Riceviamo e pubblichiamo questo articolo in risposta all’editoriale del direttore di Finestre sull’Arte, Federico Giannini, intitolato Patrimonio dell’Umanità UNESCO, quest’anno piovono le critiche. È un sistema da cambiare? pubblicato lo scorso 4 agosto sulla nostra rivista. L’autore dell’articolo, Daniel Pommier, è ricercatore in sociologia dei fenomeni politici presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università di Roma La Sapienza.
Veduta di Baku, capitale dell’Azerbaigian. Ph. Credit Ministero del Turismo e della Cultura dell’Azerbaigian |
Spesso in Italia leggiamo, nei nostri centri storici o in alcune aree naturali di pregio (dal centro di Roma a Venezia, dalla val di Noto alla Val d’Orcia) l’indicazione “siti Unesco” o “patrimoni dell’umanità”. L’Unesco è un’organizzazione in seno alle Nazioni Unite, che promuove e tutela il patrimonio culturale dei popoli, dal punto di vista artistico, archeologico, ambientale, anche immateriale legato a tradizioni, lingua, musica, cucina, sport e a tutte le manifestazioni che in senso più profondo esprimono il pluralismo culturale dell’umanità. L’Unesco è l’organo che attua la convenzione sul patrimonio mondiale approvata nel 1972 e ratificata pressoché dalla totalità dei Paesi membri delle Nazioni Unite.
L’organizzazione, cosi come la FAO, l’OMS, l’FMI, ha una sua governance autonoma e una sua modalità di funzionamento. Il “riconoscimento Unesco” è un obiettivo prestigioso di Stati e comunità locali, che reca fama e ha anche importanti ricadute materiali, ad esempio in ambito turistico. Ottenere il sigillo Unesco non è semplice e impegna gli Stati beneficiari a una stretta politica di tutela dell’area o della tradizione che entra nel patrimonio dell’umanità. Dalla lista si può anche usciere per una cattiva politica di conservazione e molti siti sono classificati “a rischio”. Il World Heritage Committee, una sorta di organismo politico direttivo dell’Unesco, si riunisce periodicamente per individuare i nuovi siti da inserire nella lista globale. L’ultima sessione del comitato si è tenuta a luglio a Baku, capitale della Repubblica dell’Azerbaigian e ha visto l’inserimento di ventinove nuovi siti: dalle “colline del Prosecco” in Veneto, alla casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright, alla città di Sheki nello stesso Azerbaigian: un incredibile insieme architettonico di case e palazzi, costruiti tra XVIII e XIX secolo, dove si uniscono gli stili orientale e occidentale con una prossimità unica al mondo. Dopo l’approvazione della lista partono le polemiche.
L’obiettivo è l’Azerbaigian, con il solito portato di luoghi comuni, doppio standard, accuse infondate verso uno dei pochi Paesi di cultura islamica profondamente laico, multiculturale, stabile nelle istituzioni e nell’economia, così come nella dimensione geopolitica caucasica. Le accuse seguono il consueto copione delle fake news e delle notizie non verificabili: distruzioni di siti di cultura armena nel territorio azerbaigiano, pressioni per far inserire i propri siti nella lista Unesco e altre accuse a cui ha risposto, in Italia, con dati fattuali l’ambasciatore Mammad Ahmadzada. Le ragioni di tale accanimento? È un Paese che dà fastidio: ad alcune lobby, a chi non vuole che un piccolo Stato indipendente rompa equilibri consolidati ad esempio nelle politiche energetiche, a chi disegna l’idea di un Occidente monoculturale e cristiano che rifiuta il pluralismo, la laicità, l’incontro e il dialogo con l’altro. Da questo punto di vista l’Azerbaigian, che preferisce investire anche in cultura e non solo nel settore militare (nonostante il 20% del suo territorio sia stato illegalmente invaso dall’Armenia venticinque anni fa e rimanga occupato) è una vittima perfetta. Difenderlo non significa solo rappresentare la verità storica, ma battersi per un modello di sviluppo, relazioni internazionali, politiche culturali contro chi è capace di alzare solo muri e steccati e ci vorrebbe alieni alla diversità.