Voli cancellati, compagnie aeree senza equipaggi causa licenziamenti post Covid: e così questa volta siamo arrivati a Kassel in treno, dopo un viaggio a tappe di una quindicina di ore. Abbiamo scoperto all’ultimo momento che il nostro albergo faceva il check-in solo di pomeriggio, per garantire la pausa pranzo al personale; abbiamo vagato per la città trascinandoci i bagagli aspettando che la portineria riaprisse; finalmente, un portiere che voleva fare il simpatico, simpaticamente ci ha fatto scoprire altre belle cose: «La colazione vera e propria non c’è, ma possiamo procurarvi un dolcetto, purché lo scegliate il giorno prima, cioè adesso. Ah, e mi raccomando: domattina per mangiarlo presentatevi in sala ristorante alle otto precise!» Poi ha aggiunto, in un simpaticissimo italiano: «Belìssima siniòra, ahahaha!»
Lì per lì ho reagito male, ma poi ci ho pensato su: questa cittadina di scarso interesse turistico, ogni cinque anni diventa irresistibile per noi malati psicopatici, che ancora diamo credito all’enorme impostura finanziaria globale chiamata arte contemporanea e siamo disposti a vessazioni e disagi per vederla da vicino. Quindici ore di treno e servizi alberghieri discutibili, per quale motivo? Perché siamo feticisti delle epifanie. A Kassel, come alle varie biennali e triennali e quadriennali e fiere, ci vanno gli ingenui come noi, spiritualisti materiali, o materialisti spirituali, che il senso delle cose lo cerchiamo nelle cose, che commettiamo l’errore di mungerlo dagli oggetti, da quei pensieri coagulati che vanno sotto il nome di opere d’arte. Siamo disposti ad affrontare inconvenienti e sberleffi pur di farci affascinare dall’irradiazione della forma.
È dal 2007 che andiamo a Kassel per vedere Documenta. Ogni volta, prima o poi passiamo in piazza Fratelli Grimm, dove c’è una delle opere d’arte più importanti di questo secolo. È un parallelepipedo di pietra arenaria rossa, alto circa un metro. Sul lato frontale porta incise tre lettere dorate, in caratteri maiuscoli: ICH, cioè “io”. Girandogli intorno, si scopre che ha tre gradini per salirci sopra con facilità. È un piedistallo. La statua non c’è, perché la può fare chiunque lo voglia, prestando il proprio corpo. E infatti i passanti che capitano lì in coppia o in gruppo si divertono a salire a turno su quel piedistallo, per improvvisare una scultura vivente, impersonando “io”, l’idea che hanno di sé stessi. Non hanno bisogno di istruzioni né didascalie cervellotiche. Vedono il piedistallo, capiscono al volo, ci corrono sopra, si mettono in posa, si fotografano a vicenda. C’è chi assume una postura retorica, imitando i tronfi monumenti degli eroi; chi non si trattiene e scoppia a ridere; chi appoggia una mano sul fianco e cerca di incarnare un’impossibile naturalezza.
Quest’opera risale al 2007, venne ideata dal disegnatore satirico Hans Traxler e realizzata dallo scultore Siegfried Böttcher. Gli intenti di Traxler erano umoristici, tanto è vero che la presentò durante la rassegna “Caricatura”, una mostra di fumetti satirici. Al di là delle intenzioni, si è rivelata un’opera d’arte a tutti gli effetti, e bene ha fatto l’amministrazione comunale di Kassel a non rimuoverla. Si intitola Monumento all’io, ma in tedesco suona più solennemente, Ich-Denkmal: la parola “Denkmal”, più che un “monumento”, indica letteralmente un “pensamento”, un dispositivo che serve a far pensare. A me dà da pensare il fatto che una delle opere d’arte più convincenti di questi decenni sia stata ideata con intenzioni parodistiche.
