La Galleria d’Arte Moderna (GAM) di Torino non è un museo qualsiasi: esiste da più d’un secolo, viene spesso orgogliosamente presentata come la prima raccolta pubblica d’arte moderna in Italia e accoglie una delle collezioni d’arte dell’Otto e del Novecento più ricche e complete del paese. Una raccolta sterminata, di migliaia di pezzi, a fronte d’un edificio adatto a esporne una minima frazione (condizione, comunque, comune a tanti musei). Di conseguenza, specialmente negli ultimi anni, son stati diversi i riallestimenti che si son succeduti. L’ultimo ha aperto lo scorso 16 ottobre, s’intitola Prima risonanza, è in programma fino al 16 marzo prossimo ed è fondato su di un approccio singolare, per quanto ormai vetusto: le opere sono organizzate per argomenti invece che su base cronologica. Fino al prossimo 16 marzo, dunque, chi visiterà la GAM non vedrà più le opere selezionate nella loro successione temporale, ma avrà modo d’intrattenersi con una serie di sale in cui le opere sono giustapposte per attinenze tematiche. Quindici in tutto i nuclei: Luce Colore Tempo; Plein Air; Riflessi; Colore Veneziano; Disegno Pittura; Schermi; Luci della Città; Forme ritmiche; Terra e vapori; Pulviscolare; Tutto Muove; Tramonti; Viaggi immaginari; Semine; Muri. A questi s’aggiunge poi un’ulteriore sezione, “Deposito vivente”, nella quale le opere sono esposte su griglie come fossero in un deposito, e dove non è raro imbattersi in alcuni dei capisaldi del museo.
Dentro ogni singola sezione convivono, ovviamente, artisti anche lontani nel tempo, accostati per attinenze. Qualche esempio a caso: la sezione “Riflessi” è dedicata a dipinti che “diffondono le vibrazioni luminose che si generano sulla superficie mutevole dell’acqua” e raccoglie opere di Fontanesi, Alfredo d’Andrade, Mattia Moreni e Piero Dorazio, oppure in “Disegno Pittura”, sala che intende radunare alcune opere “attorno alla mobile ricomposizione dell’antinomia tra disegno e pittura” s’incontrano lavori di Karel Appel, Pinot Gallizio e Pesce Khete, e ancora in “Tutto muove” ecco arrivare Leonardo Bistolfi, Leoncillo, Medardo Rosso e José Maria Sicilia accomunati dalla loro posizione “nella zona di trapasso tra scultura e pittura”. Veniamo subito al punto: appare piuttosto evidente l’arbitrarietà della selezione dei temi, al pari di quella degli artisti che dovrebbero rappresentarli, così come superficiali sembrano essere le scelte tematiche, che oltre a smembrare cronologie e contesti non sembrano neppure utili ad approfondire visioni, scelte, idee degli artisti chiamati a comporre questa rete di relazioni, che talvolta sono scolastiche (“Plein air”, che raggruppa una serie di paesaggisti piemontesi dell’Ottocento, assieme a opere d’artisti contemporanei ambientate nella natura), talaltra inconsistenti (“Pulviscolare”, con opere di Icaro, De Pisis e Bill Lynch messe assieme sulla base d’una “fisica consapevolezza di un moto pulviscolare, lucreziano, dove volteggiano atomi tutt’attorno”), spesso opinabili (gli studi di Massimo d’Azeglio inseriti nella sezione dei “Viaggi immaginari” in virtù del loro stato di non finito che “sembra ricercare uno spazio e un tempo ulteriori, un altrove che si colloca al di là della metodica pratica della pittura dal vero cui l’artista era solito sottoporsi”).
