“Canova. Eterna bellezza”. L'atteso ritorno del maestro veneto nell'Urbe


Recensione della mostra “Canova. Eterna bellezza”. A Roma, Museo di Roma in Palazzo Braschi, dal 9 ottobre 2019 al 15 marzo 2020.

Nel 1787, commentando il mausoleo di papa Clemente XIV che Antonio Canova aveva appena concluso nella Basilica dei Santi Apostoli a Roma, il dotto scrittore e teorico del neoclassicismo Francesco Milizia scriveva in una lettera: “il Canova è un antico, non so se di Atene o di Corinto. Scommetto che se in Grecia o nel più bel tempo di Grecia si avesse avuto a scolpire un papa non si sarebbe scolpito diverso da questo. Desidero che i giovani artisti si mettano sul buon sentiero del Canova e che le belle arti finalmente risorgano”.

Era l’attacco di quello che sarebbe stato, per tutta la durata dell’attività artistica dello scultore, un coro quasi unanime: Canova godé di un’ ammirazione sconfinata, che pochi altri artisti riuscirono a conoscere in vita. Tale popolarità esplose proprio con la realizzazione della tomba di papa Ganganelli, alla quale seguì quella del monumento funebre dedicato a Clemente XIII Rezzonico, collocato in San Pietro, e svelato al pubblico nel 1792. Due commissioni importanti, affidate a un artista non romano e molto giovane, che grazie a esse, poco più che trentenne, poteva dirsi affermato, in un contesto lavorativo molto competitivo.

Canova, originario di Possagno in Veneto, aveva soggiornato nella città papale per la prima volta a partire dal novembre 1779, per un periodo piuttosto breve. L’artista, che aveva finanziato il viaggio con la vendita del suo gruppo scultoreo Dedalo e Icaro, si era recato a Roma per formarsi, per poter finalmente apprezzare dal vivo quelle molte sculture antiche conosciute e studiate presso l’Accademia di Venezia attraverso delle copie. Rientrato in Veneto dopo sette mesi, alla fine del 1780 Antonio tornava a Roma e si fermava in modo stabile, trascorrendovi, complessivamente, più di quarant’anni della sua vita. Proprio il rapporto tra lo scultore e la città costituisce il filo conduttore della mostra Canova. Eterna bellezza, allestita presso Palazzo Braschi nel cuore della capitale, e aperta al pubblico fino al prossimo 15 marzo. In effetti già la scelta del titolo, come conferma lo stesso curatore il professor Giuseppe Pavanello, contiene un chiaro rimando a Roma, la città eterna, a cui finalmente una mostra restituisce il ruolo che ha svolto, nel contesto della narrazione del percorso professionale dell’artista.

L’esposizione, promossa da Roma Capitale e Arthemisia, e organizzata con Zètema, in collaborazione con l’Accademia di San Luca e la Gypsotheca e Museo Antonio Canova di Possagno, si presenta suddivisa in tredici sezioni tematiche, e offre all’osservazione del pubblico oltre 170 pezzi (provenienti da strutture italiane e straniere) tra marmi, gessi, dipinti, modellini in creta, disegni, incisioni, documenti e fotografie.

Sala della mostra Canova. Eterna bellezza
Sala della mostra Canova. Eterna bellezza


Sala della mostra Canova. Eterna bellezza
Sala della mostra Canova. Eterna bellezza


Sala della mostra Canova. Eterna bellezza
Sala della mostra Canova. Eterna bellezza


Sala della mostra Canova. Eterna bellezza
Sala della mostra Canova. Eterna bellezza

Significativamente tra i dipinti che accolgono i visitatori troviamo il ritratto di Pio VI Braschi, che volle la costruzione del Palazzo, di mano del noto ritrattista Pompeo Batoni, e quello di Canova, eseguito dal suo collaboratore Martino De Boni. Il papa che alla fine del Settecento fece erigere l’edificio in cui la mostra è ospitata, e l’artista al quale questa è dedicata.

Nei successivi due ambienti sono esposti ritratti pittorici e scultorei di alcuni dei personaggi più noti che animarono la scena culturale romana negli anni di Canova, Pompeo Batoni, Raphael Mengs, Johann Joachim Winckelmann, Angelica Kaufmann; vi è spazio anche per una coppia di grandi tele di soggetto mitologico realizzate dal pittore scozzese Gavin Hamilton, amico e influente sostenitore di Antonio.

Roma nella seconda metà del XVIII secolo era una città pressoché irrilevante dal punto di vista politico, che tuttavia rivestiva ancora il ruolo di capitale delle arti, anche in virtù dell’inestimabile patrimonio storico-artistico antico che intellettuali e artisti da ogni parte d’Europa accorrevano ad ammirare e a studiare. Tra questi il succitato Winckelmann, l’archeologo e critico d’arte tedesco, padre del Neoclassicismo. Lo studioso arrivò in Italia nel 1755, pochi decenni dopo le clamorose scoperte di Ercolano e Pompei, e si stabilì a Roma per tredici anni, compiendo tuttavia brevi viaggi che lo portarono ad attraversare la Penisola, fino al 1768, anno della morte, che avvenne a Trieste. Winckelmann e Canova non si incontrarono mai, e tuttavia gli scritti del tedesco non rimasero certo sconosciuti allo scultore veneto.