Non importa se Traxler volesse fare satira dell’arte, proseguendo una tradizione ormai plurisecolare (su questo solco segnalo il bellissimo volume illustrato di Marta Sironi: Ridere dell’arte. L’arte moderna nella grafica satirica europea, Mimesis, 2013). Il suo Ich-Denkmal tocca un nodo cruciale: l’io è un punto sensibile, una vera ustione politica, una delle poche fonti di scandalo ancora produttive. È una contraddizione sanguinosa: da un lato, l’io è la condizione esistenziale inevitabile, in cui siamo confinati tutti; dall’altro lato, gli vengono continuamente imputate le più gravi responsabilità. Essere egoisti è il crimine peggiore. Per l’ideologia contemporanea, l’io è una colpa da espiare, come un peccato originale. È qualcosa di troppo: enfatico, impresentabile, vanaglorioso, megalomane, narcisistico, esibizionistico. E, simultaneamente, è troppo poco: idiosincratico, fazioso, minuscolo, ineffettuale, autoreferenziale; non rappresenta nessuno, solo sé stesso.
Perché ho cominciato dall’Ich-Denkmal del 2007 per parlare di Documenta 2022? Perché quest’anno la rassegna di arte contemporanea di Kassel vuole essere proprio un gigantesco antidoto alla cultura occidentale dell’io, specialmente quella che si è incarnata nell’arte.
Documenta si svolge ogni cinque anni, e i curatori hanno tutto il tempo per riflettere, ideare e decidere qual è il taglio da dare alla loro mostra. Così si presenta come un evento che coglie lo spirito del tempo e dètta la linea culturale dell’epoca in corso. Da questo punto di vista, uno dei suoi luoghi più significativi è un corollario apparentemente marginale: il bookshop. La libreria temporanea allestita per i visitatori è un termometro dell’epoca che stiamo vivendo, con i suoi conformismi cangianti e le sue mode culturali. Mi aggiro per banconi e scaffali: rispetto a cinque anni fa sembra sparito Giorgio Agamben, di Slavoj Žižek resta poco, mentre Boris Groys regge. Imperversa Byung-chul Han, che d’altronde è tedesco; non mancano Chimamanda Ngozi Adichie, Judith Butler, Silvia Federici, Bell Hooks, Timothy Morton, Paul B. Preciado, eco-critica, neo-femminismo e vetero-patriarcato, teorie sui generi sessuali.
Ho percorso Documenta avanti e indietro per tre giorni. Ma anche una scorsa superficiale farebbe saltare agli occhi qual è il punto critico messo in discussione dai curatori. L’io. La singolarità artistica. Le opere degli artisti che lavorano da soli. I curatori di questa edizione sono i Ruangrupa, un collettivo indonesiano attivo a Jakarta dal 2000. Praticano un’opposizione radicale al sistema occidentale dell’arte. Come dar loro torto? Oggi gli artisti affogano in una lotta carrieristica di tutti contro tutti per emergere, per affermarsi affiliandosi a gallerie potenti e collezionisti danarosi, sperando di entrare nel circuito di nomi invitati alle rassegne e alle fiere che contano di tutto il pianeta. In queste condizioni, tanto vale lasciar perdere il proprio io egoista, unirsi ad altri artisti e mettere il talento a disposizione della comunità: partecipare a battaglie politiche, rivendicazioni sociali, richieste di giustizia. Non opere d’arte, ma opere di bene. Questa, in sintesi, è la soluzione proposta a Documenta dai Ruangrupa, con decine di esempi da tutto il mondo, in particolare da zone del pianeta poco rappresentate nelle Biennali e nei musei, dall’Indonesia al Kenya, dal Bangladesh alla Colombia.
Il primo impatto è stato forte. Siamo entrati al Fridericianum, ma per accedere alla mostra bisogna passare attraverso un paio di stanzoni occupati da bambini e ragazzini disabili. Chi era immobilizzato su una sedia a rotelle; chi si comportava autisticamente; chi gemeva accennando gesti e spasmi. Ciascuno di loro era accudito da un adulto che lo aiutava a disegnare, colorare, interagire con oggetti, forme, materiali: artisti prestati al soccorso creaturale, all’azione terapeutica, alla solidarietà sociale. Anche se non si trattava di un’installazione artistica, la sua collocazione vestibolare era di fatto un prologo morale e politico alla mostra, un monito, un monumento vivo rivolto ai visitatori e agli artisti. La sofferenza dei viventi è immane, le disuguaglianze sociali sono enormi, le emissioni di anidride carbonizzano l’atmosfera, ci attendono guerre per gli ingredienti basilari della vita, l’acqua, l’energia, il pane: e tu pensi ancora all’estetica, all’arte, ad avere successo come artista? Sei così mondano da verificare chi c’è e chi non c’è a Documenta, chi è stato invitato e chi escluso?
