Ne hanno parlato in molti: ieri, la Commissione Affari Costituzionali della Camera si è riunita per discutere sul disegno di legge della Pubblica Amministrazione, e tra i vari emendamenti approvati durante i lavori, ce n’è uno che ha fatto molto discutere. È quello proposto da Marco Meloni del PD. Riguarda l’articolo 13 del ddl, e recita così: "Al comma 1, dopo la lettera b), aggiungere la seguente: b-bis) superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso ai concorsi e possibilità di valutarlo in rapporto a fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato e al voto medio di classi omogenee di studenti, ferma restando la possibilità di indicare il conseguimento della laurea come requisito necessario per l’ammissione al concorso“. L’articolo riguarda il ”riordino della disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche": come è noto, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche si accede tramite concorsi pubblici. L’emendamento, tradotto in italiano, vuol significare che, in fase di concorso, qualora sia richiesta la laurea, sarà possibile valutare i voti dei candidati a seconda dell’ateneo di provenienza (“in rapporto a fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato e al voto medio di classi omogenee di studenti”).
Chi ci segue da tempo, sa quanto noi teniamo alle università: perché un tessuto accademico forte è indispensabile per il progresso di una nazione. E poi perché noi stessi proveniamo dall’università: dunque i nostri lettori ci comprenderanno se, per oggi, nel nostro sito evitiamo di parlare strettamente d’arte per discutere invece di una notizia d’attualità che però sentiamo molto vicina (e che riguarda comunque anche l’arte: gli storici dell’arte che lavorano nelle soprintendenze e nei musei statali, regionali e comunali, sono dipendenti della pubblica amministrazione).
Vien subito da pensare alla nostra Costituzione: avrà diversi difetti, ma ha anche tanti pregi. E uno di questi pregi sta scritto nell’articolo 3: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”, e soprattutto “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Si comprende dunque che l’emendamento proposto dall’onorevole Meloni, oltre a essere palesemente discriminatorio in quanto permetterà alle commissioni di dividere i candidati in studenti di serie A e di serie B, è anche incostituzionale perché pienamente in contrasto con l’articolo 3. Suddividere gli studenti secondo l’ateneo in cui hanno studiato non è rimozione di un ostacolo di ordine economico e sociale, anzi: l’ostacolo viene aggiunto.
Palazzo alla Giornata, sede del rettorato dell’Università di Pisa. Foto distribuita con licenza Creative Commons |
Non tutti gli studenti, purtroppo, hanno avuto la fortuna di studiare in quelle che sono ritenute le migliori università. Anche se su questo capitolo ci sarebbe da aprire una lunga parentesi: in base a quali criteri gli eventuali concorsi potranno stabilire quali sono le migliori università? Le classifiche che vengono pubblicate sempre più di frequente, difficilmente vanno d’accordo tra loro, e sono sempre basate su criteri deboli, di dubbia scientificità. Lo scorso anno, il professor Giuseppe De Nicolao dell’Università di Pavia scriveva su ROARS (uno dei più seri e utili siti web sul mondo accademico) che “è ormai assodato come i ranking internazionali siano uno strumento di marketing, delle classifiche assolutamente non scientifiche il cui scopo è quello di influenzare l’opinione di studenti e famiglie su quali siano le migliori istituzioni al mondo. Secondo criteri fissati dall’editore del ranking”. Non ci sono classifiche di atenei realizzate con metodologie solide. Certo, magari le università possono guardare ai ranking come strumento per capire alcune delle loro lacune (e quindi dove possono migliorare), ma le pubbliche amministrazioni possono utilizzarli per decidere della vita di chissà quante persone? La risposta, ovviamente, è negativa.
Ma anche ammettendo una improbabile bontà di tali classifiche, sarebbe giusto discriminare uno studente solo perché non ha avuto i mezzi economici per trasferirsi lontano da casa e studiare nella prima università del ranking, dovendo quindi accontentarsi di quella più vicina a casa, e che magari naviga nei bassifondi della classifica? È giusto discriminare questo studente, che magari ha ottenuto il suo centodieci onestamente e, in fatto di preparazione, non ha niente da invidiare a un suo collega uscito dalla “migliore università”? I politici che stanno dibattendo su questi argomenti si rendono forse conto del male che possono causare se questa vergognosissima norma dovesse avere effetto? Senza contare poi l’effetto negativo che potrebbe avere sulle università stesse: gli studenti sarebbero più portati a frequentare le prime università della classifica, e di conseguenza le ultime dovrebbero contare su risorse sempre più risicate. E questo aumenterebbe il divario tra le università, innescando una pericolosa spirale i cui effetti sono facilmente immaginabili.
L’unico criterio per valutare un candidato a un concorso dovrebbe essere quello del merito. Se un candidato ha una solida preparazione, conta poco dove ha studiato e quale voto ha preso. Gli esami sono fatti apposta per accertare il livello di preparazione e il possesso dei requisiti richiesti a un candidato: impossibile pensare di mettere dei paletti avvantaggiando chi ha studiato in certe università. Sarebbe discriminatorio. Tutti i candidati dovrebbero giocarsela alla pari: saranno poi i più meritevoli a prevalere. Cosa che, tuttavia, in Italia non sempre è accaduta. Dovremmo piuttosto trovare un modo per far pulizia di raccomandazioni e rapporti clientelari. E di certo, questa pulizia non si attua facendo dei distinguo sulle università, anzi: probabilmente sarebbe un modo per rafforzare quanto di marcio attualmente c’è nella pubblica amministrazione del nostro paese.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).