Un museo aperto alle sfide del presente: inclusivo, accessibile, partecipato


Un museo, oggi, non è più solo luogo di conservazione, ma anche luogo aperto alle sfide del presente e del futuro, che guarda avanti, che mantiene salda la missione di preservare le opere ma che deve essere in grado di saperle condurre verso orizzonti di conoscenza nuovi e inesplorati. Ecco come.

Se fino a pochi decennî fa il dibattito museale era orientato fra museologia e museografia, oggi la considerazione dei visitatori sotto il profilo psicologico e sociale è divenuta importante altrettanto quanto la valorizzazione dell’identità della collezione, della conservazione e dell’allestimento delle opere. È emersa quindi un’idea completamente nuova di museo: nuova ma “antica”, perché affonda le sue radici nella nascita del museo pubblico e nell’apertura “al popolo” in qualche modo messa in atto dall’Illuminismo.

Un tema, questo, che non si è mai fermato e che è stato certificato con la nuova definizione di ICOM del 2022 che, dopo un acceso dibattito interno, ha avallato l’idea di museo come luogo per educare, che può stimolare la riflessione, l’apprendimento, dove si può vivere un’esperienza piacevole e nel contempo riflettere, aprendo la strada a continui e infiniti momenti di condivisione. Un museo inclusivo, accessibile, partecipato. Un museo aperto anche alle sfide del presente e del futuro, che guarda avanti, che mantiene salda la missione di preservare le opere ma che deve essere in grado di saperle condurre verso orizzonti di conoscenza nuovi e inesplorati.

Attualmente l’utilizzo delle tecnologie multimediali e digitali contribuisce a una continua sperimentazione di formule innovative di fruizione, adatte a nuovi scenari e a differenti esigenze del pubblico. Il museo è oggi attore/interlocutore privilegiato per interpretare e sviluppare i paradigmi della modernità nell’era della digital transformation. Come essere pronti per portare avanti questa sfida e sviluppare la missione di museo come servizio pubblico? Intanto nella piena consapevolezza che il cambiamento riguarda tutto il comparto cultura come lucidamente già aveva capito un grande musicista e direttore d’orchestra come Alberto Zedda che così scriveva: “Finché l’opera lirica rispondeva a esigenze prossime al gusto corrente, il compito della sua riproduzione era relativamente semplice, perché aiutato da una tradizione diffusa, capace di suggerire risorse interpretative in uso... Oggi bisogna impostare la produzione considerando potenziale interlocutore non soltanto il pubblico degli abbonati, ma quello ben più vasto raggiungibile in casa con i sofisticati strumenti di riproduzione che fornisce un mercato in costante espansione. Le previsioni per il futuro, dominate dall’Internet, delineano un mondo di fantascienza col quale anche lo spettacolo tradizionale dovrà fare i conti. Non tenerne conto sarebbe imprevidenza non perdonabile”.

La lucida analisi del maestro Alberto Zedda, letta oggi nel XXI secolo, impone quindi una riflessione sulla trasmissione del valore che il sistema cultura nel suo complesso, incluso lo spettacolo dal vivo e la musica lirica, può esprimere nell’età contemporanea, entrando a pieno titolo nell’era digitale e se si apre ai nuovi scenarî per cogliere e intercettare nuovi pubblici attraverso le tecnologie emergenti ed esponenziali, il mondo di fantascienza descritto da Zedda. Che cos’è l’Internet di cui parla Zedda, infatti, se non quella dimensione che è oggi parte integrante del nostro ecosistema culturale, la dimensione digitale dove la cultura nasce, è commentata, discussa, condivisa, contaminata, modificata? E come possiamo leggere il museo in questo nuovo contesto se non come un laboratorio in continua evoluzione nel solco della sua tradizione millenaria che dai thesauroi greci è arrivata ai musei di narrazione senza opere?