Date queste premesse, i Ruangrupa – e i co-curatori coinvolti a collaborare con loro – hanno chiamato a Documenta quasi soltanto collettivi di artisti impegnati. Il problema è che i risultati sono scarsi. La maggioranza delle opere in mostra è di bassa qualità. Sono fatte male (di recente, Christian Caliandro ha notato che il “fatto male” in arte è ormai un marchio di fabbrica). Come mai? Per mettere in evidenza una retorica dell’urgenza? Come se questi artisti non avessero il tempo di andare troppo per il sottile; la sottigliezza delle soluzioni formali puzzerebbe di estetismo, di lusso, di privilegio: l’ubbia di chi non ha altri problemi nella vita.
Sta di fatto che gran parte di queste opere fondano il loro valore sulle battaglie sociali e politiche a cui partecipano, sulle ricadute sociali che generano. Spesso sono innervate in altre attività di quartiere, laboratori, proteste pubbliche. Non è un caso che, per comprendere queste opere, sia necessario leggere una quantità di testi, didascalie e prolissi spiegoni, che contestualizzano gli ambienti in cui tali opere sono nate, i problemi locali, i conflitti specifici in cui sono state realizzate. La visita a Documenta si trasforma in una indigestione di parole. Tutto molto interessante: ma a me è sembrato di essere piombato in un consesso illustrato di antropologia, politica, economia. E in effetti, i visitatori perfetti per questa Documenta sono gli attivisti politici, gli etnologi, gli studiosi di economie alternative, non certo gli appassionati d’arte.
Naturalmente non tutto in questa Documenta è mediocre. Fra le opere più convincenti, ne scelgo tre, in una mia piccola classifica personale.
Al terzo posto, il video di Saodat Ismailova, Bibi Seshanbe, ispirato a un’antica figura folclorica della cultura persiana. Si scende nelle cantine catacombali del Fridericianum, sotto le vòlte ad arco, buie, massicce, oppressive, per entrare in una liturgia femminile clandestina; sembra di avere un accesso iniziatico a un mondo vietato, in un altro modo di pensare, di guardare, di illuminare e adombrare le cose. È vero che a uniformare il tutto c’è una confezione da videoarte un po’ international style, piuttosto levigata. Ma l’intimità della protagonista, una specie di Cenerentola ancestrale che ha la funzione di spirito guaritrice, si mostra e non si mostra, resiste ai nostri sguardi voyeuristici con le sue ritualità misteriose.
Al secondo posto metto l’installazione nella chiesa di Sankt Kunigundis del collettivo haitiano Atis Rezistans. Le più impressionanti sono le sculture fatte di materiali riciclati, molle arrugginite, pezzi di grondaie e teschi, che danno forma a zombie perversi, ridanciani, con genitali mostruosi, una specie di ritorno del rimosso da un aldilà patriarcale, con esuberanze sessuali politicamente impresentabili. È una profanazione carnevalesca di resti umani; ed è liberatorio e inquietante che abbiano invaso questa chiesa modernista, attualmente dismessa dalla diocesi locale, costruita nel 1927, che si vanta di essere “la prima in cemento armato precompresso della Germania” (per dire cosa offre Kassel; ma il colossale altare cubico in monoblocco di marmo è notevole). E alle pareti spiccano due grandi ritratti sagomati di eroi haitiani del passato e di oggi, incisi su una lamina di plastica cilestrina, dai riflessi prismatici iridati, in una straniante convergenza fra disegno tradizionale e materiale ipercontemporaneo intrattabile.
