
Se il soprannome rimandava alla discendenza artistica da Caravaggio, poteva anche alludere alla storia a tutti nota tra i due, interpretando la frase nel brano di Symonds “Checco del Caravaggio tis calld among the painters” come “Checco del Caravaggio era noto fra i pittori”, ma anche “fra i pittori veniva chiamato Checco del Caravaggio”, con valore dispregiativo e diffamatorio. Se questa ipotesi fosse fondata, “si potrebbe avanzare che Cecco possa essersi trovato in una situazione di separatezza, se non addirittura di emarginazione”, scrive Papi nel suo saggio. “Ma egli stesso avrebbe potuto, volontariamente, isolarsi e magari cercare di frequentare ambienti (e da questi avere commissioni) in grado di apprezzarlo, di riconoscerne le qualità e di considerarlo come un simile al quale (e solo a lui) assegnare l’esecuzione di immagini dal significato fortemente ambiguo, molto diverse da quelle che potevano concepire gli altri colleghi pittori. Come se Cecco si ponesse oltre (anche umanamente, anche esistenzialmente) e di conseguenza potesse realizzare opere prive di timori censori, forse perché circolanti in ambienti consapevoli. Proprio queste nuove riflessioni su Cecco, sollecitate dalla mostra, mi fanno concludere che Boneri dovesse frequentare una cerchia ristretta di committenti (forse una sorta di cerchio protettivo), in cui è ancora difficile individuare i protagonisti (Montalto, come si è visto, potrebbe essere stato uno di loro)”.
Nel 1992, in occasione del convegno che si svolse in conclusione della grande mostra a Firenze su Caravaggio curata da Mina Gregori, Gianni Papi espose le sue riflessioni in merito alle somiglianze che rintracciò in altre opere di Merisi col modello dell’Amore vincitore, quindi individuò le stesse fattezze nel San Giovanni Battista della Pinacoteca Capitolina, nell’angelo della Conversione di san Paolo nella collezione Odescalchi, nell’Isacco del Sacrificio di Isacco oggi agli Uffizi, nel David del David con la testa di Golia della Galleria Borghese, nel David del David con la testa di Golia del Kunsthistorisches Museum di Vienna e probabilmente è anche il chierichetto urlante del Martirio di san Matteo in san Luigi dei Francesi. Prende il via proprio da questo assunto la mostra all’Accademia Carrara di Bergamo, la prima mostra dedicata in Italia e nel mondo a Cecco del Caravaggio. Il visitatore entra subito in contatto Caravaggio: prima del 28 marzo in mostra era esposto il San Giovanni Battista della Pinacoteca Capitolina, in cui il santo è raffigurato come un adolescente di quindici o sedici anni, nudo, con uno sguardo ammiccante mentre abbraccia maliziosamente la testa di un ariete. L’opera, rientrata a Roma a mostra in corso, è stata poi sostituita dal David con la testa di Golia della Galleria Borghese, opera intrisa di pathos dove, come scrisse nel 1650 Jacomo Manilli per descrivere la tela, “il David con la testa di Golia è del Caravaggio; il quale in quella testa volle ritrarre se stesso; e nel David ritrasse il suo Caravaggino”, quest’ultimo con fattezze ormai da ventenne e con un’espressione dolente e triste. Secondo Papi, Cecco potrebbe “aver seguito Merisi subito a Zagarolo, dove la tela Borghese trova forse il più plausibile luogo di esecuzione; ma è anche possibile che l’opera sia stata dipinta all’inizio del soggiorno napoletano, nei primi mesi di permanenza, tra il 1606 e il 1607”, per l’atmosfera tragica e disperata dell’immagine che riflette il periodo drammatico nella vita di Caravaggio.