Tanti visitatori non hanno mancato di far sentire il loro entusiasmo per le scelte della direttrice Chiara Bertola e dei curatori Elena Volpato e Fabio Cafagna che con lei hanno messo a punto questa Prima risonanza alla quale, s’immagina, ne seguirà a breve una seconda se l’idea di fondo è quella di organizzare i pezzi della collezione permanente riflettendo “alcuni motivi tratti dalle mostre in corso”, come si legge nel pannello introduttivo. È curioso che sia la raccolta permanente, che dovrebbe essere il corpo del museo, il suo cuore vivo, il sangue che irrora i suoi organi, a doversi adattare alle mostre, e si potrebbe discutere a lungo sul fatto che questo concetto d’allestimento certifica senza possibilità d’appello l’idea che, oggi, le mostre contino più delle collezioni e che i musei debbano farsene una ragione, al punto di dover subordinare le loro collezioni permanenti alle mostre temporanee (quando dovrebbe semmai essere l’inverso: la collezione è il fulcro, il presidio, la certezza, mentre le mostre espandono, allargano, approfondiscono). Consentire alle mostre temporanee di determinare il percorso delle collezioni permanenti, per quanto possa essere potenzialmente attrattivo per il pubblico (naturalmente non è mancato, in questi mesi, chi ha fatto sentire il proprio entusiasmo per le nuove scelte della GAM), rischia di disorientare il pubblico, minare la solidità culturale del museo, moltiplicare i costi (ogni tot mesi occorre riallestire daccapo le sale permanenti, con relativo dispendio di risorse). È come una scuola che decidesse ogni anno di stravolgere i programmi sulla base degli argomenti più discussi sui social. Si possono imparare nozioni nuove, certo, ma vengono a mancare le basi. Per un museo dalla raccolta così importante servirebbe, semmai, una soluzione di equilibrio dinamico: le collezioni permanenti a fornire una robusta base di conoscenza perché costituiscono l’anima storica del museo, e le mostre temporanee a innovare, far dialogare i pezzi della raccolta, offrire al pubblico chiavi di letture nuove e nuovi contesti. Ma non è questo l’unico punto.
Si potrà certo dire che anche una ricostruzione cronologica può esser passibile d’interpretazioni più o meno soggettive: non esiste un unico modo di leggere la storia. La successione cronologica, per esempio, può essere organizzata per ordine temporale (come a Palazzo Barberini) o per scuole (come al Louvre) o in modo misto (come agli Uffizi). E si potrà anche dire che, ovviamente, un allestimento tradizionale può rischiare di non far percepire le sovrapposizioni temporali, in ragione del fatto che siamo abituati a studiare la storia dell’arte come una sequenza di fatti più o meno stabilita. Un Masaccio, per dire, può esser letto come padre della pittura rinascimentale ed essere esposto assieme ai pittori che arrivarono dopo di lui e che a lui guardarono, oppure può esser considerato l’innovatore che rivoluzionò la pittura del suo tempo ed esser dunque esposto assieme ai suoi contemporanei ignari della costruzione prospettica brunelleschiana o ancora legati alle fisionomie tardogotiche. Vero: ci sono però capisaldi attorno cui anche interpretazioni diverse tendono a convergere. Opere che hanno avuto un impatto dimostrabile, opere che hanno sollevato discussioni, opere che sono centrali per comprendere un artista. In un riallestimento cronologico si riflette dieci volte prima d’escludere un Novembre di Fontanesi (opera di rilevanza storica per la GAM, dacché acquistata da Vittorio Emanuele II nel 1864) o i tagli di Fontana (uno snodo fondamentale dell’arte del XX secolo) o L’uomo delle botti di Casorati (tra le poche opere della GAM utili a testimoniare un rappel à l’ordre diverso rispetto a quello del gruppo Novecento), o prima di relegare a un ruolo marginale, com’è stato fatto in questo nuovo allestimento, la Venere di Sironi. In un allestimento per temi, al contrario, si può tranquillamente rinunciare a Novembre di Fontanesi, ai tagli di Fontana, o nascondere la Venere di Sironi in una sala riattata a quadreria, se non sono tra le opere più funzionali a far emergere i temi che i curatori vogliono sottoporre all’attenzione del pubblico (e poi, perché certi temi piuttosto che altri? Perché i “Riflessi” e non le montagne, per esempio? Perché il colore veneziano e non il disegno toscano? Perché i viaggi immaginari e non la ritrattistica? Il gioco, ovviamente, potrebbe proseguire all’infinito).
