Andrea Baboni celebrato in Correggio con una preziosa e affascinante mostra


L’evento offre ai visitatori la sfolgorante occasione di ammirare rari capolavori delle scuole regionali italiane del XIX secolo collezionati dal grande Maestro della critica e dell’esegesi più approfondita che oggi si conosca in questo campo. Dal 19 ottobre al 24 novembre 2024 al Palazzo dei Principi in Correggio.

A cura di Francesca Manzini e Francesca Baboni, la città di Correggio onora con una mostra (Viaggio tra Otto e Novecento. La Collezione Andrea Baboni: un percorso creativo tra pittura e collezionismo) il suo illustre figlio Andrea Baboni, classe 1943, che con i suoi studi ha nutrito l’intera cultura internazionale valorizzando e rivelando lo straordinario patrimonio della pittura italiana dell’Ottocento. Nell’incipit della sua autonoma vita questo giovane, attento e sensibilissimo, si inserisce nella tradizione artistica della piccola capitale padana – un tempo patria del grande Allegri – e si avvicina ben accolto alla forte personalità di Carmela Adani (1899-1965), mirabile scultrice e pittrice ella stessa, che aveva svolto in Firenze studi e lavori di notevole levatura ereditando dapprima l’esercizio marmoreo da Giovanni e Amalia Dupré, e giostrando poi con le libertà formali del Graziosi.

Disegnando e dipingendo, come si vedrà anche in mostra, Andrea svolse un esame attento della propria personalità per comprendere a fondo le attitudini possedute, alle quali aggiunse il fascino certo della capitale delle arti, e il tutto gli fece scegliere la facoltà di Architettura in Firenze: sede lontana e linea universitaria sino ad allora mai frequentata da un concittadino, ma idea singolare e giusta. Egli percepiva che la vasta raggiera delle possibilità creative e dei contesti irradianti, che gli sarebbe stata offerta dall’impegno architettonico, lo avrebbe coinvolto in un ampio e desiderabile arricchimento di cultura. E così fu! Nei primi suoi ritorni in patria ci parlava degli aspetti edificatorii e compositivi, degli esami su travature portanti, carichi in equilibrio, imbullonature di traverse metalliche, eccetera, eccetera; ma poi, con sorpresa, cominciò a parlarci di via Maggio (ma come mai?), la via dove gli antiquari e i commercianti d’arte esponevano e conclamavano dipinti e stampe. Fra questi lo interessavano in particolare i pezzi dell’Ottocento, con il loro carattere di immediata rilevanza, di verità imminenti, di nature luminose, di incanti non più velati da ciprie o gesti vezzosi. E di qui iniziò la sua strada di eccezionale captatore dei valori della prima modernità, sino a diventare quel “doctor magnus” di conoscenza sul secolo XIX in una Italia che, al pari di altri paesi usciti ormai dal romanticismo, raggiungeva in pittura vertici estremi di poesia e fragranza.

Andrea Baboni, già prima e dopo la laurea (1970) ha iniziato una sistematica e formidabile impresa di studi ed ha avuto il merito di accompagnare ogni osservazione, ogni pur ramificata ricerca, ogni fenomeno pittorico dell’Ottocento nazionale, con un corollario storico e razionalmente significante che mai era avvenuto nella critica italiana, e che dimostrava a suo tempo come quel certo diffuso disinteresse verso il secolo delle trasformazioni non fosse affatto perdonabile. Si può dire che egli abbia determinato i valori assoluti critico-filologici di ciascuno degli artisti presi in considerazione durante la sua lunga ed ancor viva opera di esplorazione relativa ai maestri del secolo del risorgimento fino alle porte novecentesche, dense di enigmi. La sua carriera personale registra ben presto ottime pubblicazioni e la presenza critica a rassegne specializzate. Diventa responsabile per l’Italia, con consulenza per le sedi di New York e Londra, del Dipartimento Arte del secolo XIX presso la Casa d’aste internazionale Christie’s, completando così con rigorosa competenza quel panorama della pittura italiana che va dall’Accademia al Vero, pure attraverso sistematici contatti con studiosi e collezionisti. Nel contempo espone egli stesso opere tra astrattismo e figurazione, come le ben note “foglie”, con l’amata supervisione dell’Adani.

Pertanto questa mostra, trattenuta aristocraticamente nella principesca sede del paese natale, diventa l’epinicio di una vita, di una conquista convincente che vede criticamente il grande Andrea come “maestro dei maestri” per un altissimo periodo italiano: quell’arco esteso ottocentesco che, lasciando con onore l’ultimo neo-classicismo dalle forme perfette, giunge all’eroico naturalismo della macchia e percorre poi le libertà del vigore realistico, del verismo inquieto, e della lirica più intima di pittori luminosi, estatici e commossi.

L’esposizione presenta il primo percorso creativo del Baboni come pittore eppoi in ampia distesa l’accurata selezione di una cinquantina di opere divise per “scuole” regionali, tra le più importanti d’Italia: una mostra dal valore nazionale per un secolo davvero protagonista.