Ai due dipinti di Caravaggio segue l’Amor sacro e Amor profano di Giovanni Baglione che Herwarth Röttgen interpretò nel 1992 come una “inequivocabile anche se velata accusa di sodomia del Baglione contro il Caravaggio”, identificando nel volto del demonio le fattezze di Caravaggio e nel ragazzo seminudo a terra un suo giovane amante. Interpretazione che si potrebbe collegare a ciò che Papi ha visto nel soprannome Cecco del Caravaggio, ovvero alla storia nota nell’ambiente romano tra Caravaggio e Cecco. È poi esposto il Ritratto di giovane con colletto a lattuga, opera conservata agli Uffizi che è stata attribuita a Cecco del Caravaggio per il linguaggio riconoscibile nell’esecuzione e nella struttura della gorgiera che trova confronti con elementi di altre sue opere, come la camicia del Flautista dell’Ashmolean Museum di Oxford, il camicione dell’angelo nella Resurrezione o nel colletto del Fabbricante di strumenti musicali della Wellington Collection di Londra; è un’immagine maschile molto simile a quelle a cui ci ha abituato Cecco: secondo Papi vi si riconoscono infatti le sue sembianze, sostenendo quindi che il ritratto sia in realtà il suo autoritratto. Questa immagine è stata ripresa da Bartolomeo Manfredi nel Ritratto di due amici qui esposto, proveniente da collezione privata, in cui la figura maschile ricompare con volto e posa quasi identici, mentre il personaggio a sinistra sarebbe probabilmente, secondo Papi, l’autoritratto di Manfredi. La netta separazione tra i due personaggi farebbe pensare tuttavia che non abbiano posato contemporaneamente, aprendo dunque interrogativi sulla presenza o meno di Cecco a Roma al momento della realizzazione del dipinto. Manfredi è stato inserito da Giulio Mancini nella già citata “schola” di Caravaggio: l’apprendistato nello studio di Caravaggio doveva essere molto diverso da quello delle botteghe fiorentine o romane, poiché gli allievi imparavano a dipingere osservando il maestro e dividendo con lui esperienze di vita e esperienze artistiche.
Degli stretti allievi di Caravaggio faceva parte anche Spadarino, presente in mostra con il Convito degli dei degli Uffizi. Lo Spadarino fu inoltre tra i tre pittori a cui Piero Guicciardini, ambasciatore dei Medici a Roma, aveva commissionato nel 1619 la realizzazione di una pala d’altare ciascuno per decorare la cappella di famiglia in Santa Felicita a Firenze: di queste era nota solo quella di Gerrit van Honthorst, ovvero l’Adorazione dei pastori che nel 1993 fu gravemente danneggiata nella strage dei Georgofili, ma da documenti emersi a pochi anni di distanza dalla pubblicazione dell’articolo di Wiemers circa i pagamenti agli artefici delle pale si è scoperto che le altre due furono realizzate una da Spadarino e l’altra da un Francesco Boneri che Papi nel 1991 rivelò essere Cecco del Caravaggio grazie alla registrazione come “Francesco del Caravaggio” in uno dei documenti. Lo studioso inoltre scoprì nella stessa occasione che la pala d’altare realizzata dall’artista era la Resurrezione (non presente in mostra) oggi conservata all’Art Institute di Chicago, che per primo Longhi attribuì nel 1943 a Cecco. L’opera tuttavia non arrivò mai a Firenze, poiché Guicciardini rimase disorientato davanti all’anticonformismo della pala; se ne liberò vendendola velocemente, forse da subito a Scipione Borghese visto che pochi anni dopo la stessa figurava nella sua collezione. Dal 30 maggio 1620, ovvero dalla data del saldo finale per la Resurrezione, non si hanno più notizie dirette di Cecco e possono essere avanzate solo ipotesi sulla sua vita e sul suo percorso artistico dopo il fallimento della commissione.