Il recupero della composta perfezione che era propria della statuaria greca (conosciuta all’epoca soprattutto grazie alle copie romane) doveva costituire, secondo Winckelmann, la principale aspirazione dell’arte moderna, la quale solo attraverso il ritorno ai principî di semplicità compositiva, di purezza formale, armonia, equilibrio, perseguiti dai maestri della Grecia classica, poteva ambire alla grandezza.

Tuttavia ciò che l’archeologo raccomandava agli artisti suoi contemporanei era l’imitazione, e mai la mera copia, dei capolavori dell’antichità: esattamente la condotta che Canova avrebbe tenuto anni dopo. “Copie non ne fo”, scrisse al pittore Marcello Bacciarelli che gli aveva chiesto repliche di statue antiche per conto del re di Polonia. Piuttosto, era appropriarsi dello stile degli antichi maestri che interessava allo scultore, “mandarselo in sangue” per poi “farsene uno proprio coll’aver sempre sott’occhio la bella natura” come lui stesso affermava in una lettera indirizzata al francese Quatrèmere de Quincy. E per ottenere ciò, ovviamente, era fondamentale lo studio assiduo delle opere. Così, in una delle sale all’inizio del percorso sono visibili alcuni disegni di Canova che riproducono i Dioscuri del Quirinale, repliche romane di originali bronzei, l’Hermes,all’epoca ritenuto un Antinoo, e il Torso, questi ultimi entrambi detti del Belvedere perché collocati nel celebre Cortile nel Museo Pio-Clementino in Vaticano.

D’altronde l’esercizio per mezzo della riproduzione grafica di opere antiche era considerato alla base della formazione artistica; così accanto agli studi di Canova vediamo numerosi disegni di altri artisti e calchi in gesso, impiegati, questi ultimi, laddove non era possibile accedere agli originali.

Pompeo Batoni, Ritratto di Pio VI (1775 circa; olio su tela, 135 x 98 cm; Roma, Museo di Roma, inv. MR 5669)
Pompeo Batoni, Ritratto di Pio VI (1775 circa; olio su tela, 135 x 98 cm; Roma, Museo di Roma, inv. MR 5669)


Martino De Boni, Ritratto di Antonio Canova (1800-1805; olio su tela, 91 x 74 cm; Roma, Museo di Roma, inv. MR 1410)
Martino De Boni, Ritratto di Antonio Canova (1800-1805; olio su tela, 91 x 74 cm; Roma, Museo di Roma, inv. MR 1410)


Antonio Canova, Studio dai Colossi di Monte Cavallo (inchiostro su carta avorio, 352 x 382 mm; Bassano del Grappa, Museo Civico, inv. B 23.50)
Antonio Canova, Studio dai Colossi di Monte Cavallo (inchiostro su carta avorio, 352 x 382 mm; Bassano del Grappa, Museo Civico, inv. B 23.50)

Seguono due ambienti dedicati ai monumenti funebri ai quali si è accennato all’inizio del presente articolo. Si tratta di una delle sezioni più ricche della mostra, nella quale disegni e modellini in terracotta illustrano gli sviluppi che, partendo da generiche meditazioni sul tema della sepoltura, condussero ai due capolavori giovanili dello scultore. Le commissioni vennero affidate a Canova a breve distanza l’una dall’altra, quindi, almeno per alcuni anni, egli lavorò a entrambi i progetti contemporaneamente. Efficacissime, e molto diverse tra loro, le statue dei pontefici che dominano i monumenti: l’una raffigura Clemente XIV in trono con la mano destra sollevata in un gesto imperioso, mentre l’altra ritrae l’omonimo predecessore Rezzonico inginocchiato in preghiera e spogliatosi del triregno, posto in terra accanto a sé. Da quest’ultima opera è stato tratto il busto in gesso del papa che, esposto in mostra, consente di apprezzare da vicino il vivido realismo con cui è riprodotto il volto grave, dai tratti fortemente irregolari. È uno dei molti gessi che compaiono nel percorso espositivo a sostituire i marmi, spesso, come in questo caso, evidentemente impossibili da muovere.

Più oltre, invece, si incontrano due statue marmoree, un Amorino e una Maddalena penitente, provenienti rispettivamente dall’Ermitage di San Pietroburgo e dai Musei di Strada Nuova a Genova (Palazzo Tursi). Presentate nel medesimo ambiente, le opere sono tuttavia molto diverse nel carattere. L’Amorino ruota con il piedistallo permettendo all’osservatore di ammirarlo nella sua interezza senza doversi muovere, ed è uno dei cinque (contando anche quello custodito presso il Palazzo Comunale di Bologna, recentemente restituito a Canova da Antonella Mampieri) eseguiti dall’artista nel corso della sua carriera. La scultura, che lo stesso Canova considerava la migliore tra le proprie di medesimo soggetto, è un felicissimo esempio della sua predilezione e del suo talento per la realizzazione di statue raffiguranti giovani corpi nudi, coppie di innamorati o singoli personaggi, declinazioni di quella tendenza al leggiadro e al grazioso che fu alla base di alcune delle critiche mosse all’artista dallo storico dell’arte Karl Ludwig Fernow, tra i pochissimi suoi contemporanei a non amarlo particolarmente. Scrisse infatti Fernow, nel 1806, che allo scultore di Possagno “riesce solo ciò che è tenero, piacevole, giovanile […] mentre per lo più non riescono bene i suoi lavori di figure significanti, energiche ed eroiche, per la ragione che sono estranei alla sfera del suo ingegno e del suo modo di sentire”.

