Ai Weiwei a Palazzo Strozzi: la mostra di un Michelangelo moderno?


Recensione della mostra 'Ai Weiwei - Libero', a Firenze, Palazzo Strozzi, dal 23 settembre 2016 al 22 gennaio 2017.

Esiste, nel panorama contemporaneo, un artista che, quanto a potenza, forza del messaggio, vitalità, originalità, possa in qualche modo essere paragonato a Michelangelo? È una domanda a cui è difficile rispondere, ma se dovessimo esprimere una rosa di candidati, di sicuro includeremmo il nome di Ai Weiwei (Pechino, 1957), al quale Palazzo Strozzi dedica, quest’anno, la prima retrospettiva italiana, intitolata Libero. Un titolo da cui emerge con estrema chiarezza il leit motiv della mostra: l’arte di Ai Weiwei come impegno civile, come monito contro ogni discriminazione, come potente e (appunto) libero sfogo contro la censura, con una narrazione che si dipana lungo tutto il percorso della mostra andando a toccare, per forza di cose, i burrascosi rapporti dell’artista con il governo cinese e gli strumenti della repressione. A inizio anno intervistai Arturo Galansino, direttore di Palazzo Strozzi e curatore di Libero, e gli chiesi anticipazioni sulla mostra: aveva promesso un avvenimento di ampia portata, di respiro internazionale. Posso dire che la promessa è stata mantenuta.

Peccato solo che Reframe, la grande installazione appositamente pensata per la facciata di Palazzo Strozzi che è entrata, con tutto il suo dirompente vigore, nel canone delle migliori opere di Ai Weiwei, abbia fatto discutere al punto da far dimenticare a molti che dietro ai gommoni che dialogano con le finestre del Palazzo c’è un grande artista dotato di una personalità originale, che ha intrapreso un percorso artistico coerente e mai banale: un percorso che a Firenze è stato degnamente raccontato da Arturo Galansino. È un peccato perché chi ha sprecato le proprie energie nel berciare belluinamente contro l’installazione della facciata ha fatto passare in secondo piano una rassegna coinvolgente, estremamente efficace sul piano della comunicazione (aiutata in ciò dalla stessa arte di Ai Weiwei, che tra gli artisti contemporanei di maggior successo è sicuramente uno dei meno ostici per il grande pubblico) e che include tutti gli esiti più interessanti della produzione del dissidente cinese degli ultimi anni: in tale contesto, Reframe non costituisce che una tappa, certo fondamentale, ma che si lega a un discorso più ampio, che parte da lontano, che ci racconta di un artista inviso alle autorità, apertamente schierato dalla parte dei più deboli, capace di anticipare le tendenze e di trovarsi perfettamente a suo agio tra gli strumenti che la società contemporanea gli offre, essendo Ai Weiwei un blogger oltre che un grandissimo e valido utilizzatore di social network.

È proprio per questa ragione che il visitatore di Libero può forse trarre maggior beneficio iniziando la visita dalle sale della Strozzina piuttosto che da quelle del piano nobile. Perché se non si è ancora saliti, gli ambienti sotterranei offrono una panoramica vasta, che può benissimo fungere da introduzione alle opere, molte delle quali dal sapore monumentale, che riempiono gli ambienti del livello superiore. Il racconto, infatti, nella sala numero tredici della mostra (intitolata “New York”: ogni sezione porta infatti una denominazione diversa) parte dal 1981, anno in cui Ai Weiwei, figlio di un poeta cinese, Ai Qing, anch’egli dissidente come lo sarà il figlio e sottoposto a lunghi periodi d’esilio e di isolamento, si trasferisce a New York con una manciata di dollari in tasca e con una misera valigia che troneggia al centro della sala: omaggiando Duchamp, uno degli artisti che più lo hanno influenzato, tanto da spingerlo a dedicargli un’opera apposita (un ometto modellato col profilo di Duchamp), Ai Weiwei crea un ready-made intitolato Suitcase for bachelors, attraverso il quale l’artista eleva a opera d’arte le poche cose che aveva con sé al momento del trasferimento, rendendo ben palesi le difficoltà che dovette incontrare al suo arrivo negli Stati Uniti (pensiamo soltanto alle barriere linguistiche). Le trentasette fotografie che tappezzano i muri della tredicesima sala della mostra raccontano gli anni newyorkesi di Ai Weiwei: non ci sono soltanto gli ambienti che l’artista frequentava (la sua abitazione, i suoi amici, i luoghi in cui trascorreva le giornate) ma anche gli omaggi alla cultura artistica del tempo. In particolare, vediamo Ai Weiwei che si fotografa assieme al ritratto di Andy Warhol (concedendo uno scatto anche alla didascalia che al MoMA lo accompagnava), ma vediamo anche un’opera, Coke, un disegno a inchiostro su carta, che costituisce un evidente omaggio al grande artista pop e che diventa anche una sorta di preludio a molte opere successive, quelle che indagano il rapporto tra società contemporanea e tradizione e di cui troviamo alcuni esempi al piano superiore di Palazzo Strozzi.