Nella sezione successiva sono presentati capolavori di Giovanni Gerolamo Savoldo come l’Adorazione dei pastori della Galleria Sabauda di Torino e l’Adorazione dei pastori della Pinacoteca Tosio Martinengo perché scrive Papi, “mi sono infatti sempre sembrati fortissimi i rapporti della pittura di Cecco con Savoldo, tanto che la pittura del bresciano dovrà essere indicata come una delle matrici fondamentali del linguaggio di Boneri, di un peso non minore rispetto all’influenza esercitata da Merisi. Credo che la ricorrenza di soluzioni stilistiche prossime a Savoldo non si debba tanto alla mediazione di Caravaggio (che non assume ad esempio i passaggi più nordicizzanti del bresciano, mentre questo aspetto colpisce chiaramente Boneri), quanto alla conoscenza diretta di opere dell’artista di Brescia”. I capolavori esposti di Savoldo testimoniano la sua forte influenza su Cecco, “con la precisione dei dettagli, la lumescenza delle stoffe, la tornitura delle mani, degli arti, il colore rossastro della pelle, e con quel costumismo dei primi decenni del Cinquecento, ricco e seducente”, spiega lo studioso. Il linguaggio di Cecco, che si concretizza in un naturalismo audacissimo ma con radici ben piantate in pieno Cinquecento, è frutto dell’intrecciarsi di due esperienze: quella sui dipinti di Savoldo che fa apparire la sua pittura “per molti versi neocinquecentesca sia per le opzioni della moda sia per l’iperrealismo cristallino delle forme e dei colori”, spiega Papi, e l’esperienza diretta con Caravaggio, a cui si devono le ardite innovazioni iconografiche. Ne risulta, con le parole di Papi, “una pittura aspra e tagliente, audacissima e spietata, nuda e cruda, sensuale e antica, che trova in Lombardia le sue fondamenta”. Difficile definire comunque i tempi e i luoghi del contatto con le opere del Savoldo: potrebbe averle viste prima dell’incontro con Caravaggio, anche se forse Cecco era veramente troppo giovane, oppure potrebbe essere tornato per un periodo in Lombardia e a Venezia dopo aver lasciato Caravaggio a Zagarolo o a Napoli, quindi tra il 1606-1607 e il 1611-1612, prima della ricomparsa del pittore in ambito romano, quando nel 1613-1614 partecipò alla decorazione del casino Montalto di Villa Lante a Bagnaia nel gruppo di artisti che lavorava con Agostino Tassi. Quest’ultimo infatti ricorda nel 1619, in occasione di uno dei suoi processi, la presenza di “Ceccho del Caravaggio” in quell’impresa di sei anni prima. Da quella testimonianza si sa che Cecco dormiva nella stessa stanza di Tassi ed è l’unico citato col suo soprannome rispetto agli altri collaboratori, quindi presumibilmente aveva in quell’occasione un ruolo di primo piano nella commissione.
I capitoli seguenti della mostra contano ben diciannove opere di Cecco del Caravaggio: un evento storico, se si pensa che i dipinti noti dell’artista sono circa venticinque, reso possibile da prestiti nazionali e internazionali dai musei di Berlino, Londra, Madrid, Oxford, Varsavia, Vienna, Brescia, Firenze, Milano, Roma, con l’obiettivo di fornire al visitare uno sguardo il più completo e trasversale possibile sulla produzione del pittore attraverso quei capolavori che si sono mostrati fondamentali per la ricostruzione del corpus di opere di Cecco. Tra questi, il Tributo della moneta oggi conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna aggiunto recentemente al catalogo di Cecco grazie a Gerlinde Gruber e che secondo Papi potrebbe far pensare a una collocazione in ambito napoletano (lo studioso è convinto di un soggiorno napoletano di Boneri). Recente aggiunta al catalogo grazie all’apporto di Gianni Papi è anche la Sibilla Eritrea della collezione Pizzi a Venezia: in essa lo studioso ha riscontrato le caratteristiche stilistiche inconfondibili di Cecco, quali le mani poste una sull’altra con le tipiche dita grosse e volumetriche, il mantello rosso con i risvolti di seta dorata, le maniche tagliuzzate secondo una moda che trova confronti ad esempi nelle due versioni di Atene e di Londra del Fabbricante di strumenti musicali. L’Andata al Calvario di Bratislava vede nell’armigero raffigurato di spalle all’estrema sinistra con calze aderentissime un identico rimando all’affresco raffigurante Alessandro Magno che accoglie Dario sconfitto nel casino Montalto in Villa Lante a Bagnaia, e che a sua volta è stato recuperato da Pedro Núñez nella Giaele e Sisara di Dublino.
