La storia della pittura è piena di specchi, concavi o convessi, usati per mostrare particolari nascosti, distanti oppure semplicemente dietro a quel rettangolo scelto dall’artista per limitare i suoi pensieri. Lo specchio è un dispositivo all’interno di un’opera che è essa stessa un dispositivo e, come tale, contribuisce a inverare la realtà dell’opera (e forse di noi) all’interno del nostro mondo. Difficile non essere travolti da questi pensieri nel cortile piccolo delle Gallerie dell’Accademia, mentre, con un amico artista che qui ha studiato, ci apprestiamo a scattarci una foto di fronte allo Sky Mirror di Anish Kapoor. Quello specchio porta, nel volume assente del cortile abitato solo da un pozzo, un pezzo di cielo e un ritaglio di architettura del palazzo, sui bordi superiori e laterali. Frontalmente lo specchio risucchia una porzione di contesto, concentrandola sulla sua superficie concava, mentre, posteriormente, la superficie metallica convessa agisce dilatando l’immagine dell’osservatore, disperdendola nello spazio insieme a tutto quello che egli ha nelle sue prossimità. In entrambi i casi lo specchio è congegno barocco, che mostra, sorprende e rivela qualcosa che stava per sfuggire.
Si apre con questa opera-soglia la mostra veneziana di Anish Kapoor, curata da Taco Dibbits (direttore del Rijksmuseum di Amsterdam), e divisa in due spazi molto diversi quali le Gallerie dell’Accademia e Palazzo Manfrin a Canareggio, legati per la storia delle collezioni dell’istituzione: due dei più celebri dipinti del ristretto catalogo di Giorgione, La vecchia e La tempesta, allora di proprietà del mercante di tabacco Manfrin, erano infatti nell’Ottocento custoditi qui, prima di essere acquisiti da parte dall’Accademia. La mostra dell’artista inglese, di assoluta delizia, è complessa e molto articolata, essendo nei fatti un’antologica costruita con criteri anticronologici. Si osserva infatti che la selezione delle opere ha seguito più il confronto con gli spazi che un criterio funzionale alla narrazione interna tra le opere o all’analisi della ricerca condotta dell’artista. E questa liquidità (nel lasciarsi condurre in maniera libera nella scelta, ma anche nell’adeguarsi al contenitore attraverso il reenactament delle opere) ha permesso di rendere ancora più intensa la mostra, riuscendo ad addensarla sui puri aspetti visivi e sulla forte carica psicanalitica di molti dei lavori.
La prima sala interna alle Gallerie dell’Accademia è in aspro contrasto con l’esterno: non il cielo di Venezia ma un mare di colore. Rosso, nero, bianco (colori della vita e della morte) puri e materici sulla tela, sulla superficie delle pareti, su un basamento di metallo sul quale sembra che un drago posseduto dal colore abbia sanguinato fino a spurgarsi le viscere, decapitato da un San Giorgio nascosto da qualche parte (The Unremembered). Alcuni dipinti sono apertamente aniconici, mentre la maggior parte sembra alludere a dettagli di anatomia umana e a vulcani in eruzione. Ma a prevalere è la forza gestuale, il segno: talvolta chiamano alla memoria sia la figurazione nervosa di Willem de Kooning, talaltra le orge di pennellate e materia di Hermann Nitsch. Rimane una sorpresa vedere un artista con la storia di Kapoor (che molto ha lavorato con la scultura, anche nell’accezione di materia cromatica) indagare con la pittura delle evidenti ossessioni formali, e spesso psicanalitiche, legate al corpo e al suo essere carne, traducendo in forma bidimensionale, come scrive Mario Codognato nel saggio in catalogo, “quella corporeità, quella carnalità, quella ritualità arcaica basata sul sangue, comune a tutte le civiltà, che Kapoor pone e analizza come l’origine dell’arte, della cultura e della storia dell’umanità”. L’esito è emotivamente forte, capace di proiettare l’osservatore altrove, per i riferimenti agli archetipi quali la bocca, gli orifizi, e, come si vede anche nell’ultima sala del percorso, al corpo femminile e alle sue capacità generative: pare un ossessione, come frequentemente testimoniato dai titoli dei lavori (in cui la parola mother è ricorrente). La sala più grande del percorso ospita agli antipodi due opere che incarnano al meglio il dialogo tra corpo maschile e corpo femminile, a partire dal minaccioso cannone che spara/eiacula colore (Shooting into the corner) a Pregnant white within me, splendido nuovo lavoro site specific di grandi dimensioni in cui la parete è estrusa, incinta di una forma primaria, ma la parte aggettante scompare quando la si guarda frontalmente.