Ai Weiwei, Suitcase for bachelors
Ai Weiwei, Suitcase for bachelors (1987; valigia, sapone, dentifricio e spazzolino, 20 x 30 x 40 cm; Courtesy of Ai Weiwei Studio)


Ai Weiwei si fotografa assieme all'autoritratto di Andy Warhol negli anni Ottanta
Ai Weiwei si fotografa assieme all’autoritratto di Andy Warhol negli anni Ottanta


Ai Weiwei, Coke
Ai Weiwei, Coke (1982-1983; inchiostro su carta, 91 x 63,5 cm; Courtesy of Ai Weiwei Studio)

Attraverso gli anni Novanta, a cui è dedicata la quindicesima sezione, intitolata Beijing East Village (dal nome della comunità di artisti che si formò a Pechino nel 1993, della quale Ai Weiwei fu parte integrante, e che volle porsi come un’alternativa, seppur clandestina, al clima culturale imposto dal regime comunista), si arriva agli sviluppi più recenti della carriera dell’artista cinese: le sale della Strozzina sono ricoperte di fotografie che attestano lo stretto regime di sorveglianza al quale Ai Weiwei è stato sottoposto (il documentario Disturbing the peace racconta in parte i perché della particolare attenzione che il governo cinese ha dedicato e continua a dedicare all’artista). Sono immagini scattate quasi sempre per caso, con un cellulare, nei momenti in cui l’artista si accorgeva di essere seguito da agenti in borghese che puntualmente finiscono nelle fotografie, spesso con espressioni di sorpresa: testimonianze eloquenti al pari delle opere d’arte che Ai Weiwei ha dedicato proprio al tema della sorveglianza (come Surveillance Camera, una telecamera in marmo esposta in due esemplari: una al piano nobile, e l’altra agli Uffizi), e particolarmente efficaci nel comunicare che l’arte e la realtà non viaggiano mai su binari separati. Al tema della repressione si collega anche un’opera come Taxi Window Crank del 2012 (riproduzioni in cristallo di maniglie di finestrini di taxi, allusione alle disposizioni che, nel 2011, imposero ai tassisti di rimuovere le maniglie dei finestrini in modo che a eventuali dimostranti fosse impedito di utilizzarle come armi improprie), posta a capo di una rapida successione che la vede seguita da Mask del 2013, una maschera antigas che emerge da una lastra sul pavimento (una sorta di denuncia dell’inquinamento che attanaglia le grandi città della Cina) e Tyres del 2016, un’opera che, nonostante le ridotte dimensioni, colpisce con forza l’osservatore: sono riproduzioni di salvagenti utilizzati dai migranti per mettersi in salvo dalle acque del mare. Scene a cui l’artista ha assistito in Grecia, nell’isola di Lesbo, dove ha recentemente deciso di aprire uno studio: la sua vicinanza ai migranti è molto più concreta di quanto si possa pensare. Chiudono il percorso “sotterraneo” le sale dedicate alle ultimissime “attività social” di Ai Weiwei: Leg Gun è un omaggio a tutti gli utenti dei social che si sono fotografati nel gesto della gamba impugnata a mo’ di fucile, ideato dall’artista come protesta contro la repressione e diventato virale, ma è anche la prova forse più concreta della padronanza dei social da parte di Ai Weiwei, mentre Selfie è un insieme di autoscatti che l’artista ha pubblicato sui social dal 2012 a oggi.