Il mio primo posto va alla raccolta di opere del collettivo indonesiano Taring Padi, che fa base a Yogyakarta dal 1998. L’installazione nella ex piscina di Hallenbad Ost è la cosa migliore di questa Documenta, la gente (tanta) si aggirava felice in mezzo a quella esuberanza di colori e figure. Sono state esposte decine di stendardi, striscioni, bandiere, sagome di cartone, maschere, poster e cartelloni. La caratteristica di tutti questi lavori è che sono stati utilizzati in manifestazioni, campagne di controinformazione, processioni festaiole organizzate per coinvolgere i passanti, attirarli e sensibilizzarli, e anche per questo sono oggetti spesso coloratissimi, sensualmente comunicativi. Sono opere d’arte che sono scese in piazza, come armi artistiche; si portano addosso un altro tipo di aura rispetto a quella dell’unicità estetica: l’aura esperienziale, militante; l’aura del combattimento sul campo. Sono opere gualcite, increspate o consunte, hanno subìto qualche danno proprio perché sono state usate: richiamano idealmente le bandiere dei reggimenti, che sono tanto più gloriose quanto più sono sdrucite e macchiate dal sangue delle battaglie.
I Ruangrupa, nel testo di presentazione della mostra che introduce il catalogo, parlano di “much-needed dissolution of ownership and authorship”: danno per scontato che il male dell’arte attuale consista nella proprietà e nell’autorialità, e che il loro dissolvimento sia necessario. È un programma politico ingenuo, e secondo me pericoloso, perché vorrebbe togliere agli artisti (che sono persone inermi) il loro status autoriale, senza rendersi conto che sono proprio i diritti d’autore – intesi sia come presidio culturale sia come istituto giuridico – a difendere l’autonomia di un’opera d’arte. Un’opera è un’asserzione libera, fatta da chi non ha altro potere che il talento artistico e la perizia formale; ma se togliete la proprietà e l’autorialità agli artisti, state sicuri che le opere non finiranno utopisticamente in mano alle comunità benintenzionate; è un’illusione puerile. Saranno i potentati economici a farne ciò che vogliono senza più nessun argine, snaturandole a loro piacimento, riplasmandole secondo i propri scopi. Filologia autoriale e diritto d’autore sono sentinelle che tutelano la forma dell’opera d’arte (e quindi la sua forza), il suo non dipendere da chi la compra.
Con grande trasparenza, i Ruangrupa descrivono anche come hanno impostato la distribuzione dei fondi agli artisti coinvolti. Il loro metodo si ispira al sistema indonesiano del lumbung (una condivisione solidale dei raccolti di riso), non competitivo, con assemblee e confronti: «negoziazione è diventato il nome del gioco» che i Ruangrupa hanno deciso di innescare a Documenta. Io penso che negoziare sia il contrario dell’arte: l’opera d’arte è irriducibile, non deve scendere a patti con niente e nessuno; nemmeno con le forze del bene, del giusto, del bello, vere o presunte che siano. (Non posso fare a meno di notare che viviamo davvero tempi stimolanti, perché le obiezioni politiche mosse da ogni parte alla tradizione culturale del moderno, di cui anch’io mi sento erede – e credente praticante –, ci mettono alla prova, ci spingono a riaffermare ciò che davamo per scontato, riformulandolo in maniera più pura e netta). Comunque, non è giusto liquidare in poche battute l’onesta sperimentazione economica e assembleare dei Ruangrupa, perché la loro insubordinazione è l’ennesima conferma che la situazione degli artisti è diventata intollerabile, e che molta di ciò che chiamiamo “arte contemporanea” è un gioco truccato.
Questa edizione di Documenta mi ha deluso rispetto alle quattro che ho visto finora, dal 2007 a oggi. Mi dispiace, ma io ho un’altra idea dell’arte. Le opere sono un combattimento con la forma. Artisti singoli, spesso nella monacalità della loro ricerca (perfino quando lavorano in mezzo al casino e alle interferenze continue della nostra epoca) propongono cose inutili che servono per sempre. Vi risparmio i miei esempi prediletti: ciascuno di noi ha in cuore e nell’intelletto una serie di opere d’arte del passato e del presente che irraggiano pensiero, brivido metafisico, esaltazione, acutezza, allegria, commozione, raccoglimento, e che hanno ben poco a che fare con il tentativo di rimediare alle ingiustizie del mondo.