Di fronte alla statua è inoltre esposto un Eros di II secolo d.C., a suggerire quel dialogo tra le opere di Canova e i modelli antichi al quale, come vedremo, è dato ampio spazio nella sala successiva.

Agli stessi anni della statua dell’Ermitage è riferibile anche la Maddalena. Questa suggestiva scultura, la prima dell’artista ad approdare in Francia, in mostra appare posizionata di spalle davanti uno specchio, esattamente come si poteva ammirarla nell’Ottocento nel palazzo parigino di Giovanni Battista Sommariva. Lo scopo era (ed è), evidentemente, quello di renderne visibile anche la sensuale schiena nuda.

Come il soggetto richiedeva, la santa venne raffigurata in tutta la sua raccolta contrizione, dotata di teschio e crocefisso, accovacciata, con il capo reclinato e le lacrime che le rigano il viso, e l’intensità

del sentimento che esprime risulta quasi accresciuta dall’accostamento al ritratto del giovane dio pagano, di una bellezza, al contrario, altera e imperturbabile.

Nel successivo passaggio del percorso espositivo, due gessi tratti da opere antiche sono giustapposti ad altrettanti gessi da sculture canoviane: l’Apollo del Belvedere e il Gladiatore Borghese accanto al Perseo trionfante e al Creugante. Tali riproduzioni in gesso furono realizzate da Canova e da suoi collaboratori, agli inizi del XIX secolo, su richiesta del conte Alessandro Papafava che voleva collocarle nel salone del suo palazzo padovano. Ed è veramente significativa la scelta di ripresentare il loro accostamento in questo contesto, almeno per due ragioni. La prima è che così facendo si è riproposto un allestimento storico, si sono mossi i gessi lasciando però inalterato il rapporto che li lega, e che è stato all’origine della loro stessa realizzazione, permettendo così di apprezzare, anche fuori dal palazzo, tanto le opere quanto l’intuizione del committente. La seconda ragione è che proprio questo confronto tra modelli antichi e creazioni moderne, voluto da Papafava, è espressione di quello che nei pannelli espositivi è definito “il teorema perfetto del gusto neoclassico”, e illustrazione del principio che fu alla base del movimento culturale: l’emulazione degli antichi maestri, il recupero dello spirito che informava le loro creazioni.

Tra l’altro a una delle quattro sculture di cui qui è presentato il gesso, l’Apollo del Belvedere, probabile copia romana di un bronzo greco di IV secolo a.C., Winckelmann dedicò alcune delle pagine più ispirate della sua produzione critica, contribuendo a farne uno dei principali modelli di riferimento per gli artisti che avevano accolto i suoi precetti, tra i quali, evidentemente, Canova. Nel suo testo Storia dell’arte nell’antichità, edito nel 1764, l’archeologo così descrisse il marmo ancora oggi custodito in Vaticano: “la statua di Apollo rappresenta il più alto ideale dell’arte tra le opere antiche che si sono conservate fino a noi. L’artista ha impostato la sua opera su di un concetto puramente ideale e si è servito della materia solo per quel tanto che era necessario a esprimere il suo intento e a renderlo visibile”. E più avanti osserva che “qui nulla ricorda la morte né le miserie terrene. Né vene né tendini riscaldano e muovono questo corpo, ma uno spirito celeste, simile a un placido fiume, riempie tutti i suoi contorni”. Fatica, apprensione e turbamento non trovano posto in questa raffigurazione di Apollo, che pure ha appena ucciso il temibile Pitone, solo quello che Winckelmann interpreta come un lieve moto di sdegno che aleggia sul volto, senza comunque intaccare la quiete che emana dall’armoniosa immagine marmorea del dio.

A seguito del Trattato di Tolentino, imposto nel 1779 dalla Francia allo Stato Pontificio, l’Urbe fu spogliata di molte celebri opere, e tra queste anche il capolavoro del Belvedere. Così, all’inizio del secolo successivo, il neoeletto papa Pio VII decise di reagire e di dimostrare a Napoleone che Roma era in grado di risollevarsi anche dopo le gravissime spoliazioni subite, e che, come scrisse Leopoldo Cicognara, “se possono rapirsi le sostanze, le vite, i monumenti, non si carreggia il genio degli studi e dell’arti, unica indigena risorsa del nostro suolo”. Nel 1802, quindi, il pontefice acquistò il Perseo Trionfante che Canova aveva eseguito l’anno prima, per collocarlo sul piedistallo lasciato vuoto dall’Apollo sottratto. E lì la scultura rimase fino al 1815, anno del ritorno a Roma, grazie all’efficiente lavoro diplomatico svolto dallo stesso artista veneto, di una consistente parte delle opere precedentemente sequestrate, tra le quali l’Apollo. In seguito a questo importante recupero, il Perseo venne spostato per restituire alla statua del dio il posto che era stato suo, e collocato insieme ad altre due sculture canoviane, i Pugilatori, nel Gabinetto di Canova, sempre all’interno del Cortile Ottagono, dove si trovano tutt’ora.