Ai Weiwei, Taxi Window Crank
Ai Weiwei, Taxi Window Crank (2012; cristallo, 3,6 x 11,5 x 4 cm; Galleria Continua, San Gimignano/Pechino/Les Moulins/L’Avana)


Ai Weiwei, Mask
Ai Weiwei, Mask (2013; marmo, 30 x 80 x 80 cm; Courtesy of Ai Weiwei Studio)


Ai Weiwei, Tyres
Ai Weiwei, Tyres (2016; marmo, 50 x 80 x 72 cm; Courtesy of Ai Weiwei Studio)


Leg Gun
Alcune fotografie della serie Leg Gun (2014)


Selfie
Alcune fotografie della serie Selfie (2012-2016)


Ai Weiwei, Surveillance Camera with plinth
Ai Weiwei, Surveillance Camera with plinth (2015; marmo, 117 x 52 x 52 cm; Courtesy of Ai Weiwei Studio)

Risalendo al piano nobile, si incontra l’installazione Refraction, del 2014, costituita da una serie di cucine solari che assumono la forma di un’ala, che rimane però attaccata al terreno: è ancora un simbolo di quella libertà a cui l’artista aspira, ma che la repressione tenta costantemente e in tutti i modi di fermare. Il passaggio da Reframe a Refraction è uno dei più intelligenti di tutta la mostra: è al contempo introduzione e riassunto, lode elevata a quanti tentano con la propria forza di conquistare la libertà, dichiarazione d’intenti ed efficace presentazione del messaggio che l’artista vuole comunicare non solo a chi visita la sua mostra, ma a chiunque si trovi a passare da piazza Strozzi (Refraction si trova nel cortile del palazzo). Quindi, per estensione, al mondo intero. Ma le due installazioni si caratterizzano anche per il senso di precarietà che suggeriscono a chi le osserva: i gommoni in balia delle onde del mare, le cucine solari riunite in un’ala raccogliticcia, animata da un anelito alla libertà quanto instabile e quasi velleitaria. Ma la libertà passa necessariamente attraverso l’incertezza, e Ai Weiwei ha spiegato bene questo concetto in un’intervista a Hans Ulrich Obrist, inclusa nel catalogo della mostra (oltre a questo contributo, da segnalare un lungo saggio di Karen Smith dedicato alla produzione, specie quella recente, del protagonista di Libero, e un’ulteriore intervista fatta all’artista islandese Olafur Eliasson, che con Ai Weiwei ha lavorato al progetto Moon): l’incertezza è quella del migrante “disposto a sacrificare tutto ciò che conosce, quello che sa, la lingua, le abitudini, i ricordi, e i rapporti” per recarsi in un paese straniero (e magari ostile: non può saperlo prima di partire), ma è anche quella che caratterizza il nostro tempo e "scuote le fondamenta della civiltà occidentale e il cosiddetto establishment".

Ai Weiwei, Reframe
Ai Weiwei, Reframe (2016; PVC, policarbonato, gomma, 650 x 325 x 75 cm ciascuno; Courtesy of Ai Weiwei Studio)


Ai Weiwei, Refraction
Ai Weiwei, Refraction (2014; cucine solari, bollitori, acciaio, 222,5 x 1256,5 x 510,6 cm; Courtesy of Ai Weiwei Studio)

