Dopo una pausa durata quasi sessant’anni ritorna in Italia l’elegante e rivoluzionaria arte di Alexander Archipenko (Oleksandr Porfyrovič Archipenko; Kiev, 1887 – New York, 1964), raccontata per segni, simboli e immagini dalla galleria milanese Matteo Lampertico. Il luogo è strategico: proprio a Milano infatti l’artista di Kiev tenne la sua ultima personale nel 1963 alla Galleria San Fedele, subito dopo la retrospettiva a Palazzo Barberini di Roma, e poi morì nel 1964. È un cerchio che si chiude, un vuoto che torna materia, come spesso avviene nell’universo grafico e iconografico di Alexander Archipenko.
La grande forza di questa mostra è già annunciata nel suo titolo: Archipenko in Italy non soltanto riporta il focus sull’artista dopo molti anni di silenzio, ma è anche il risultato di un’attenta ricognizione degli scambi e influenze che Archipenko instaurò con alcune figure chiave delle correnti d’avanguardia del Novecento. Ecco perché l’allestimento, pulito ed elegante, si alterna in maniera ben equilibrata fra un nucleo di opere di Alexander Archipenko (undici in totale fra dipinti, disegni, sculture e scultopitture) e alcuni pezzi di artisti italiani dello stesso periodo. Il catalogo è affidato alla cura di Maria Elena Versari, storica dell’arte e docente alla Carnegie Mellon University. Una scelta non casuale, alla luce del fatto che fu proprio la Versari a individuare per prima le profonde tracce della poetica di Archipenko nel linguaggio visivo della Metafisica, e specialmente nelle opere di Carlo Carrà e Giorgio De Chirico. Alla stesura del catalogo hanno contribuito la Fondazione Archipenko di New York e la moglie dell’artista Frances Archipenko Gray.
Intorno al nucleo centrale di opere di Archipenko si sviluppa un raffinato percorso espositivo che include Carlo Carrà, Fortunato Depero, Enrico Prampolini, Fillia e Alberto Magnelli. La mostra diviene così parte di una narrazione più estesa che trova spazio nel catalogo grazie a immagini d’archivio, pubblicazioni storiche e riferimenti al contesto sociale e culturale in cui l’artista di Kiev visse e operò in Francia e poi in Italia. Il primo impatto con la scena artistica europea fu proprio a Parigi, dove Archipenko si trasferì giovanissimo nel 1908 e subito fu attratto dalle ricerche di Cézanne, Picasso e Léger, dai quali apprese i principi base del Cubismo. Le sculture di questa fase presentano già elementi che testimoniano scambi intensi con Boccioni, incontrato grazie a Gino Severini, e con i futuristi della scena parigina: l’armonia fra i vuoti e i pieni, fra le superfici concave e convesse, fra le linee rette e oblique, un modo totalmente innovativo di concepire la figura umana, dinamica perché colta in più vedute simultanee. Ne è un perfetto esempio l’opera Draped woman (concepita 1911/1957, realizzata 1968), capolavoro che avrebbe influenzato profondamente Boccioni nella sua ricerca sul dinamismo applicato alla scultura.
In mostra troviamo poi due opere appartenenti alla serie delle Scultopitture, invenzione che Archipenko mise a punto intorno al 1912 sulla scia di un interesse sempre più forte per il piano bidimensionale della pittura. Le Scultopitture sono opere scultoree realizzate in materiali assemblati e sorrette da uno sfondo rigido in legno: una sorta di altorilievo modernissimo, multimaterico e in chiave cubista. Gli esemplari qui esposti sono di periodi diversi: Figure fu prodotta probabilmente negli anni Cinquanta e riprende lo studio delle scultopitture degli anni Dieci. E poi Standing woman and still-life del 1919, che cela un piccolo segreto: la griglia di puntini bianchi nella parte inferiore si ispira a una maniera degli anni Dieci molto amata da Picasso, Severini e Survage.
La serie delle Scultopitture passa attraverso una sperimentazione infinita di colori e materiali, dal legno all’osso, dalla latta al bronzo, dal gesso alla terracotta e fino al vetro. Il metallo diviene pensiero, forma, materia e rappresentazione nelle opere degli ultimi anni: si osservi il solidoma leggerissimo corpo generato da un lucente nastro di latta in Forma su sfondo blu (concepita 1913, realizzata 1962), o ci si perda nel delicatissimo Torso nello spazio (concepita 1935-36/46) classico e armonioso come le Veneri di Tiziano e Monet.
E a proposito del corpo, ecco un elemento nella storia produttiva Archipenko che rimane stabile e immutato nel tempo, oltre le sperimentazioni sul medium e sulla materia: un sentimento profondo per la figura umana e la fisicità del corpo. Sia esso colto in pose tensive o meccaniche (Walking man, 1914-1955 circa), esasperato nella sua motricità (Dancing, 1912; Movement, 1913; Boxers, concepita 1913-14), o celebrato nei suoi paradigmi di vita (Draped woman, 1911).
In mostra non poteva mancare un contributo di Alberto Magnelli (ecco infatti il suo Uomo col cappello del 1914), se pensiamo che fu proprio Magnelli a diffondere il nome di Alexander Archipenko in Italia, comprando in blocco alcune sue opere esposte al Salon des Indépéndents del 1914 per la collezione dello zio. La diffusione di Archipenko ebbe un impatto sconvolgente sulle scuole italiane, e in particolare su Giorgio De Chirico e Carlo Carrà fautori della poetica metafisica: negli anni successivi il primo porterà a compimento la metamorfosi dell’uomo-burattino nei celebri soggetti del manichino e delle “Muse inquietanti”, e parallelamente Carrà convertirà quel meccanicismo disumano in sensuale femminilità (Penelope, 1917).
Infine, la presenza in mostra dei Futuristi di seconda generazione si lega alla Biennale di Venezia del 1920, dove Archipenko tenne una spettacolare mostra personale di 87 opere che sconvolse letteralmente la critica italiana per le sue sperimentazioni audaci. Dopo la parabola metafisica, negli anni Venti la scena dell’arte in Italia era passata in mano ai secondi Futuristi, molti dei quali avrebbero trovato in Archipenko una guida fondamentale proprio grazie alla Biennale. Enrico Prampolini guarda senz’altro a Medrano (cat. p.14) quando realizza la figura ossea in Apparizioni biologiche (1935). La natura giocosa e dinamica del Carrousel Pierrot(cat. p.24) rivive nei danzatori variopinti dell’arazzo Tarantella (1918) di Depero. E poi più tardi Fillia, sulle tracce delle entità umanoidi degli anni Dieci, dipingerà Figura nello spazio (1930) la cui carismatica sagoma assomma in sé quel processo di metamorfosi semi-umana già in atto da inizio secolo.
In conclusione, Archipenko in Italy è un progetto di memoria, di ricerca, di continua innovazione artistica, ma soprattutto è una lente di ingrandimento puntata su quel vasto repertorio di figure tra l’uomo e l’automa, l’umano e il bestiale, l’amorfo e l’antropomorfo, il modello e la sua variazione, che ha popolatoper lungo tempo le principali scene dell’arte del Novecento. All’origine di tutto resta,aperta e attualissima, la riflessione profonda e appassionata sulla cifra umana su cui Alexander Archipenko si è interrogatoinstancabilmente, fino alla fine.