Quindi nel salone di palazzo Papafava e, al momento, in una sala di Palazzo Braschi, è possibile apprezzare l’uno accanto all’altro il gesso dell’opera antica e quello del suo temporaneo sostituto. Ovviamente la scultura di Canova (che, come si è accennato, fu realizzata prima che Pio VII la acquistasse e che quindi non era stata concepita dal suo autore per prendere il posto dell’altra) rappresentò molto più che un mero sostituto: essa costituì la conferma definitiva delle grandi capacità dello scultore, e dell’enorme considerazione di cui ormai godeva. Inoltre, il Perseo canoviano, che fu eseguito proprio guardando alla statua dell’Apollo del Belvedere, è un efficacissimo esempio di quella pratica dell’imitazione dell’antico, che non si riduce mai a pura e semplice copia. Se, infatti, le analogie tra le due statue sono immediatamente evidenti, nella postura e nell’intenzione espressiva, importanti sono anche le differenze (al netto di quelle derivanti dal fatto che si tratta di due soggetti mitologici diversi), che cogliamo principalmente nella posa invertita delle gambe, nella resa della capigliatura, e soprattutto nell’andamento della clamide, e che fanno del Canova un interprete anziché un copista.

Accanto a questo confronto Apollo del Belvedere-Perseo Trionfante, ne troviamo un altro: Gladiatore Borghese-Creugante. Ancora la riproduzione di un marmo antico, databile al I secolo a.C. ed eseguito dall’efesino Agasias, e quella di una creazione di Antonio Canova, questa volta raffigurante un pugilatore. Siamo nel campo delle figure che Canova in una lettera indirizzata a Quatremère de Quincy definì “di più forte carattere”, in cui è centrale lo svolgimento di un’azione vigorosa, violenta, quel campo in cui, secondo Fernow, Canova non eccelleva. A proposito di questa opinione del critico tedesco, in un saggio contenuto nel catalogo della mostra, il professor Antonio Pinelli osserva che “è difficile non ammettere che la tesi di Fernow colpisca in qualche modo nel segno”, ed entrando nel merito delle opere di Canova scrive: “delle sue statue ‘eroiche’, solo il Perseo ha l’irreprensibile felicità dei suoi massimi capolavori. Gli altri gruppi plastici, pur eccezionali, nelle pose eccessive e sforzate, nel loro ostentato virtuosismo, sembrano tradire l’affanno e il disagio dello scultore che fa violenza a se stesso”.

Il gesso della statua Borghese (che oggi si trova al Louvre) contribuì, assieme ad altri marmi antichi lungamente studiati e più volti disegnati dall’artista, all’ideazione della statua canoviana. Il Creugante venne scolpito da Canova a partire dal 1795, insieme con un’altra scultura, il Damosseno. Le due opere, concepite per una collocazione ravvicinata, ritraggono i pugilatori che, secondo il racconto di Pausania, si sarebbero affrontati durante i giochi Nemei, ed entrambe vennero acquistate da Pio VII insieme al Perseo, per essere collocate con questo nel Cortile in Vaticano (oggi sono nel succitato Gabinetto di Canova).

Più avanti in mostra si incontra un altro gesso del Creugante, questa volta affiancato a quello tratto dalla statua dell’altro pugilatore. Qui è possibile osservare la coppia di atleti da vicino con l’ausilio di piccole torce; è riproposta, quindi, un tipo di fruizione già prevista dalla Gypsotheca e Museo Antonio Canova (da cui provengono i due gessi, come molti altri in mostra) e suggerita dallo stesso scultore, che era solito mostrare i suoi lavori, ai molti che accorrevano per visitarne lo studio, al buio a lume di candela, nella convinzione che solo così fosse possibile apprezzare a pieno i particolari e la raffinatezza dell’esecuzione.

Ambito di Antonio Canova (Giovanni Tognoli?), Clemente XIV (matita e acquerello grigio su carta bianca ingiallita, 582 x 465 mm; Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. cl. III, 1472)
Ambito di Antonio Canova (Giovanni Tognoli?), Clemente XIV (matita e acquerello grigio su carta bianca ingiallita, 582 x 465 mm; Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. cl. III, 1472)


Antonio Canova, Clemente XIV (1783 circa; terracotta, 45 x 40 x 24 cm; Possano, Gypsotheca e Museo Antonio Canova, inv. 13)
Antonio Canova, Clemente XIV (1783 circa; terracotta, 45 x 40 x 24 cm; Possano, Gypsotheca e Museo Antonio Canova, inv. 13)


Antonio Canova, Busto di Clemente XIII (post 1792; gesso, 131 x 91 x 80 cm; Carrara, Accademia di Belle Arti, inv. Ant. 83)
Antonio Canova, Busto di Clemente XIII (post 1792; gesso, 131 x 91 x 80 cm; Carrara, Accademia di Belle Arti, inv. Ant. 83)
Antonio Canova, Amorino alato (1794-1797; marmo, 142 x 54,5 x 48 cm; San Pietroburgo, The State Hermitage). © The State Hermitage Museum, 2019 Foto di Alexander Koksharov
Antonio Canova, Amorino alato (1794-1797; marmo, 142 x 54,5 x 48 cm; San Pietroburgo, The State Hermitage). © The State Hermitage Museum, 2019 Foto di Alexander Koksharov