Il compito di accogliere il visitatore nella parte della mostra allestita nel piano nobile di Palazzo Strozzi è demandato a Stacked, un’installazione del 2013 (ma ripensata in un nuovo allestimento appositamente per Libero) che impila una serie di biciclette di marca Forever (le uniche circolanti in Cina durante l’infanzia dell’artista): il riferimento ai problemi di mobilità che interessano la Cina è piuttosto immediato, così come è immediato il richiamo al celebre ready made duchampiano della ruota di bicicletta, che tuttavia si legge e si inquadra meglio se si decide, come detto sopra, di visitare prima le sale della Strozzina. Se Stacked stupisce ma strappa anche un sorriso, nella sala successiva la drammatica Snake bag ci travolge in tutta la sua tragicità: è un’installazione realizzata con zainetti per la scuola appartenenti a bambini morti durante il terremoto della provincia del Sichuan del 2008. Quella di Ai Weiwei è un’accusa forte: il serpente è uno degli animali simbolo della Cina, e il messaggio che dall’opera trapela ci parla delle mancanze del regime, colpevole di aver costruito scuole con materiali scadenti, oltre che di aver insabbiato le inchieste sulla tragedia. Le peggiori noie che Ai Weiwei ha avuto con il governo cinese sono nate proprio a seguito di un’indagine sul terremoto della provincia del Sichuan: interessante dunque la scelta di rivestire la sala seguente, Wood, con una delle ultimi realizzazioni di Ai Weiwei, The Animal That Looks like a Llama but is Actually an Alpaca, del 2015. È una carta da parati bianca con decorazioni dorate il cui protagonista è l’uccellino di Twitter che s’intreccia con catene e telecamere di sorveglianza: il riferimento è al periodo di detenzione che l’artista dovette subire nel 2011 (l’alpaca era protagonista di un meme largamente utilizzato dagli attivisti sul web per protestare contro la censura del governo).

Ai Weiwei, Stacked
Ai Weiwei, Stacked (2012; biciclette, acciaio, gomma, 571 x 1214,7 x 733,9 cm; Galleria Continua, San Gimignano/Pechino/Les Moulins/L’Avana)


Particolare di Stacked
Particolare di Stacked


Ai Weiwei, Snake bag
Ai Weiwei, Snake bag (2008; 360 zaini, 40 x 70 x 1700 cm; Courtesy of Ai Weiwei Studio)


Ai Weiwei, The Animal That Looks like a Llama but is Actually an Alpaca
Ai Weiwei, The Animal That Looks like a Llama but is Actually an Alpaca (2015; carta da parati; Courtesy of Ai Weiwei Studio)

Sempre in Wood, la mostra introduce il visitatore a un altro dei temi fondamentali dell’arte di Ai Weiwei: la rielaborazione della tradizione e il suo rapporto con la società contemporanea. Un’opera come Grapes, una sorta di grappolo formato da una serie di sgabelli in legno tradizionali uniti tra loro, si presta a molteplici interpretazioni: può alludere alla forza che possono acquisire i singoli se decidono di riunirsi, può essere un simbolo della radicale trasformazione che la società cinese ha conosciuto negli ultimi anni, ma può essere letta anche come omaggio alla capacità creativa dell’artista che prende un oggetto banale, familiare, di uso comune, e lo trasforma in un’opera d’arte. Se Map of China è un’opera dal sapore vagamente romantico (una grande mappa in legno formata da diversi pezzi uniti tra loro in un’unica entità: esattamente come le svariate etnie che popolano il territorio della Cina), così come lo è, nella sala denominata Jingdezhen (una grande città cinese nota per la sua produzione di porcellana), la piccola e meravigliosa Free Speech Puzzle, dove trentadue tessere di porcellana che simboleggiano le province cinesi formano un’ulteriore mappa della Cina caratterizzata dal motto “Libertà di parola” riportato in ognuno dei trentadue tasselli, le opere che si incontrano nella sala nove, Vases, ci appaiono decisamente più radicali e animate da una volontà iconoclasta da interpretare però in chiave positiva, in senso pressoché nouveau réaliste. Han Dynasty Vases with Auto Paint e Dropping a Han Dynasty Urn sono due tra le opere più famose, discusse e controverse di Ai Weiwei: nel primo caso abbiamo una serie di vasi risalenti alla dinastia Han (tra il III secolo a.C. e il III d.C.) che l’artista ha ricoperto di vernice da carrozziere, mentre la seconda è la celeberrima performance, del 1995, durante la quale l’artista ha distrutto un’urna Han risalente a circa duemila anni fa. Ai Weiwei è consapevole che non può esistere un futuro che non tenga conto della tradizione, dell’identità culturale di un popolo, della memoria storica: di conseguenza, in queste opere, l’annientamento deliberato della tradizione è un metodo provocatorio per affermarne l’enorme importanza. Don’t know what you got til it’s gone, diceva una celebre ballad degli anni Ottanta: banalizzando con certa violenza, il concetto, da Man Ray ad Ai Weiwei passando per i Cinderella, è più o meno lo stesso, con tutte le sfumature dei vari casi e per tutte le situazioni a cui si può applicare, ma sempre in qualche modo legato a una catena “negazione-presenza/assenza-distruzione” che si rincorre ciclicamente.