Fondamentale nella ricostruzione del corpus di Cecco è la Cacciata dei mercanti dal tempio di Berlino: attraverso il sonetto dedicato all’opera da Silos nella sua Pinacotheca dove il dipinto, allora in collezione Giustiniani a Roma, risulta essere di “Checchi à Caravagio”, Longhi nel 1943 collegò al quadro una citazione del pittore rintracciabile nelle Considerazioni di Giulio Mancini. Riconoscendo quindi l’autore in Cecco del Caravaggio, poté attribuire all’artista anche altri dipinti, quali l’Amore al fonte di collezione privata, la Resurrezione dell’Art Institute di Chicago e il Flautista dell’Ashmolean Museum di Oxford. Oltre alla furia di Cristo che terrorizza i mercanti, è da notare nella Cacciata la resa delle materie degli oggetti e degli effetti luministici che li definiscono, ma anche i colori puri, i panneggi, la gestualità influenzati da Savoldo. E inoltre Papi riconosce nella figura del giovane all’estrema sinistra col cappello rosso, abbigliato quasi da dandy, un autoritratto di Cecco e la posizione defilata e l’espressione del volto quasi disgustata fanno intendere che il personaggio faccia parte della scena ma che se ne distacchi. Altro capolavoro in mostra è il San Lorenzo, raffigurato con un’iconografia insolita: vestito con l’abito da arcidiacono di un intenso rosso porpora, il santo è in posa meditativa, con lo sguardo al cielo e le mani incrociate vicino al volto, attorniato da splendidi brani di natura morta che avvicinano stilisticamente il dipinto alle due versioni del Fabbricante di strumenti musicali. Sulla balaustra vi sono un volume, alcuni documenti, da cui pende un sigillo plumbeo con la scritta “DAM/ASO PA/ PA PRI/MO” e una teca circolare metallica con all’interno una sostanza grumosa. Nel suo saggio, Francesca Curti spiega come Cecco avesse affidato la chiave di lettura del dipinto proprio agli oggetti posizionati sulla balaustra: la pergamena, il sigillo di cera rossa di una bolla pontificia, il sigillo plumbeo pendente di Damaso I e il volume, forse un formulario, sono tutti elementi che rimandano alla Cancelleria apostolica. Se si tiene conto che l’edificio della Cancelleria ospita la chiesa di San Lorenzo in Damaso, si può ipotizzare che il santo non raffiguri solo se stesso ma anche la chiesa dalmasiana e che i documenti e il volume siano rappresentazioni allegoriche dell’edificio della Cancelleria. Se infine si tiene conto che all’epoca della realizzazione del dipinto a ricoprire la carica di vicecancelliere della Cancelleria, a cui spettava di diritto anche il titolo di San Lorenzo in Damaso, era il cardinale Alessandro Peretti Montalto per il quale Cecco aveva appena finito l’affresco a Bagnaia, allora si può pensare che il possibile committente del dipinto sia stato proprio quest’ultimo. Montalto si riconosceva infatti come prosecutore dell’operato del santo, avendo voluto improntare la sua missione pastorale nell’assistenza ai bisognosi.
La mostra pone poi il visitatore di fronte a due straordinarî confronti: quello tra le due già citate versioni di Atene e di Londra del Fabbricante di strumenti musicali che vedono pressoché identica la natura morta sul tavolo, mentre si notano differenze nel personaggio, come la mancanza nella versione di Atene del colletto a lattuga, l’attitudine al canto nel dipinto di Atene e la differenza di materiale del cappello (di velluto in quella di Atene e di finta pelliccia con decorazioni in velluto quella di Londra), e il confronto tra il San Giovanni Battista al fonte dalla collezione Pizzi e l’Amore al fonte della Collezione Koelliker (con molta probabilità un frammento di una seconda redazione dell’Amore al fonte che conosciamo integralmente attraverso la tela di collezione privata, non concessa in prestito). Anche la tela Koelliker denota comunque una posa sensuale e provocante del ragazzo che si china verso la fonte per dissetarsi, con una forte connotazione omosessuale.
Presente nella sala anche il Flautista dall’Ashmolean Museum di Oxford, che ha sempre colpito per lo spettacolare brano di natura morta sul tavolo e sugli scaffali. "L’esasperazione naturalistica che circola nelle opere di Cecco (al punto che potremmo parlare in taluni casi di iperrealismo ante litteram) suggerisce che anch’egli, come del resto il suo maestro, possa avere eseguito nature morte autonome“, scrive Papi nel suo saggio in catalogo. ”Al momento non ne conosciamo di sicure, ma rendono più consistente tale circostanza gli straordinari brani di frutta, di strumenti musicali, di oggetti definiti fino al minimo dettaglio", disseminati in dipinti come il Flautista, il San Lorenzo e i Fabbricante di strumenti musicali.