Antonio Canova, Maddalena penitente (1796; marmo, 95 × 70 × 77 cm; Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Tursi, inv. PB 209)
Antonio Canova, Maddalena penitente (1796; marmo, 95 × 70 × 77 cm; Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Tursi, inv. PB 209)


Arte romana, Statua di Eros tipo Centocelle (II secolo d.C.; marmo bianco a grana fine, altezza 165 cm; Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 6353)
Arte romana, Statua di Eros tipo Centocelle (II secolo d.C.; marmo bianco a grana fine, altezza 165 cm; Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 6353)


Formatore dell'ambito di Antonio Canova, Apollo del Belvedere (1806; gesso, 230 × 130 × 90 cm; Padova, palazzo Papafava, collezione privata)
Formatore dell’ambito di Antonio Canova, Apollo del Belvedere (1806; gesso, 230 × 130 × 90 cm; Padova, palazzo Papafava, collezione privata)


Antonio Canova, Perseo trionfante (1806; gesso, 230 × 130 × 90 cm; Padova, palazzo Papafava, collezione privata)
Antonio Canova, Perseo trionfante (1806; gesso, 230 × 130 × 90 cm; Padova, palazzo Papafava, collezione privata)


Formatore dell'ambito di Antonio Canova, Gladiatore Borghese (1806; gesso, 157 × 132 × 66 cm; Padova, palazzo Papafava, collezione privata)
Formatore dell’ambito di Antonio Canova, Gladiatore Borghese (1806; gesso, 157 × 132 × 66 cm; Padova, palazzo Papafava, collezione privata)


Antonio Canova, Creugante (1806; gesso, 218 × 125 × 66 cm; Padova, palazzo Papafava, collezione privata)
Antonio Canova, Creugante (1806; gesso, 218 × 125 × 66 cm; Padova, palazzo Papafava, collezione privata)

Rimanendo nell’ambito di sculture canoviane di “carattere forte”, il percorso espositivo non tralascia di trattare del celeberrimo gruppo Ercole e Lica, custodito proprio a Roma presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna. Di nuovo a proposito dell’osservazione critica di Fernow, più volte menzionata, scrive ancora Pinelli che “a cavallo del secolo lo stesso Canova, pungolato e quasi ossessionato da questa obiezione, fece di tutto per smentirla con i fatti, affrontando temi sempre più drammatici, violenti e perfino truculenti”. Così nel 1815, finalmente terminato dopo una lunga gestazione iniziata vent’anni prima, il gruppo scultoreo raffigurante l’eroe mitologico e lo sventurato Lica, fu consegnato all’acquirente Giovanni Torlonia.

In mostra il capolavoro della GNAM è richiamato da una tela, secondo alcuni eseguita da Martino de Boni, secondo altri dallo stesso Canova, che ci restituisce il momento in cui lo scultore mostrò alla famiglia Torlonia il disegno dell’opera a cui stava lavorando, da un bronzo di dimensioni ridotte, da un disegno e da incisioni. Queste ultime sono particolarmente interessanti; eseguite una da Giovanni Folo, quella con visione frontale, e l’altra da Pietro Fontana (artista prediletto da Canova) che ritrasse l’opera vista da dietro, le stampe sono un esempio dell’uso del maestro veneto, avveduto imprenditore, di far tradurre in incisioni le sue statue, incisioni che poi venivano fatte circolare così da pubblicizzare la propria abilità creativa.

Molti erano gli artisti e le maestranze con cui Canova collaborava: incisori, appunto, ma anche pittori, formatori di gessi, scultori, falegnami, lustratori, e tutti affollavano il suo studio in vicolo delle Colonnette. Una consistente sezione della mostra è dedicata proprio al racconto dell’attività di questo studio, che peraltro, dopo il clamoroso successo ottenuto dai monumenti funebri creati da Antonio per Clemente XIV e Clemente XIII, divenne una vera meta di pellegrinaggio di curiosi, conoscitori d’arte e viaggiatori giunti a Roma per il loro Grand Tour.

In un quadretto proveniente dal Museo Civico di Asolo ed eseguito da Roberto Roberti è ritratto l’edificio visto dall’esterno; si tratta di un’opera molto interessante che documenta l’aspetto originario dello studio, sui cui muri Canova aveva fatto inserire vari pezzi archeologici (in parte scomparsi).

A dirigere e amministrare l’atelier fu lo scultore, e carissimo amico di Canova, Antonio D’Este, che aveva anche il delicato compito di selezionare i marmi che sarebbero poi stati utilizzati per le sculture. Di questo artista l’esposizione presenta alcune opere, tra cui il gesso che è appartenuto al senatore Giovanni Falier, tratto da una peculiarissima erma raffigurante Antonio Canova e sul lato, in piccolo, lo stesso D’Este.

Altro personaggio rilevante, molto vicino al maestro veneto e suo stretto collaboratore, fu il fratello per parte di madre, l’abate Giovanni Sartori, che compare in mostra ritratto insieme ad Antonio, in una tela di Martino De Boni prestata dal Museo Civico di Bassano del Grappa. L’ecclesiastico, che visse per molti anni accanto al fratello, ne fu segretario e venne nominato suo erede universale. Così, alla morte dell’artista, Giovanni assunse la direzione dello studio facendo completare i marmi rimasti incompiuti, per poi disporre la vendita delle proprietà romane. Fu venduto anche l’edificio che ospitava l’atelier e vennero trasferiti a Possagno tutti i beni mobili rimasti lì, tra cui i gessi. Così nacque la Gypsotheca, accanto alla casa natale di Canova, anch’essa riutilizzata come luogo espositivo per incisioni, disegni, dipinti e libri.