A Kassel, più che la dissoluzione dell’autorialità e della proprietà, purtroppo ho constatato la dissoluzione della forma, lo scadimento della ricerca artistica, il suo comodo adagiarsi sulla “causa finale”, come la chiamerebbe Aristotele: cioè, in questo caso, sulla funzione sociale, lo scopo politico immediato. Certo, forse la vita per gli artisti sarebbe più eccitante se, invece di macerarsi da soli in uno studio, si sentissero parte di una comunità combattiva, festante, solidale, che li accoglie e mette in comune con loro le proprie ferite e le proprie conquiste. Ma l’opera d’arte è un’altra cosa.
I Ruangrupa affermano: «Modi differenti di produrre arte creeranno opere differenti, che, a loro volta, chiederanno altri modi di essere lette e comprese: opere d’arte che funzionano nelle vite reali nei loro rispettivi contesti, senza più perseguire pure espressioni individuali, senza più bisogno di essere mostrate come oggetti isolati o venduti a collezionisti singoli o musei finanziati da nazioni egemoni. Altri modi sono possibili». Come si vede, i curatori mescolano due cose ben diverse: l’«espressione individuale» (il peccato imperdonabile dell’io!) e l’attuale situazione del sistema dell’arte. Ma la soluzione alle distorsioni mercantili occidentali (ormai globalizzate), secondo me, non può consistere nell’ulteriore mortificazione degli artisti, che così vengono considerati corresponsabili dei problemi di tutti perché si ostinano a indagare la vita e il mondo tramite sé stessi e il proprio rapporto con la forma.
Non vorrei che quella dei Ruangrupa, insomma, fosse una riproposizione dell’arte collettivistica sotto mentite spoglie: sicuramente più gentili e meno totalitarie; ma il pedaggio da pagare resterebbe inaccettabile. Alla fine, per i Ruangrupa dovrebbe essere un’arte «radicata nella vita», che «trovi soluzioni utili alla comunità». No, grazie: preferisco stare male da solo, ma facendo quel che appassiona me. Si tratta insomma di essere schietti, e chiederci che cosa vogliamo davvero dagli artisti: che la facciano finita con l’arte e l’estetica occidentale? Che mollino i loro crucci personali e partecipino all’agone combattendo contro le ingiustizie? Il fatto poi che alcuni artisti di successo siano glorificati dal capitalismo e dai suoi conniventi funzionari culturali deve farci disconoscere la potenza delle loro opere? Dobbiamo applicare contro di loro una specie di moralistica e politicizzata invidia (nel senso etimologico di “riluttanza a vedere”, a riconoscere il loro valore)? Un’iconoclastia ideologica, indignata, puritana? In cambio di cosa? Di qualche striscione colorato, carnevalesco e retorico?
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Tiziano Scarpa
Nato a Venezia nel 1963, Tiziano Scarpa è romanziere e poeta, vincitore del Premio Strega 2009 e del Premio SuperMondello 2009 con il romanzo Stabat Mater. Tra i suoi libri figurano Occhi sulla graticola (Einaudi 1996 e 2005), Amore® (Einaudi 1998), Venezia è un pesce (Feltrinelli 2000), Batticuore fuorilegge (Fanucci 2006), Stabat Mater (Einaudi 2008), Discorso di una guida turistica di fronte al tramonto (Amos 2008), Le cose fondamentali (Einaudi 2010 e 2012), La vita, non il mondo (Laterza 2010), Il brevetto del geco (Einaudi 2016 e 2017), Il cipiglio del gufo (2018 e 2020), la raccolta di poesie Le nuvole e i soldi (2018), Una libellula di città (minimum fax2018) e La penultima magia (Einaudi 2020). Ha scritto numerosi saggi d'arte contemporanea.