Ai Weiwei, Map of China
Ai Weiwei, Map of China (2013; legno tieli da templi distrutti della dinastia Qing, 55 x 195 x 195 cm; Courtesy of Ai Weiwei Studio)


Ai Weiwei, Free speech puzzle
Ai Weiwei, Free speech puzzle


Le opere nella sala Vases
Le opere nella sala Vases (in primo piano, Han Dynasty Vases with Auto Paint; dietro, riproduzioni in mattoncini lego delle fotografie di Dropping a Han Dynasty Urn)

E che Ai Weiwei sia un artista particolarmente attaccato alla tradizione, lo si evince non solo dal suo sapiente uso delle tecniche tradizionali (in mostra è possibile trovare molti lavori in ceramica e in legno) ma anche dal suo continuo ispirarsi ai temi tipici della cultura e della storia cinese: in una sala, Mythologies, trovano spazio alcune splendide sculture in seta e bambù (Taifeng, il “grande vento”, Huantouguo, l’uomo uccello, e Feiyu, il pesce volante) che, oltre a essere realizzate con tecniche tradizionali, raffigurano personaggi che si ispirano alle creature dello Shan Hai Jing, “Il libro dei monti e dei mari”, una descrizione geografico-mitologica della Cina le cui origini risalgono a circa duemila anni fa. Queste figure fantastiche che pendono dal soffitto della sala non ci dimostrano soltanto il vivo interesse di Ai Weiwei per la cultura tradizionale cinese: poiché lo Shan Hai Jing era un libro proibito dal regime, diventano anche simboli della contestazione, e non a caso sono inserite assieme a diverse fotografie della provocatoria serie Study of Perspective. La loro presenza in mostra costituisce uno dei passaggi allo stesso tempo più interessanti ed emozionanti dell’intera rassegna. Peccato solo non poter vedere la serie Zodiac Heads al completo, come avvenuto in altre mostre di Ai Weiwei: ci si deve contentare della scimmia, a ricordare l’animale che rappresenta l’anno 2016 nell’astrologia cinese. Ma è comunque una presenza particolarmente significativa, perché i cinesi attribuiscono al segno della scimmia l’instabilità e l’imprevedibilità: torna a manifestarsi apertamente quell’incertezza di cui si parlava a proposito di Reframe e Refraction (ma che in realtà mai abbandona il percorso espositivo). E se si parla di cultura e di tradizione, non si può non fare un cenno all’omaggio che, in mostra, Ai Weiwei dedica all’Italia: in Renaissance abbiamo Divina proportio e Untitled - Wooden ball, sculture dichiaramente ispirate alle illustrazioni che Leonardo da Vinci realizzò per il De divina proportione di Luca Pacioli, e soprattutto abbiamo i ritratti in mattoncini Lego di quattro dissidenti del passato (Dante, Galileo, Savonarola e Filippo Strozzi) che inevitabilmente si ricollegano al motivo strisciante di tutta l’esposizione. Anche in questo caso, una scelta perfettamente coerente con il senso di Libero.