Numerosi gessi sono presentati in questa parte del percorso espositivo, tra di essi ben due relativi alla scultura Endimione dormiente, conservata a Chatsworth House in Inghilterra. Infatti compaiono esposti sia il modello utilizzato per realizzare la statua, sia il calco che da questa è stato tratto, in modo tale da permettere al pubblico di cogliere le differenze che intercorrono tra i prodotti delle diverse fasi del lavoro creativo.

Martino De Boni (?), Antonio Canova mostra il disegno di Ercole e Lica alla famiglia Torlonia (1805-1806; olio su tela, 30 × 36,7 cm; Roma, Museo di Roma, inv. Dep GAA 130, FN 17690)
Martino De Boni (?), Antonio Canova mostra il disegno di Ercole e Lica alla famiglia Torlonia (1805-1806; olio su tela, 30 × 36,7 cm; Roma, Museo di Roma, inv. Dep GAA 130, FN 17690)


Pietro Fontana, Ercole e Lica (di schiena) (1811-1812; acquaforte e bulino, 527 × 391 mm; Roma, Museo di Roma, inv. MR 16340)
Pietro Fontana, Ercole e Lica (di schiena) (1811-1812; acquaforte e bulino, 527 × 391 mm; Roma, Museo di Roma, inv. MR 16340)


Antonio Canova, Busto di Antonio Canova (1832; marmo, 50,5 × 23 × 21 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, inv. 15935)
Antonio Canova, Busto di Antonio Canova (1832; marmo, 50,5 × 23 × 21 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, inv. 15935)


Antonio Canova, Endimione dormiente (1819; gesso, 183 x 85 x 95 cm; Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova). © Fondazione Canova onlus - Gypsotheca e Museo Antonio Canova | Archivio Fotografico interno, Foto di Lino Zanesco
Antonio Canova, Endimione dormiente (1819; gesso, 183 x 85 x 95 cm; Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova). © Fondazione Canova onlus - Gypsotheca e Museo Antonio Canova | Archivio Fotografico interno, Foto di Lino Zanesco

Canova procedeva a partire da un bozzetto in argilla, spesso anticipato da disegni o dipinti, per poi realizzarne uno della grandezza che avrebbe avuto la statua; su quest’ultimo i suoi collaboratori colavano del gesso per ricavare la forma che, una volta rimossa e distrutta l’argilla, veniva riempita di gesso liquido, e quando questo si era solidificato, aperta e asportata. Concluso tale procedimento si otteneva il modello, sul quale venivano fissati dei chiodini di bronzo, che infatti vediamo su uno dei due gessi dell’Endimione dormiente (e su molti altri esposti in mostra), e che costituivano dei fondamentali punti di riferimento riportati, con squadre e compassi, sul blocco di marmo. La lavorazione del marmo veniva affidata da Canova ai collaboratori che alla fine lasciavano, rispetto al gesso, un sottile strato di materia in più; su questo interveniva il maestro, il quale, anche apportando modifiche rispetto al modello, dava “l’ultima mano” terminando l’opera. Una delle testimonianze che abbiamo circa tale procedimento dell’artista ci è fornita da Leopoldo Cicognara che nella sua Biografia di Antonio Canova scrive: “E convien dire che non erano in uso allora le pratiche che a poco a poco egli stesso andò introducendo, cioè di valersi delle braccia subalterne per digrossare i marmi, fino all’ultimo strato di superficie […] l’ultima mano fu sempre però da lui posta alle opere sue, portando con questa i sassi, a quella morbidezza, a quella dolcezza di contorni, a quella finezza di espressione, che inutilmente si è cercata e difficilmente si troverà nelle opere de’ suoi contemporanei”.

Successivamente, era possibile trarre dalla scultura delle forme utilizzate per produrre, ancora tramite colatura di gesso, dei calchi. Questi, quindi, potevano essere ottenuti sia dal modello di partenza che dall’opera finita.

Splendidi i gessi Ebe e Amore e Psiche stanti tratti dalle statue conservate, rispettivamente, presso la Neue Nationalgalerie di Berlino e a San Pietroburgo nell’Ermitage. In particolare l’Ebe, insieme al calco qui esposto ricavato dalla scultura marmorea Maddalena penitente anch’essa presente in mostra e di cui si è già detto, fu realizzato nello studio di Canova su richiesta di Papafava nello stesso anno, il 1806, in cui furono eseguiti i gessi del Perseo trionfante e del Creugante. Come osserva Pavanello nella scheda di catalogo relativa al calco di Ebe, “si direbbe che, una volta evidenziato con opere emblematiche il rapporto di Canova con l’Antico nelle due coppie Creugante/Perseo-Gladiatore Borghese/Apollo del Belvedere, si sia voluto testimoniare in casa Papafava la dimensione della grazia - in Ebe - e del patetico - nella Maddalena penitente”.

