Secondo l’Istat (2021), la visita al museo non rappresenta un’abitudine per gli italiani, relegando il nostro paese al fondo della classifica dei paesi UE per partecipazione culturale dei cittadini.
Il principale errore riscontrabile in larga parte dei nostri musei, a cominciare da quelli della tradizionale tipologia di arte antica e archeologia, può ravvisarsi nel permanere di un’offerta culturale di tipo posizionale vincolata da un approccio fordista. In molti casi gli istituti culturali continuano a rivolgersi a selezionati cluster dotati di specifiche competenze, “sensibilità” e “gusto”, ritenendo che, al contrario di quanto avviene in ogni altro ambito, debbano fordisticamente cercare il pubblico che si adatta all’offerta, considerata di specie unica, immodificabile e autoreferenziale. Parallelamente, molte indagini sui visitatori attestano che i consumi culturali rispondono ancora per lo più ad una domanda di status symbol, animata da motivazioni di prestigio sociale e rivolta soprattutto a pochi grandi celebri musei. Al contempo il concetto stesso di bene culturale viene spesso indebitamente collegato a esemplarità di particolare rarità e pregio estetico, anziché riferirsi ad ogni testimonianza storica materiale e immateriale avente valore di civiltà, cioè relativa al modo di vivere di una comunità vissuta in un dato tempo e luogo.
Così le organizzazioni dedicate ad assicurare la “conoscenza” e “le migliori condizioni di utilizzazione e di fruizione” (D. Lgs. 42/04, art. 6) dei beni culturali spesso, come ben sintetizzato da Bruno Toscano (2000), propongono “una rappresentazione prosopopeica, monumentale e selettiva delle cose d’interesse artistico e storico” e usano un linguaggio metaforico e specialistico oscuro ai più, “lontano da ogni accezione pragmatica, da qualunque interesse per la lettura tecnica dei rapporti spaziali e temporali riferiti dagli oggetti d’arte come dal paesaggio intero”.” Anche la stampa quotidiana (Chiaberge, 2007) segnala da tempo che le opere sono spesso “accompagnate da epigrafi redatte in «storia dell’artichese». Così il visitatore sgomento incappa in fenomeni ampollosi tipo «spazialità realistica di forte illusionismo prospettico» […]. Quanto agli archeologi […] si passa dalla Fibula alla fistula, dal rhyton alla patera, dal bothros alla favissa […]. Prima della lingua, bisognerebbe cambiar le teste dei burocrati e professori, che scrivendo non pensano alla gente normale”.
Le organizzazioni pubbliche preposte alla valorizzazione dei beni culturali che restino ancorate a strategie posizionali, anziché produrre un’offerta in sintonia con la sopravvenuta democrazia di massa, caratterizzata da riforme sociali tra le quali il diritto di cittadinanza alla cultura (artt. 3 e 9 della Costituzione Italiana), contraddicono la propria natura meritoria e, dunque, perdono progressivamente la consonanza con il tessuto sociale e politico-istituzionale, mettendo in pericolo la sopravvivenza loro, nonché quella dello stock sul quale agiscono.
La necessità di ripensare ruolo, funzione e forma dei musei e l’urgenza di efficaci cambiamenti per avvicinarli ai cittadini e favorire la partecipazione culturale è ampiamente sostenuta già da anni a livello internazionale e nazionale. Si pensi, ad esempio, alla Convenzione di Faro (2005), al riconoscimento del museo come servizio pubblico essenziale (D.L. 146/2015), nonché alla nuova definizione di museo (ICOM 2022) quale istituzione “al servizio della società” che opera e comunica “in modo etico e professionale e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”.
A tal fine, di primaria importanza risulta l’innovazione delle politiche di prodotto e, segnatamente, del servizio core (connesso alla valorizzazione del patrimonio) che si sostanzia nella comunicazione delle informazioni storiche in esso nascoste, ripensandone anzitutto contenuti e modalità di erogazione. In pratica si tratterebbe di assicurare ad ampie e varie categorie di utenti l’accessibilità non solo fisica al patrimonio, che costituisce il grado minimo dell’offerta, ma soprattutto intellettuale, garantendo a tutti una comprensione quanto più profonda della vasta gamma di significati impliciti nei beni. In tal senso, i contenuti dovrebbero essere tali da ricostruire ed esplicitare a tutto tondo i fatti storici di cui i beni sono espressione (e non soltanto i loro aspetti formali), anche riferendo ogni oggetto al contesto. La stessa Lettera Circolare della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa (2001) ha chiarito che “il patrimonio storico-artistico ha acquisito, a causa della secolarizzazione, un significato quasi esclusivamente estetico”, mentre il valore delle opere d’arte non può essere inteso in senso “assoluto”, ma va “contestualizzato nel vissuto sociale, ecclesiale, devozionale”, valorizzando “l’importanza contestuale dei beni storico-artistici in modo che il manufatto, nel suo valore estetico non venga distaccato totalmente dalla sua funzione pastorale, oltre che dal contesto storico, sociale, ambientale, devozionale del quale è peculiare espressione e testimonianza”.
Altresì, il linguaggio utilizzato dovrebbe essere aderente alla concreta evidenza dei fenomeni e comprensibile ad un pubblico non necessariamente munito di competenze specialistiche.
Oltre a ciò, occorrerebbe differenziare l’offerta in ragione dei diversi cluster di domanda. Oltre che degli usuali criteri (età, istruzione ecc.), si potrà utilmente tener conto dei contesti geografici e culturali di provenienza, per poter soddisfare al meglio anzitutto il pubblico locale offrendogli una presentazione degli oggetti molto contestualizzata rispetto alla storia sociale, civile, religiosa, economica, artistica, etc. del posto.
Per tali e altre innovazioni attraverso le quali ripensare ruolo, funzione e forma dei musei imprescindibile risulta la dotazione di personale altamente qualificato e dotato di competenze interdisciplinari, aspetto sul quale si sta da anni lavorando (Curricula Guidelines for Museum Professional ICOM-ICTOP 2000; Manuale europeo delle professioni museali ICTOP-ICOM Italia, ICOM France e ICOM Suisse 2008; Carta Nazionale delle Professioni Museali ICOM Italia 2005 e succ. agg. 2015, 2016 e 2017; Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali e Scuola del Patrimonio; Università e altre agenzie di formazione).
Dunque, il museo, attraverso la conoscenza e l’ascolto del proprio pubblico, dovrebbe stabilire le strategie di comunicazione più adeguate ad esplicitare il potenziale informativo implicito nelle raccolte, attuando scelte che non sono mai neutre, ma che dovrebbero essere rispondenti alle esigenze di cluster sempre più ampi e differenziati. Altresì, non va dimenticato che per il consumo di beni culturali si parla di utilità marginale crescente, in quanto la visita soddisfacente di un museo non può che favorire la visita di altri musei.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 19 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.