Opere di Andrea Baboni

Sono tra le opere fragranti del Baboni giovane, intensamente indirizzato alla natura. Il ciclo vegetale è molto più intenso dei due soli esemplari che qui presentiamo, ma rivela pienamente l’indirizzo vocativo del pittore, che poi sarà architetto e grande studioso del vero.

Andrea Baboni, Ramo di nocciolo (1968; olio)
Andrea Baboni, Ramo di nocciolo (1968; olio)
Andrea Baboni, Foglie di vite (1971 circa; pastello a cera)
Andrea Baboni, Foglie di vite (1971 circa; pastello a cera)

Scuola toscana

L’ambito toscano è stato un crogiuolo di preannunci, poi di artisti, gruppi, movimenti, chiamati impropriamente “scuole”, che traghettarono la pittura da un’educazione accademica all’incontro col vero, ossia ad una realtà evidente, impreparata, e per questo ricchissima di impulsi prensili ed emotivi. Andrea Baboni è stato il lucido ordinatore critico di un processo che vide agli inizi le prove inaspettate ma vivissime di Gelati, Pointeau, Ademollo, e dopo il presentarsi sulla scena degli altri “progressisti” del Caffè Michelangiolo che compirono la breve ma folgorante esperienza della macchia e di lì l’espandersi successivo di quel “dopo la macchia” che diventò, con molti nomi noti, l’universo ammirabile della Toscana mater.

Corpo consistente dunque è la scuola regionale toscana, dove nasce la pittura verista con il dibattito tenutosi al celebre “Caffè Michelangiolo” di Firenze tra alcuni giovani pittori rivoluzionari. Artisti che combattevano in prima linea anche nelle guerre d’indipendenza; che volevano rivoltare le regole accademiche del tempo andando a dipingere le campagne, il lavoro delle fascinaie, i soldati a cavallo, il vero rude e aspro della quotidianità. Esponente di maggior spicco è Giovanni Fattori, assieme ad altri definiti con spregio “macchiaiuoli” (Abbati, Sernesi ecc.), per la stesura pittorica a macchia, come Vincenzo Cabianca, Silvestro Lega, e Telemaco Signorini, fino ad arrivare agli albori novecenteschi con l’allievo di Fattori Plinio Nomellini, che si avvicinerà al Divisionismo nei primi anni del Novecento, e il livornese Oscar Ghiglia, artista molto amato da Modigliani.

Giovanni Fattori, Lancieri a cavallo (1890 circa)
Giovanni Fattori, Lancieri a cavallo (1890 circa)
Niccolò Cannicci, Nunziatina (1879)
Niccolò Cannicci, Nunziatina (1879)
Plinio Nomellini, Bagnanti a Quercianella (1924)
Plinio Nomellini, Bagnanti a Quercianella (1924)

Scuola meridionale

Qui spicca il nome del pugliese Giuseppe De Nittis, che a Parigi si avvicinò alle correnti francesi ma mantenendo la forte inquadratura figurativa che aveva appreso a Napoli e che lo rese famoso. Proprio a Napoli, accanto e dopo la scuola di Resina si avvìa un gruppo di forti personalità artistiche del secondo Ottocento e che porta i nomi di Francesco Paolo Michetti, del commovente Antonio Mancini, di Raffaele Ragione Attilio Pratella, Rubens Santoro, Vincenzo Irolli, Edoardo Dalbono e altri. La loro pittura tocca i grandi spazi aperti, il mare, alcuni interni urbani di carattere, ma pure le situazioni umane più intense, senza dimenticare Domenico Morelli, col suo desiderio quasi romantico, Filippo Palizzi, grande verista, e Francesco Lojacono, trepido e amplissimo paesaggista.

Anche sulla grande scuola napoletana si stende l’analisi precisa di Andrea Baboni, che sa distinguere con acume le ispirazioni e le traduzioni compositive e cromatiche di questi proclamatori delle innumerevoli varietà offerte alla vista, al sentimento, al cuore.

Edoardo Dalbono, Nel giardino di casa a Portici (1875)
Edoardo Dalbono, Nel giardino di casa a Portici (1875)
Giuseppe De Nittis, Marina (1873)
Giuseppe De Nittis, Marina (1873)
Antonio Mancini, Dopo lo studio (1874)
Antonio Mancini, Dopo lo studio (1874)

Scuola veneta

L’Italia nord-orientale ebbe una vicenda particolare. Al loro tempo Giorgione, Cima e Giambellino fecero riposare in modo dolcissimo la loro poetica sui colli morbidi delle Venezie terrestri, così lasciando spazio al paesaggio. Qualche concessione fu pure data da Tiziano, ma la torrenzialità del Tintoretto, il linguaggio aulico del Veronese e il rumoreggiare secentesco coprirono quei germi che infine rispuntarono dapprima nel vedutismo urbano eppoi in quello più libero dei Guardi e dei loro contemporanei. Occorrevano i “poeti minori” del mare e degli incanti giuliani per offrirci un’antologia fascinosa e prensile, a sua volta assolutamente valorizzata dagli studi del Baboni. Siamo di fronte a magnifici nomi e li segnaliamo con vivo piacere.