Inoltre, anticipa questa sezione del percorso espositivo una sala interamente dedicata ai disegni dello scultore veneto; in questo modo si consente al pubblico di entrare in contatto anche con i passaggi iniziali del processo creativo: la meditazione su un dato tema e l’ideazione del soggetto.

Si è già accennato alla rilevanza del rapporto di Canova con Roma, luogo in cui trascorse tanta parte della sua vita, si formò, e consolidò la sua carriera, e al fatto che la mostra ha scelto di porlo al centro della narrazione. Non si poteva, quindi, non trattare di uno sconvolgimento tanto radicale come l’occupazione francese della città, che ha avuto sullo scultore, peraltro convintamente anti-giacobino, un notevole impatto. Così, lungo il percorso incontriamo diversi disegni e incisioni che raccontano gli avvenimenti che condussero alla prima occupazione, iniziata a febbraio del 1798, e la conseguente nascita della Repubblica Romana; tra le acqueforti, una di Antonio Poggioli raffigura la firma del Trattato di Tolentino, mentre un’altra eseguita da Alessandro Mochetti ritrae Pio VI mentre lascia Roma scortato dai Dragoni francesi. A questi fatti lo scultore veneto reagì partendo nel maggio dello stesso anno, per tornare solo nel 1799, in seguito alla caduta della Repubblica a opera dell’esercito borbonico.

Tuttavia più tardi, quando nel 1809 Roma fu annessa all’Impero francese e anche papa Pio VII, come il suo predecessore, venne esiliato, Canova non lasciò la città, rimase e collaborò con il nuovo regime. L’anno successivo venne eletto Principe dell’Accademia di San Luca e in mostra si può vedere la lettera con cui, da Firenze, raggiunto dalla notizia della sua nomina, ringraziava i membri dell’istituto per l’onore che gli veniva riconosciuto.

È anche esposto lo statuto emanato nel 1812, che reca le firme di Canova e di Napoleone, con cui l’Accademia viene dotata di un ordinamento didattico, e investita di competenze in materia di scavo, restauro e tutela dei monumenti.

Già ne 1802 a Canova era stato affidato un ruolo di grande rilievo da Pio VII, del quale un anno dopo realizzò il busto ritratto esposto in mostra e proveniente dalla Promoteca Capitolina. Il pontefice, infatti, aveva nominato Antonio Ispettore delle Belle Arti in Roma e nello Stato Pontificio, con vastissimi poteri su tutte le opere d’arte, compreso il veto alle loro esportazioni.

Subito dopo la sua nomina, l’artista acquistò di tasca sua ottanta cippi antichi, tra cui uno qui visibile, provenienti dalla collezione Giustiniani, per farne dono ai musei papali, e rimpinguarne così le collezioni. Ma l’impresa più ragguardevole che Canova compì per il patrimonio artistico di Roma, e non solo, fu il recupero di una parte delle opere sottratte dalla Francia per mezzo del Trattato di Tolentino.

Lo scultore, nel 1815, dopo la caduta dell’impero napoleonico, venne inviato a Parigi (dove era già stato per ritrarre Napoleone e altri membri della casa imperiale) su suggerimento del cardinale Consalvi, a cui negli anni Venti Bertel Thorvaldsen eseguì il ritratto marmoreo esposto in mostra; tornò dopo quattro mesi, con circa un terzo di ciò che era stato sottratto dai francesi, comunque più di quanto fosse stato lecito sperare.

In un’altra occasione, invece, Canova fallì nei suoi propositi. Infatti nel 1820, nonostante la strenua opposizione sua e del camerlengo Bartolomeo Pacca (il quale di lì a breve avrebbe promulgato un importantissimo editto di tutela del patrimonio artistico pontificio), Pio VII autorizzò la vendita della scultura antica nota come Fauno Barberini all’Imperatore d’Austria Francesco I che lo acquistò per il cognato Ludovico I. Quindi la statua antica lasciò Roma, e ancora oggi si trova conservata presso la Glyptothek di Monaco di Baviera. Tuttavia, fortunatamente, furono tratti diversi calchi dalla scultura prima della sua esportazione, e uno di questi, eseguito ai primi dell’Ottocento e proveniente dall’Accademia di Belle Arti di Bologna, è presentato nel percorso espositivo. Accanto al gesso vediamo anche un busto marmoreo del cardinal Pacca realizzato dallo scultore Francesco Romano Laboureur, in prestito dall’Accademia Nazionale di San Luca.

Avvicinandoci al termine del percorso espositivo incontriamo un ambiente dedicato alle ultime fatiche di Canova. Spicca, qui, un gesso tratto nel 1818 dal Cenotafio degli ultimi Stuart, raffigurante uno dei due splendidi geni funerari tanto ammirati da Stendhal, che dopo lo morte dello scultore furono censurati per ordine di Leone XII, insieme all’altro nudo del monumento funebre a Clemente XIII Rezzonico, con l’applicazione di vesti, poi fortunatamente rimosse.

Vediamo anche due modelli di quella che avrebbe dovuto essere e non fu mai, la gigantesca scultura

della Religione con cui Canova avrebbe voluto omaggiare il rientro di Pio VII a Roma dopo la caduta di Napoleone. L’opera, una filiazione della statua già eseguita per il mausoleo Rezzonico, che nelle intenzioni dell’artista avrebbe dovuto raggiungere gli otto metri ed essere posta in San Pietro, venne osteggiata dai canonici della Basilica che si opposero al suo collocamento nell’edificio, e non fu mai realizzata, cosicché Canova dirottò i fondi da lui stanziati per la statua alla costruzione del Tempio di Possagno.