Lo stesso spazio e quello successivo ospitano sculture che utilizzano dei pigmenti capaci di assorbire la luce e di sembrare mimeticamente piatte, sebbene in realtà siano dotate di una forma tridimensionale: essa può essere percepita dall’osservatore solo adottando una vista laterale, di sguincio, muovendosi e così rompendo la consueta immobilità della contemplazione. Se le prime hanno a che fare con la materia anche nell’essere porzioni di muro o di monumentale pietra sacra, le seconde sono pura astrazione e richiamano palesemente il quadrato nero dipinto su sfondo bianco di Kazimir Malevič, la cui presenza è evocata anche dalla collocazione di un’opera in alto sui vertici delle pareti, come nel celebre allestimento de L’ultima mostra futurista di dipinti 0,10 di San Pietroburgo. In entrambi i casi ci si trova di fronte a geometrie semplici, in cui la materia si occulta o si manifesta assumendo una particolare forma: si raggruma in oggetto dal nulla, o, nel nulla, si dissolve in colore scuro. Come scrive in catalogo lo psicanalista Giuseppe Civitarese, quello di Kapoor “è un magnifico e doloroso interrogarsi sull’oggettualità e l’alterità dell’oggetto. Ciò che lo motiva è il desiderio, proprio di ciascun essere umano e impossibile da soddisfare, di una sua presenza assoluta”, esemplificate dal rosso vitale e dalla “perturbante nerezza della finitudine, rappresentata dalla mera materia polvere sei e polvere ritornerai”.
La sezione della mostra ospitata a Palazzo Manfrin (che non è stato restaurato e si presenta ruvido e, talvolta, senza intonachi) è costruita, in parte, come un pendant. Il cortile quadrato del palazzo dà il benvenuto con un’opera circolare dal fondo rosso (una vasca la cui acqua si increspa ritmicamente in maniera vorticosa), mentre poi nel portico si è accolti da Mount Moriah at the gate of the Ghetto, installazione site specific ispirata alla montagna citata nella Bibbia come luogo del sacrificio di Isacco: la forma primaria della montagna viene però capovolta da Kapoor, che la fa diventare il soffitto di colore di una grotta (il titolo è un riferimento anche al fatto di essere collocata a poche centinaia di metri dal ghetto di Venezia, aspetto che evidentemente l’artista ritiene significativo, forse sensibilizzato dal fatto di essere figlio di madre ebrea e avendo egli stesso vissuto in Israele). Ma è sempre il rosso a dominare, nelle montagne di terra e pigmento di Destierro, abitate da una macchina escavatrice a polvere, ma anche nel celebre Symphony for a beloved sun, realizzato originalmente per il Martin Gropius Bau a Berlino: nella sala del piano nobile col ballatoio il disco solare si erge a elemento generatore di mattoni di color rosso, e, insieme, incarna il ruolo astratto di divinità mitologica. Ci si può camminare attorno per guardarlo, distraendosi di tanto in tanto a naso insù per gli affreschi barocchi con tondo centrale e architetture realizzate in grisaille.
Nelle successive stanze si può vedere una sorta di compendio delle opere di Kapoor, costruito però con una maniacale attenzione alle caratteristiche peculiari dello spazio espositivo. Si spazia così dagli acciai a specchio come Vertigo o Hidden Mirror ai dischi di alluminio Sky below, in parte dipinti e in parte riflettenti, fino a opere più materiche costruite con montagnole di pigmento monocromatico, o ai marmi scavati con le forme primarie. E poi ritorna il corpo, le ossessioni dell’artista per la vagina, per il fluido ematico, che spesso sembra evocare “qualcosa di violento” (così Dibbits) e gli archetipi della donna, che vengono fissati sulla tela. La pittura infatti, come scrive Codognato, “non costituisce un’attività parallela e indipendente dalla sua più celebre e celebrata produzione scultorea, ma piuttosto una continuazione e un’integrazione delle problematiche semantiche e formali del suo lavoro attraverso il mito, la tradizione e la funzione rituale”.
Si finisce così per essere frastornati dal palazzo. Per l’ampiezza delle riflessioni, il più delle volte contrastanti. Per le soluzioni esecutive che spaziano dalla forma conclusa e perfettamente disegnata all’abbozzo modellato ruvidamente. Per la sporcizia della materia e la pulizia delle geometrie levigate. Per la presenza della massa e il suo scomparire nell’invisibile. Per la barocca ricerca dell’effetto e il rigore minimalista protestante. Per gli aspetti ipnotici e centripeti dell’opera e la sua capacità centrifuga di evocare un altro che sta altrove. Per la carica inconscia della figurazione dichiarata e il lirismo evocativo distillato prodigiosamente. Perché, fantasticando nell’amnios emotivo, sembra di capire che Alberto Burri sia il nipote di Rembrandt, Hermann Nitsch il cugino del vecchio Tiziano che dipinge con le mani. Come San Tommaso si esce carichi di dubbi, ma non avrebbe senso metterci il dito. Kapoor ci ingannerebbe con uno dei suoi sorprendenti trompe-l’oeil.