Visitare la Biennale di Venezia non è impresa facile. Visitare la Biennale di Venezia è un impegno, per il corpo e per la mente. Visitare la Biennale di Venezia è un’avventura e, come tutte le avventure, può essere gratificante e frustrante al tempo stesso.
Ci gratificano le scoperte inedite, i significati nascosti che all’improvviso si palesano e, laddove non capivamo tutto si fa chiaro, ci sentiamo finalmente parte di qualcosa di cui siamo anche noi protagonisti. Un attimo dopo, senza preavviso, ci sentiamo frustrati nello scoprire dietro l’angolo, altrettanto improvvisamente, qualcosa che contraddice quanto eravamo certi di aver appena chiarito dentro di noi, attraverso i nostri sensi, pensieri ed emozioni. Visitare la Biennale di Venezia è come essere seduti su un’altalena che ci fa oscillare in un continuo alternarsi di punti di vista, in maniera troppo repentina, da qui a là e viceversa.
Eppure è un’avventura, e come tale non si dimentica, qualcosa resta, qualcos’altro meno, ma questo processo è parte costitutiva della sua essenza.
La Biennale dev’essere visitata da protagonisti e al tempo stesso da presenze marginali: una situazione paradossale. Cerchiamo di spiegarci meglio, analizzando le due, apparentemente opposte, condizioni. Nel primo caso, ci sentiamo fin da subito chiamati in causa alla costruzione di un senso: non ci è permesso di tenere un atteggiamento passivamente contemplativo (del resto, quando mai ci è concesso di fronte ad un’opera d’arte? Ma siamo portati a pensarlo quando visitiamo un museo o un’esposizione “tradizionale”). Poche didascalie, a volte nessuna, spiegazioni scarne e molto spesso criptiche nei concetti che intendono evocare, piuttosto che esplicare; noi visitatori diventiamo così i naturali prosecutori di quei significati, ci sentiamo chiamati da ciò che vediamo, quasi responsabilizzati alla ricerca di un senso dell’opera. Nel secondo caso invece, essenzialmente per le stesse ragioni, ci sentiamo esclusi, un po’ come avveniva nelle corti rinascimentali, quando si entrava nello studiolo di un signore, in una sala del suo palazzo, e l’iconografia delle immagini ivi dipinte era un mistero, chiaro solo a pochi, quei pochi che l’avevano per l’appunto messo in piedi.
Ci troviamo dinnanzi ad un paradosso quindi: essere chiamati a completare il senso dell’opera proprio nel momento in cui esso viene mascherato ai nostri occhi, o comunque non viene direttamente espresso.
A questo punto entra in gioco un ulteriore elemento, fondamentale per la comprensione del fenomeno espositivo, unico nel suo genere, che è la Biennale di Venezia: la sua vastità; non dimentichiamo anche la sede dell’Arsenale, dove si trova inoltre il Padiglione Italia. Impossibile visitarla interamente in un giorno, e allora su quale base scegliere? Entrano in gioco diversi fattori, più prettamente culturali e più propriamente caratteriali, emotivi, casuali addirittura.
Il Padiglione Biennale ai Giardini va visto: al suo interno dovremmo trovare la traccia, una specie di mappa mentale che presiede la tematica scelta per l’edizione corrente; dal momento in cui si tratta del Padiglione nel quale il curatore allestisce la sua mostra, un indizio lo dovremmo avere per poterci poi muovere in libertà tra i diversi padiglioni che ci aspettano.
Nell’ultima Biennale, del 2019, intitolata May You Live In Interesting Times, curata da Ralph Rugoff, lo spazio centrale del Padiglione era occupato da un’opera imponente, che dominava la scena, Can’t Help Myself, realizzata nel 2016 dai due artisti cinesi Sun Yan e Peng Yu: un braccio meccanico, un robot, che si impegnava in un gesto ripetitivo, a compiere un’azione impossibile, ossia raccogliere del liquido rosso, simile a del sangue, che debordava continuamente dall’area in cui doveva essere contenuto, secondo la “programmazione” in origine impostata. Il robot agiva secondo una gestualità umana, insinuando nello spettatore la sensazione di trovarsi di fronte ad un paradosso visivo, percettivo ed emotivo. Nella stessa Biennale il Padiglione del Belgio presentava un lavoro intitolato Mondo Cane di Jos de Gruyter e Harald Thys, un allestimento che mostrava all’opposto un mondo costituito da figure con sembianze umane ma ridotte ad automi inquietanti, marionette senza volontà propria: quale il confine tra la macchina e l’uomo? Apertura di orizzonti di pensiero sul nostro tempo, sparsi in innumerevoli tracce nel percorso, talora evidenti e forti come in questi due esempi: l’opera al centro del Padiglione Biennale e un mondo alternativo e carico di inquieti presagi, tra passato e futuro, che occupava un intero Padiglione nazionale.
Ci si muove così, nello spazio dei Giardini napoleonici, sapendo che si vedranno alcune cose, altre no, ed è qui che la nostra avventura si fa frustrante: e se perdessi qualcosa di essenziale? Perdendo tempo a vedere altro di meno interessante, importante e unico? Non è questo lo spirito che dobbiamo avere per visitare la Biennale, ne usciremmo perdenti. Dobbiamo convincerci che proprio il rapporto tra ciò che riusciamo a vedere e ciò che non vedremo va a costituire il senso della nostra esperienza di visita alla Biennale di Venezia, unica e irripetibile nello stesso modo, poiché si tratta di creare connessioni, infinitamente possibili, tra le diverse proposte artistiche. La Biennale di Venezia è la più contemporanea delle mostre contemporanee proprio nella misura in cui è il regno del possibile piuttosto che quello del già realizzato; e quel possibile è determinato dalla presenza dei visitatori che costruiscono trame di senso interne, sempre differenti, ricche di suggestioni e visioni, che non possono mai essere le stesse.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 14 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte Magazine. Clicca qui per abbonarti.