Infine prima di raggiungere il pezzo che conclude enfaticamente la mostra, la Danzatrice con le mani sui fianchi, si possono ammirare alcune fotografie con cui Mimmo Jodice, negli anni Novanta, ha ritratto le opere più iconiche di Canova. Davvero una scelta interessante quella di presentare questi scatti carezzevoli dell’artista napoletano, capaci di consegnare alla nostra osservazione sculture rielaborate, ricreate con l’immaginazione, grazie alla quale usando parole dello stesso Jodice “i templi, le strade e le stesse statue rivivono, il tempo non esiste più, passato e presente diventano una cosa sola”.

Antonio Canova, Ebe (1806; gesso, 160 × 54 × 60 cm; Padova, palazzo Papafava, collezione privata)
Antonio Canova, Ebe (1806; gesso, 160 × 54 × 60 cm; Padova, palazzo Papafava, collezione privata)


Antonio Canova, Amore e Psiche stanti (gesso, 148 x 68 x 65 cm; Veneto Banca spa in L.C.A.). Foto di Andrea Paris
Antonio Canova, Amore e Psiche stanti (gesso, 148 x 68 x 65 cm; Veneto Banca spa in L.C.A.). Foto di Andrea Paris


Bertel Thorvaldsen, Busto del cardinale Ercole Consalvi (1824; gesso, 76 × 60 × 34 cm; Roma, Museo di Roma, inv. MR 43584)
Bertel Thorvaldsen, Busto del cardinale Ercole Consalvi (1824; gesso, 76 × 60 × 34 cm; Roma, Museo di Roma, inv. MR 43584)


Formatore romano, Fauno Barberini (prima del 1811; gesso, 200 x 130 x 130 cm; Bologna, Accademia di Belle Arti di Bologna - Patrimonio Storico). Foto di Luca Marzocchi
Formatore romano, Fauno Barberini (prima del 1811; gesso, 200 x 130 x 130 cm; Bologna, Accademia di Belle Arti di Bologna - Patrimonio Storico). Foto di Luca Marzocchi


Antonio Canova, Monumento degli ultimi Stuart (1816-1817; gesso, 69 × 58 × 12 cm; Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova, inv. 255)
Antonio Canova, Monumento degli ultimi Stuart (1816-1817; gesso, 69 × 58 × 12 cm; Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova, inv. 255)


Antonio Canova, La Religione (1814-1815; gesso, 110 x 116 x 55 cmM Roma, Accademia Nazionale di San Luca)
Antonio Canova, La Religione (1814-1815; gesso, 110 x 116 x 55 cmM Roma, Accademia Nazionale di San Luca)


Antonio Canova, Danzatrice mani sui fianchi (1806-1812; marmo, 179 x 76 x 67 cm; San Pietroburgo, The State Hermitage). © The State Hermitage Museum, 2019, Foto di Alexander Lavrentyev
Antonio Canova, Danzatrice mani sui fianchi (1806-1812; marmo, 179 x 76 x 67 cm; San Pietroburgo, The State Hermitage). © The State Hermitage Museum, 2019, Foto di Alexander Lavrentyev

Nell’ultima sala la Danzatrice, proveniente anch’essa dall’Ermitage come l’Amorino e anch’essa posta su un piedistallo che ruota, si riflette negli specchi che ricoprono le pareti dell’ambiente.

La scultura fu eseguita tra il 1805 e il 1812 su commissione della prima moglie di Napoleone, Joséphine de Beauharnais, alla morte della quale fu acquisita dallo zar Alessandro I, e rappresenta la prima di una serie di tre figure di ballerine, frutto dell’interesse dell’artista per un soggetto che è espressione per eccellenza della grazia, e affrontato anche in disegni e tempere in cui si riscontra una notevole varietà di movimenti e pose di ballo.

Esposta al Salon di Parigi nell’anno del suo completamento, riscosse, secondo la testimonianza della stessa Joséphine, un successo clamoroso.

Nelle sue Memorie di Antonio Canova lo scultore Antonio D’Este, del quale si è parlato, osserva che se il maestro veneto non si fosse mosso dalla sua città natale “non sarebbe diventato che un comunale artista, non ostante la svegliatezza del suo ingegno” perché “le magnificenze di Roma che ingrandirono il genio di Raffaele, di Michelangiolo e di altri classici, elevarono e sublimarono anche la mente del Canova”. In un momento di grande interesse per la figura di questo artista, di cui è prova la realizzazione contemporanea di altri due importanti eventi espositivi a lui dedicati a Milano e la precedente mostra del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, era quindi necessario che finalmente una mostra raccontasse, a Roma, la Roma di Canova. E nel farlo, l’esposizione presenta un percorso narrativo molto ricco e ben strutturato, supportato da pannelli espositivi chiari (e per chi volesse approfondire anche da un’audioguida acquistabile all’ingresso), che delinea in modo efficace la figura professionale di un artista, la cui rivalutazione critica è cosa abbastanza recente.

 


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