Ai Weiwei, Feiyu
Ai Weiwei, Feiyu (2015; bambù e seta, 60 x 320 x 200 cm; Galleria Continua, San Gimignano/Pechino/Les Moulins/L’Avana)


Ai Weiwei, Huantouguo
Ai Weiwei, Huantouguo (2015; bambù e seta, 250 x 400 x 170 cm; Galleria Continua, San Gimignano/Pechino/Les Moulins/L’Avana)


Ai Weiwei, Taifeng
Ai Weiwei, Taifeng (2015; bambù e seta, 200 x 170 x 86 cm; Galleria Continua, San Gimignano/Pechino/Les Moulins/L’Avana)


Ai Weiwei, Monkey
Ai Weiwei, Monkey (2011; bronzo con patina dorata, 69 x 33 x 38 cm; Faurschou Foundation, Pechino/Copenaghen)


La fotografia della serie Study of Perspective dedicata a Palazzo Strozzi
La fotografia della serie Study of Perspective “dedicata” a Palazzo Strozzi


La sala Renaissance
La sala Renaissance con in primo piano Divina proportio, dietro Untitled - Wooden ball, e alle pareti i ritratti in mattoncini Lego di Dante, Galileo e Savonarola

Il percorso del piano nobile si chiude con un ulteriore grido contro la censura: He Xie (centinaia di piccoli granchi in porcellana, la cui pronuncia in cinese ricorda quella della parola “armonia”, slogan governativo, ribaltato quindi in chiave ironica, e l’ironia è importante cifra stilistica di Ai Weiwei) e Souvenir from Shanghai ricordano la vicenda dello studio dell’artista fatto radere al suolo dalle autorità cinesi all’inizio del 2011. Dello studio non rimangono che alcuni brandelli, macerie raccolte da Ai Weiwei e incorniciate dal telaio di un letto in legno, risalente alla dinastia Qing. La tradizione, di nuovo, tiene in piedi i lacerti di un presente incerto, e il visitatore termina il percorso espositivo forse con ancor più domande di quelle che aveva all’inizio del suo viaggio nell’arte di Ai Weiwei.

Ai Weiwei, He 
Xie
Ai Weiwei, He Xie (2011; granchi in porcellana di varie dimensioni; Courtesy of Ai Weiwei Studio)


Ai Weiwei, Souvenir from Shanghai
Ai Weiwei, Souvenir from Shanghai (2012; cemento e macerie di mattoni dello studio demolito dell’artita a Shangai, che includono un telaio di legno, 260 x 380 x 170 cm; Courtesy of Ai Weiwei Studio)

Ma le risposte, forse, devono arrivare da dentro di noi. O, almeno, l’intento dell’artista è quello di spingerci a una riflessione, su di noi e sul mondo che ci circonda. Ogni opera è quindi un invito che si sussegue lungo un filo ininterrotto che si raccoglie attorno ad alcuni temi principali: sono i temi portanti dell’arte di Ai Weiwei, che Arturo Galansino ha ottimamente riassunto in una rassegna con poche sbavature (un paio di esempi: il Sex Toy, che appare nella sezione Objects e su cui glissano Galansino e Ludovica Sebregondi, curatori dei testi della mostra, andava meglio contestualizzato, e lo stesso vale per il grande Crystal Cube che suggella in modo un po’ impacciato la sala dedicata a Beijing East Village), che lascia piena libertà al visitatore, e che ha ovviamente l’altissimo merito di far riflettere sul contemporaneo una città, Firenze, spesso piegata su se stessa e poco capace di elaborare una proposta contemporanea di alto livello. Una mostra che, occorre evidenziarlo, zittisce quanti pensano che Firenze debba crogiolarsi sui fasti del suo glorioso passato senza mai doversi mettere in discussione. E infine una mostra che pone (spesso in modo quasi brutale) il visitatore di fronte a molti dei drammi di oggi, che arricchisce e contribuisce a far aprire gli occhi sul mondo, rendendoci consapevoli fin dalla facciata e dal cortile di Palazzo Strozzi che, cito ancora dall’intervista con Obrist, nel corso della storia “non siamo mai stati così liberi, ma al contempo questa condizione ci incatena; perché più siamo liberi, più ci rendiamo conto di essere in catene”. Una sorta di appello alla responsabilità, al pensiero critico, che fa leva sulla nostra autonomia.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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