Mentre nei giorni scorsi l’attenzione di parte del mondo dei beni culturali veniva catalizzata da un inconsistente e vacuo editoriale del presidente d’una nota associazione, a Firenze, tra l’indifferenza dei più, accadeva qualcosa di più preoccupante: un non meglio precisato manipolo di visitatori del Grande Museo del Duomo, turbato dalle nudità della protagonista di Acceptance, opera di Bill Viola in temporanea esposizione nella cappella delle reliquie, induceva il direttore Timothy Verdon a decidere per lo spostamento dell’installazione in un’altra sala. Ora, potremmo decidere di crogiolarci nell’idea di aver a che fare con dei rumorosi talebani “de noantri” per provare un facile senso di superiorità e limitare la nostra azione a un’altrettanto facile indignazione. Oppure potremmo riversare sui social il nostro sdegno contro l’altrui bigottismo elevato a inflessibile giudice in materia d’arte. E ancora, potremmo ridere dell’ignoranza di chi si scandalizza per un’opera tragica come quella di Bill Viola, inconsapevole che le nostre chiese abbondano di nudi muliebri ben più procaci di quello dell’artista statunitense: gli anonimi segnalatori potrebbero morir di crepacuore se si recassero a Roma, in Sant’Isidoro a Capo le Case, e dessero un’occhiata alla secentesca Cappella de Sylva. Tutto legittimo e sensato: credo che però occorra anche condurre qualche breve riflessione aggiuntiva.
A sinistra: Bill Viola, Acceptance, particolare (2008; Video in bianco e nero ad alta definizione su schermo al plasma installato a parete in verticale; audio stereofonico e subwoofer. Interprete: Weba Garretson; durata: 8’14"; 155,5 x 92,5 x 12,7 cm; Courtesy Bill Viola Studio). A destra: Donatello, Maddalena penitente (1455-1456; legno, altezza 188 cm; Firenze, Museo dell’Opera del Duomo) |
Sul Corriere Fiorentino, il quotidiano che ha riportato la notizia dello spostamento di Acceptance, il vicedirettore Eugenio Tassini ha ricordato, in un suo editoriale, che Firenze è da secoli avvezza al nudo, che anche la Chiesa, nel corso del Novecento, cominciò ad abituarsi al pensiero che “brache, foglie e camicie” fossero un di più che poco aveva a che fare col messaggio che le opere ricoperte intendevano trasmettere, e che probabilmente anche dalle nostre parti cominci a manifestarsi “quel vento di integralismo che soffia forte non così lontano da noi”. Evitando difficili, spinosi e forse poco calzanti paragoni tra l’integralismo di casa nostra e quello che ha scatenato le distruzioni, citate da Tassini, dei Buddha di Bamiyan e delle vestigia di Palmira, c’è una considerazione che merita d’essere approfondita: quella circa il medium dell’opera. Secondo Tassini, “i video sono associati oggi nella cultura diffusa a quel che accade sui social o sul web” e qualcuno potrebbe far fatica “a pensare che un video possa essere arte”. Se esiste una buona parte di pubblico che “fa fatica a pensare che un video possa essere arte”, è anche perché stiamo ormai trasmettendo a molti un’idea di arte rassicurante, circoscritta a pochi nomi ben familiari al pubblico, buoni per cucire le solite mostre blockbuster che non stimolano i visitatori a porsi delle domande o a riflettere su quel significato che si fa materico e che dovrebbe identificare (almeno secondo Danto) l’opera d’arte stessa. Niente di tutto ciò: l’arte, da costringere rigorosamente entro le sue più classiche espressioni (pittura e scultura: guai ad allontanarsene), diventa unicamente fonte d’emozioni, incarnazione di leggiadria, passatempo nobile da preferire alle passeggiate nei centri commerciali.
Stiamo, in altri termini, assecondando quella rimozione della carica eversiva delle opere d’arte messa in atto dagli indefessi retori della bellezza e dell’impalpabile emozione che ci ricordano a ogni piè sospinto quanto siamo circondati da bellezza, e che di fatto propugnano una concezione dell’arte tanto stantia quanto poco adatta a leggere le evoluzioni che ha conosciuto da un centinaio d’anni a questa parte: sintomatico il fatto che molti dei frequentatori che affollano le mostre pubblicizzate sulle fiancate degli autobus o sulle pretenziose terze pagine delle riviste di gossip spesso ostentino con orgoglio la propria avversione nei confronti dell’arte contemporanea. Siamo riusciti persino a conferire un’improbabile aura di carineria a personaggi che, fossero stati nostri contemporanei, avremmo accuratamente evitato di frequentare: così, la visionarietà di un delinquente come Caravaggio o l’immane sofferenza di un individuo mentalmente instabile come van Gogh diventano pattern buoni per decorare ingombranti mug con cui sorseggiare caffelatte a colazione. La naturale conseguenza di questo nostro muoverci all’interno del recinto di una riserva tracciato dal marketing delle ineffabili emozioni non può che essere il rifiuto nei confronti di ciò che esce da quel seminato che qualcuno ha preparato per conto nostro.
Il dramma della protagonista di Acceptance, interpretata dall’attrice Weba Garretson, è lo stesso vissuto dalla Maddalena di Donatello, con cui l’opera dell’americano si poneva in ideale dialogo. Entrambe si trovano davanti a un ostacolo: il getto d’acqua in Acceptance, le privazioni della meditazione per la Maddalena. Entrambe sanno che superare quell’ostacolo è passo necessario verso il compimento del loro cammino. Entrambe sono consapevoli che il superamento dell’ostacolo non è cosa facile, e che loro sono fragili e vulnerabili di fronte alla loro prova: tant’è che sono entrambe nude, e com’è noto la nudità è spesso simbolo di vulnerabilità. Persino visivamente le due opere paiono simili, e l’acqua che scorre sul corpo della donna di Acceptance ricorda molto da vicino i capelli che avvolgono le membra della Maddalena. Sembra che ci sia, in sostanza, un senso di misticismo che emerge dal video di Bill Viola. È come se vedessimo il percorso di penitenza della Maddalena di Donatello nella sua interezza: un cominciamento sfocato dal peccato, la meditazione, l’ascesa al cielo in una rinnovata condizione spirituale. Forse anche bigotti, ignoranti e blockbusteristi incalliti se ne sarebbero convinti se buona parte del nostro mondo non avesse da tempo rinunciato a instillare dubbi, preferendo piuttosto ben più agevoli forniture di risposte preconfezionate.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).