Su questa premessa è difficile stilare un elenco di cosa si può o non si può fare in un museo. È invece fondamentale dotare ogni museo di una direzione scientifica e autorevole in grado di ideare, sulla base delle collezioni presenti, nuovi modelli di trasmissione della storia delle opere, trovare in ognuna di loro un elemento che si presti a letture attuali. Non inseguendo modelli di puro intrattenimento ma di dialogo e confronto partecipato. Non attività fini a sé stesse ma sempre in linea con lo spirito che aleggia nel museo, il significato profondo delle sue collezioni. Potremmo forse biasimare la Beyeler Foundation per aver allestito una suggestiva lezione di yoga di fronte alle Ninfee di Monet dove l’opera stessa diventa fonte di meditazione? O il Rijksmuseum di Amsterdam per aver anticipato con la piattaforma digitale Closer to Johannes Vermeeer la conoscenza di ogni singolo dettaglio dell’opera del maestro della mostra che il pubblico è poi corso a visitare in massa? O il Comune di Recanati per aver allestito una digital experience dedicata a Lorenzo Lotto dove il visitatore è accolto da un monitor dove un attore che interpreta attraverso una sceneggiatura il maestro, ci racconta la sua visione della vita, dell’arte e l’amore per le Marche volutamente di fronte un’opera dell’artista?

Yoga sotto i dipinti di Monet alla Fondation Beyeler di Basilea
Yoga sotto i dipinti di Monet alla Fondation Beyeler di Basilea
Home di Closer to Vermeer
Home di Closer to Vermeer
Lotto Digital Experience a Recanati
Lotto Digital Experience a Recanati

Piuttosto mi sento di levare un grido di allarme per la sorte dei musei civici in balia talvolta, più che di curatori o direttori specializzati, di assessori o dirigenti esperti in altre materie che avallano mostre, programmi, attività senza un disegno, una linea logica, alimentando una progressiva dematerializzazione della funzione concreta e costante nel tempo del museo come luogo simbolico di rappresentanza della collettività e delle comunità incluse le minoranze. Ricorderò sempre l’emozione circa venti anni fa quando, visitando il Musée des Beaux-Arts di Digione, notai le didascalie delle opere tradotte anche in lingua araba, a dimostrazione dell’apertura della direzione verso le comunità musulmana della città.

Il nodo quindi, a mio avviso, è la centralità della direzione museale. Senza una direzione si apre la strada al museo come luogo di conservazione delle opere, o nel peggiore dei casi, come luogo di rappresentazione di attività che stridono con l’universo che esso racchiude; al museo dove si può registrare, nel tempo assenza di cura nei confronti di allestimenti datati, illuminazione delle opere non conforme, apparati didattici desueti e trascurati.

Questo pericolo è stato, in teoria, scongiurato sul fronte dei musei statali con la nascita, nel 2014, dei musei autonomi dotati di autonomia scientifica, finanziaria, contabile ed organizzativa, salutata come una svolta di livello epocale sia in relazione alla autonomia complessiva affidata che all’individuazione, per ognuno di loro, di un direttore nominato attraverso un bando internazionale. Ecco, questa attenzione continua verso questo grandi attrattori, dovrebbe essere dedicata in modo costante ai musei civici che costituiscono la stragrande maggioranza dei musei del nostro paese. Il pericolo infatti potrebbe essere che se un museo civico, per varie ragioni, e l’assenza di una direzione autorevole è una di queste, perdesse progressivamente il ruolo centrale in una comunità, esso possa diventare prima oggetto di attività non consone, poi un peso economico da gestire e quindi in prospettiva da ridimensionare.

È sempre bene tenere a mente che già Krzysztof Pomian, terminando la sua trilogia sulla storia dei musei edita da Gallimard e in Italia da Einaudi, con il capitolo Un lungo presente. Dal 1945 a oggi, sottolineava come la pandemia abbia rimesso in discussione il modello economico basato sulla crescita dei musei in ogni direzione. In una un’intervista concessa a Il Giornale dell’Arte sui problemi e nuovi orizzonti tracciati dalla pandemia e dalla crisi ambientale e climatica globale, concludeva con questa riflessione: “C’è da temere che non si tratti di una scossa passeggera, e se è così il mondo dei musei dovrà subire nel suo insieme una ristrutturazione profonda, i cui contorni sono ancora poco visibili”.

Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 22 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.


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