Attualità e inattualità delle bandiere. Luca Bertolo e Flavio Favelli a Castelnuovo Magra


Fino al 30 novembre, l’azienda La Colombiera di Castelnuovo Magra ospita la seconda edizione di “Poesia della terra”, rassegna di arte contemporanea: quest’anno espongono due nomi di rilievo della scena italiana, Luca Bertolo e Flavio Favelli, con opere sul tema della bandiera.

Sventola svogliata una bandiera bianca in mezzo alle vigne, issata su di un pennone sorvegliato dall’alto, dalla torre del Castello dei Vescovi di Luni che fissa il borgo di Castelnuovo Magra e tiene d’occhio chi s’agita giù sulla piana e sulle prime propaggini delle Colline del Sole, rinverdite dalla pioggia insistente d’un autunno umido, caldo, piovoso, noioso. La bandiera è di Luca Bertolo: da almeno una decina d’anni, una serie di bandiere dipinte infittisce la sua già copiosa produzione, e alcune delle più recenti sono arrivate adesso sulla piana lunense, assieme a quelle di Flavio Favelli, per tappezzare gli spazî della Colombiera, azienda agricola che vuole avviare, per il secondo anno consecutivo, un “laboratorio di ricerca”, come definizione ufficiale vuole, sull’arte contemporanea. La poesia della terra è il titolo della rassegna, e appena si rivolge lo sguardo al vigneto della Colombiera si coglie immediatamente il senso di quella poesia che quest’anno sembra dare una voce, un’anima, persino un carattere alla terra.

Sul campo sventola bandiera bianca. Da lontano pare un pezzo di stoffa qualsiasi, uno straccio, uno scampolo candido piantato in mezzo ai filari. Da vicino si notano sfilacciati sui bordi rimasugli di verde e di rosso. Verde felce, bianco brillante, rosso scarlatto, i colori della bandiera italiana fissati per decreto del presidente del consiglio dei ministri. Brandello di bandiera italiana diventata bandiera bianca, intesa volgarmente come bandiera di chi s’arrende, più propriamente vessillo di chi in guerra non vuol più combattere ed è disposto ad avviare trattative, a far finire le ostilità con un cessate il fuoco, con una soluzione che metta tutti d’accordo, o con una resa. L’Italia s’è arresa? La terra s’è arresa? Non vuol più combattere? Vuole cominciare a negoziare? E con chi?

Luca Bertolo, Bandiera Bianca (2024)
Luca Bertolo, Bandiera Bianca (2024)
Bandiera a quattro mani di Luca Bertolo e Flavio Favelli
Bandiera a quattro mani di Luca Bertolo e Flavio Favelli

Mentre parlo con Luca Bertolo del suo lavoro sulle bandiere, il ricordo torna alla primavera del coronavirus. Ricordiamo tutti, e bene, il patriottismo maldestro da Covid-19: quel patriottismo da ipermercato, quel patriottismo pronto uso, quel patriottismo alla volemosebbene che s’esprimeva con le bandiere attaccate alle finestre dei condominî, con l’appuntamento ore 12 ore 15 ore 18 per cantare l’inno di Mameli dal terrazzo, coi cartelloni gonfi d’unicorni e arcobaleni che ripetevano tutte quelle banalità, “andrà tutto bene”, “ce la faremo”, “ne usciremo migliori”, pareva che lo stagista di redazione addetto a rispondere alla posta del cuore si fosse guadagnato in ventiquattr’ore sul campo la promozione a regista del sentimento nazionale da pandemia. Patriottismo cialtronesco, nel senso labranchiano del termine, ovvero nutrito dall’iperconvinzione che radunarsi attorno al tricolore, che sollevare gl’italiani alla ritrovata unità ci avrebbe aiutati a superare meglio il momento d’ambasce. Patriottismo ingenuo, feriale, goffo, che scandiva le prime giornate del lockdown sempre tutte uguali, per chi non aveva un’emergenza in casa: sveglia tardi, i fiori del pesco in giardino che se ne fottevano delle chiusure e facevano la loro vita di sempre, come sarà che quell’impiegato di Codogno s’è beccato un virus cinese, la conferenza stampa delle sei del pomeriggio sperando che il capo della protezione civile comunicasse qualche buona nuova, lo studio televisivo del quiz preserale senza il pubblico, le strade silenziose, il parente l’amico il collega che diventano numeri, la scala logaritmica, la terapia intensiva, la zona rossa, lo stato d’emergenza, gli assembramenti, FFP2, focolaio, comorbidità, positività, cluster, droplet, tracking, distanziamento, autocertificazione, tracciamento, fase 1, fase 2, quando si potrà di nuovo uscire? Il giorno dopo stessa storia, stessi problemi, stesse bandiere a sventolare dal balcone.

Succedeva allora, sarà stato un mese dopo la chiusura delle zone rosse, che Vanity Fair riproduceva in copertina la bandiera di Francesco Vezzoli che faceva il verso a Fontana e tagliava una tela dipinta in tricolore versando olio a buon mercato sugl’ingranaggi dell’emotività collettiva. L’anno dopo, Bertolo e Favelli finivano di lavorare alla loro bandiera, lavoro a quattro mani, nel senso più letterale dell’espressione: ognuno dei due s’è occupato di metà bandiera, poi hanno portato il tutto da una sarta che ha messo assieme i pezzi e il risultato è quello che si vede nella cantina della Colombiera, in mezzo alle botti da cui cola il vermentino lunense pregiato nettare di queste terre. E cioè una bandiera viva e stinta, leggera e pesante, tesa e graffiata, istintiva e controllata, gestuale e razionale, un’opera che si contraddice da sola – anche qui letteralmente, perché basta girarci dietro, basta vedere il retro per osservare un’opera completamente diversa dove si perde anche il rapporto di proporzioni tra le campiture del tricolore.