La Venezia povera e lagunare viene presa a soggetto dai liberi pittori dell’area marittima e giuliana, tra i quali spicca la forte e lirica personalità di Pietro Fragiacomo, anch’egli di modesta famiglia ma ricco di splendido entusiasmo pittorico, che riesce a darci bellissime visioni delle lanche acquatiche d’entroterra come delle marine. Gli si affianca Guglielmo Ciardi con una pittura d’impeto, a larghe macchie, ma fortemente costruita. Pittori veneti attentissimi alla vita della gente e ai fatti del calendario popolare furono pure Luigi Nono e Giacomo Favretto che illustrarono usi ed eventi.

Pietro Fragiacomo, Venezia povera (1880-1881)
Pietro Fragiacomo, Venezia povera (1880-1881)
Guglielmo Ciardi, Bragozzo (1890)
Guglielmo Ciardi, Bragozzo (1890)
Luigi Nono, Popolana di profilo (1889)
Luigi Nono, Popolana di profilo (1889)
Giacomo Favretto, Pittore al cavalletto (1871)
Giacomo Favretto, Pittore al cavalletto (1871)

Scuola piemontese

Tra i più noti artisti che tennero alta la pittura piemontese, molto attenta all’Europa, citiamo il celebre maestro Antonio Fontanesi (1818-1882), ricchissimo di pathos; poi Lorenzo Delleani, Vittorio Avondo, Matteo Olivero, Carlo Pittara e i suoi affiancatori nella Scuola di Rivara, tutti in qualche modo legati a Enrico Reycend (1855-1928), pittore internazionale assai sensibile. Un’intensa cura al paesaggio fu l’applicazione di una schiera di questi e altri giovani pittori, nati intorno alla metà del secolo, che poterono confrontarsi più direttamente con la Scuola di Barbizon e con gli impressionisti francesi: Andrea Baboni ne dà un’attenta analisi. Nella capitale sabauda vi fu un largo interesse soprattutto per la pittura. Per curiosità diremo che Delleani fu tra i fondatori del Circolo degli Artisti di Torino, il quale oltrepassò i settecento aderenti e che vide come iscritto anche Camillo Benso, Conte di Cavour!

Delleani, Avondo e Olivero furono intrisi di un naturalismo avvolgente, spesso sospiroso, sempre legato fortemente agli incanti degli elementi e ai respiri dell’anima. Più tardi i sublimi lavori divisionisti di Giuseppe Pellizza da Volpedo e di Carlo Fornara daranno una fremente dignità, al di sopra dei tempi, alla scuola piemontese.

Lorenzo Delleani, Bialera di Morozzo (1905)
Lorenzo Delleani, Bialera di Morozzo (1905)
Matteo Olivero, Il raccolto (1910)
Matteo Olivero, Il raccolto (1910)
Vittorio Avondo, Campagna romana (1860)
Vittorio Avondo, Campagna romana (1860)

Scuola emiliana

Rimane difficile, concettualmente e visivamente, identificare una Scuola emiliana. La natura stessa di questa vasta area e il carattere impreciso - vorremmo dire disponibile e polivalente - della sua popolazione deve renderci preparati a soluzioni tra loro diverse. L’ottocento emiliano è ricco di molti nomi che a stento potremmo chiamare “minori”, dispersi tra mille dedicazioni e tra queste alcune assai schiette di verismo compiaciuto, e altre avventurose, sostenute dalla pratica teatrale e dal gusto della sorpresa. L’Emilia ottocentesca avrebbe potuto restare sotto la grande ala poetica di Antonio Fontanesi, reggiano, ma l’indole stessa del maestro non lo tenne fermo per una professione di routine; e neppure la praticità padana, agricola, avrebbe sostentato un naturalismo lirico, fragrante, intimo e totalmente coinvolgente come il suo.

Questo è stato rilevato con attenzione da Andrea Baboni nella su ampia opera critica. Incontriamo così tre artisti diversi: Gaetano Chierici, di grande mano esecutiva, che si lasciò attrarre ripetutamente dalle scene più interne delle famiglie contadine, dai bambini, dai vecchietti, dai musicanti; poi il parmense Alberto Pasini, avventuroso, che fu uno dei primi orientalisti italiani e che portò qui colori e scene del mondo “di là dal mare”; e come terzo invece Stefano Bruzzi, piacentino che dipinse veramente la natura nei suoi aspetti variabilissimi, soprattutto con la neve, e con i suoi abitanti più diretti, come i contadini, i carri, gli asini e le bellissime pecore.

Gaetano Chierici, Patatrac (1887)
Gaetano Chierici, Patatrac (1887)
Alberto Pasini, Abbeveratoio in oriente (1880)
Alberto Pasini, Abbeveratoio in oriente (1880)
Stefano Bruzzi, Neve sulle colline (1875)
Stefano Bruzzi, Neve sulle colline (1875)

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L'autore di questo articolo: Giuseppe Adani

Membro dell’Accademia Clementina, monografista del Correggio.



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