Infine Uomo con coniglio e Ragazza con colomba, oggi conservati a Madrid, provengono entrambi dalla collezione di Elisabetta Farnese, come indicato dal piccolo giglio nel margine inferiore destro. I due dipinti sono stati visti come pendant, ma non ve ne è la certezza e alcuni studiosi sono in disaccordo con questa ipotesi; sono tuttavia prova delle straordinarie capacità pittoriche e anche enigmatiche dell’artista.
Il percorso espositivo prosegue con la volontà da parte dei curatori di illustrare in modo esauriente e con opere importanti i rapporti che molti artisti ebbero con Cecco: oltre alle testimonianze napoletane che fanno pensare alla presenza del pittore nella città partenopea (Filippo Vitale e Louis Finson), più ampia è l’influenza di Boneri in ambito romano, a cominciare da Valentin de Boulogne (sono esposte qui diverse sue opere, di cui notevole è la Morte di Giacinto), ma anche in Gérard Douffet, qui presente con l’Armigero degli Uffizi, in Juan Bautista Maino con il San Matteo e l’angelo, nel Monogrammista RG qui presente con il Suonatore che accorda la chitarra e con l’Incoronazione di spine, in Pedro Núñez del Valle (qui esposto il Martirio di santa Cecilia) che assimilò talmente lo stile di Boneri che in passato alcune opere dello spagnolo furono scambiate come autografe di Cecco. Importante fu inoltre il rapporto con Bartolomeo Cavarozzi (è qui esposta la redazione probabilmente più precoce del Lamento di Aminta) e con Antiveduto Gramatica per la raffigurazione di nature morte con strumenti musicali. Tra le opere più interessanti della penultima sala figura infatti il Concerto di Gramatica che rimanda a quelle scene di concerti che si tenevano nei palazzi del cardinal Del Monte e del cardinal Montalto, fondamentali questi ultimi nelle vicende di Caravaggio e di Cecco.
La mostra termina con un dipinto esemplare di Evaristo Baschenis, la Natura morta del Trittico Agliardi. Gianni Papi ha più volte considerato a partire dal 1992 la possibilità che Baschenis abbia visto alcune opere di Cecco del Caravaggio con nature morte, forse a Bergamo o anche a Roma, e tratto quindi ispirazione per realizzare nature morte con strumenti musicali. Vere composizioni di strumenti musicali, come quella in mostra, che Longhi definiva come “miscellanee di oggetti al traguardo dell’immobilità” sui quali Baschenis “prima cosparge, poi ritoglie a ditate (per maggiore ’inganno’) la polvere sui dorsi, e dai dorsi, dei famosi liuti cremonesi”.
Cecco del Caravaggio. L’Allievo Modello accompagna il visitatore alla scoperta, per quanto ancora siano in corso le ricostruzioni sulla sua vita e sulla sua produzione, di un pittore fuori dagli schemi, talvolta ambiguo nei rimandi erotici, capace di grandi virtuosismi ma anche di novità iconografiche. Un artista che viene presentato attraverso un percorso espositivo ben ragionato che parte dai suoi due “maestri”, ovvero Caravaggio e Savoldo, terminando con gli influssi della sua arte su altri pittori. E nel mezzo la straordinaria occasione di ammirare riunita la maggior parte dei suoi capolavori. È una mostra che è frutto di oltre trent’anni di ricerche, ma che ha potuto contare anche su recenti aggiornamenti. Una bella opportunità per poter trovarsi di fronte a un artista troppo poco noto al pubblico e che questa esposizione ha il merito di far conoscere per la prima volta in questi termini seppur ancora con i limiti del caso. Notevole anche il catalogo che accompagna la mostra, completo di saggi, di schede delle opere, di ipotesi biografiche e di tracce documentarie, che mette per iscritto tutto ciò che c’è da dire finora sulle ricerche e gli studî circa il più stretto allievo e modello di Caravaggio.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.