Nel testo della mostra, il curatore Antonio Grulli si domanda – per noi – cosa siano le bandiere: forse un relitto del passato, oppure il simbolo di “stati nazione all’interno dei quali tutti ormai sembrano sentirsi stretti”, o ancora “il collettore di visioni ideologiche ormai fallite”. E poi cita Franco Fortini, “a cui Bertolo era molto legato e da cui è andato in visita nella sua casa di Ameglia”. Alla domanda su cosa sia una bandiera, Fortini avrebbe risposto che è il vessillo sotto il quale torreggiano i compagni dai quali il poeta vuole isolarsi preferendo il dissenso all’ortodossia apologetica (Une tache de sang intellectuel). Oppure, più semplicemente, avrebbe cantato la sua versione dell’inno di Mameli (“Fratelli d’Italia ciascuno per sé: / un piccolo silenzio, / un piccolo peccato, / una piccola coscienza, / un pentimento piccolo così, / una piccola Fiat per la domenica, / e Iddio per tutti”). L’ironia amara di Fortini è un sentimento non così lontano rispetto a quello che gocciola giù dalla bandiera di Bertolo e Favelli, senza arrivare all’iconoclastia, ché sarebbe forse troppo semplice, troppo banale. Ci si legge semmai un paradosso, o qualcosa del genere.

Luca Bertolo, Untitled
Luca Bertolo, Untitled
Bandiere di Flavio Favelli
Bandiere di Flavio Favelli
Bandiera di Luca Bertolo
Bandiera di Luca Bertolo
Collage di Flavio Favelli
Collage di Flavio Favelli

I lavori negli spazî al chiuso della Colombiera sono introdotti da un tromp-l’oeil di Bertolo, un paesaggio coperto da una coltre di nebbia che ci pare di vedere attraverso una finestra, con tanto di gocce veristiche che solcano il vetro, un lavoro intimo, delicato, fine: oltre le gocce appare, offuscato, il profilo d’una bandiera leggermente smossa da un refolo di vento. Annebbiata, sporca, sbiadita, come tutte le bandiere che Bertolo dipinge da dieci anni a questa parte, inclusa quella ch’è esposta sulla parete a fianco, coi colori che a malapena si distinguono sopra la tela. Un tricolore tenue, pallido, smorto. Si vede la trama della tela. In un testo di qualche anno fa, il curatore Craig Burnett ha scritto che Bertolo, con le sue bandiere, avanza forse un discorso politico “suggerendo che il nazionalismo sia qualcosa di fragile e contingente, compromesso dall’illusione”. A una prima lettura sembra che Bertolo ci mostri le bandiere per quel che sono e che son sempre state: dei pezzi di tessuto attaccati a un’asta che a partire da un certo periodo nella storia son stati adoperati per radunare gruppi di esseri umani disposti a riconoscersi in quel drappo di stoffa colorato dalla forma regolare. E poiché la bandiera è un oggetto comune a quasi tutte le culture, un oggetto che ha una storia plurimillenaria, è difficile pensarlo come materia d’una riflessione che non ammetta divergenze. Ma il fatto veramente curioso è che, per quanto le bandiere di Bertolo ci appaiano scolorite, lacerate, come se avessero attraversato secoli di storia per arrivare fino a noi e dimostrare una sorta di convulsa inattualità, in realtà sono oggetti nuovi, nuovissimi, recenti, per quel che ci riguarda l’ultima bandiera della serie potrebbe esser stata dipinta l’altro ieri. L’illusione allora è la materia stessa dell’opera di Bertolo. Ecco perché dialoga alla perfezione con le opere di Favelli: su una parete una sorta di ready made con due vecchie bandiere elevate automaticamente al rango d’opera d’arte, a fianco invece, all’acme della parodia, una bandiera italiana fatta con ritagli delle copertine di Topolino. Converrà ricordare che nel 2020 Favelli creò per il Pecci di Prato una bandiera d’uno stato inesistente che aveva i colori tipici d’un dolce emiliano. Si chiamava Zuppa Inglese Bandiera. Ancora ironia, ancora ambiguità.

Cosa sono le bandiere? Se lo domanda Antonio Grulli – per noi – nel testo della mostra. Semplici oggetti, ricordi, ferite, lacerti d’un passato che ogni tanto torna a riaffacciarsi nel presente, elementi più riconoscibili d’un mondo che in realtà non se n’è mai andato, feticci ai quali le nostre liturgie non possono rinunciare, memorie, brandelli, banale tessuto. Icone della nostra storia, della nostra ostinazione, della nostra fede, delle nostre escursioni, della nostra stupidità, della nostra ferocia, della nostra libertà, della nostra carne, delle nostre emozioni. Attuali e inattuali. Morte e vive. Anzi, per molti forse oggi vive, colorate, brillanti, lucide come non erano mai state. Tutto e altro. Le opere di Bertolo e Favelli conservano quell’ambiguità che si conviene alle vere opere d’arte (l’arte funziona, dovrebbe funzionare, come la poesia) e quindi non forniscono risposta ma servono semmai a generare altre, nuove domande, ad esortare altre, nuove ricerche, ad attivare altri, nuovi pensieri. Ecco il senso di quel laboratorio che s’è voluto aprire alla Colombiera. Quanto alla domanda posta dal curatore, osservando le opere di Bertolo e Favelli verrebbe da rispondere con Giovanni Raboni: “non sono bandiere / queste bandiere”. L’unica risposta possibile, l’unica che non faccia a brandelli quella poesia, della terra e non, di cui sono intrise le bandiere in mostra alla Colombiera.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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