Difficile comprendere le ragioni di questo disarticolamento, operato secondo logiche oltretutto datate, ritardatarie: i riallestimenti tematici andavano di moda trent’anni fa (una consistente ondata si ebbe tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche di qua dall’oceano: capofila è stato il MoMA nel 1992, poi sono seguiti lo Stedelijk Museum di Amsterdam, il Pompidou e la Tate Modern, dopodiché diversi altri musei meno famosi si sono adeguati alla nuova tendenza). Ma se potevano avere un senso all’epoca, come modalità sperimentale e soprattutto come critica istituzionale a una sorta d’ancien régime fondato su modelli strettamente gerarchici e su di una narrazione storica lineare, frutto dell’idea d’un progresso storico ordinato, coerente e inevitabile, adesso gli allestimenti tematici paiono al contrario i cascami d’un pensiero postmoderno che non è più sufficiente a rispondere alle incertezze in cui viviamo oggi. La fine delle grandi narrazioni della modernità occidentale (la religione, le ideologie, il progresso continuo), la globalizzazione, la liquidità della società contemporanea ci hanno lasciato in dote ansia, incertezza, precarietà, fragilità, superficialità, solitudine e conseguente desiderio di stabilità, di solidità, di punti di riferimento. In questo contesto, operazioni come le “risonanze” della GAM rischiano di frammentare ulteriormente la conoscenza, aggiungere confusione, lasciare i visitatori in balia di connessioni soggettive e spesso arbitrarie, oltre che privi di riferimenti storici chiari: siamo davvero convinti che a una comunità disorientata dalla liquidità della nostra società occorra ulteriore liquidità? Se viviamo in un periodo storico d’incertezza, la riflessione dovrebbe essere semmai su come abbandonare certe pratiche figlie del postmoderno e trovare risposte più adatte al mondo in cui viviamo. Se n’è parlato a lungo nove anni fa, quando la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma rivisitava, secondo logiche simili, la sua raccolta permanente (con un allestimento ch’era stato pensato per aver durata breve, un anno e mezzo, ma prima della recente mostra del futurismo era ancora al suo posto: ce lo siamo dovuti tenere per otto anni), a maggior ragione oggi simili risposte dovrebbero apparire ancor più attardate.
Naturalmente non si tratta di voler reintrodurre pensieri dogmatici o reazionari, o di tornare a pratiche del passato, ma l’eventuale risposta nei riguardi del pubblico che s’interroga sull’opportunità di questo paradigma non può esser neppure quella di rinviare ai libri lo studio della storia dell’arte. Non lo si dirà esplicitamente, ma il punto, alla fine, è questo: chi arriva impreparato, uscirà dal museo esattamente come ci è entrato. Il museo non è però un divertissement rivolto solo a chi già ha delle basi: è anche, anzi è soprattutto, un luogo di conoscenza aperto a chiunque. La soluzione, certo non può neppure essere paternalistica: si tratta, più semplicemente, d’essere inclusivi, e difficilmente l’inclusività s’ottiene offrendo al pubblico relazioni preconfezionate. Ancor peggio poi è non dare risposte: non si può motivare il riallestimento sulla base dell’idea che un ordinamento trasversale delle raccolte sia semplicemente “più interessante”, come ha detto la direttrice Bertola in una intervista, o sulla base di slogan (“un’opera d’arte è sempre contemporanea”). L’alternativa non è quella tra un museo che suscita emozioni e fa sognare e pensare da una parte, e il museo timorato, reverenziale e solenne dall’altra.
Piace pensare allora che esista una terza via rispetto al museo dogmatico (il museo novecentesco, il museo immobile, il museo con una narrazione ferma, stabile e data) e rispetto al museo postmoderno (il museo che fa saltare ogni gerarchia, il museo dove le relazioni si sostituiscono alla storia, il museo dove capita di vedere un artista contemporaneo alla moda, acquistato da poco, esposto in collezione permanente accanto a un artista che ha marcato la sua epoca in maniera indiscutibile e indelebile). Potremmo chiamarla “museo integrato”, o lavorare su un aggettivo simile: un museo strutturato ma flessibile, che implichi la coesistenza di diverse dimensioni senza però perdere equilibrio e suggerendo al contempo stabilità e pluralismo, che non rinunci alla propria base e sia in grado di suggerire al pubblico una struttura e un senso di continuità storica, ma che al contempo attivi sezioni in grado d’offrire ai visitatori dialoghi tra epoche diverse (ma non su basi superficiali ed esteriori: per suggerire semmai connessioni e ricorrenze storiche e culturali). Un museo che accolga tutti, insomma, perché oggi il museo dev’esser capace di parlare contemporaneamente a ogni tipo di visitatore: il visitatore che vuole imparare, quello che vuole capire e conoscere di persona quanto ha visto sui manuali, quello che si vuole solo emozionare, quello per cui l’arte è esclusivamente un’esperienza estetica, quello che cerca i racconti tra le opere, il bambino, l’adulto, il giovane, l’anziano, quello che non perde mai una mostra d’arte contemporanea, quello che crede che i tagli di Fontana siano semplicemente degli sbreghi sopra una tela. Siamo sicuri che le risonanze della GAM riescano a parlare a tutti? Non si tratta, poi, d’inventare niente di nuovo: è quello che stanno già facendo tanti musei in tutto il mondo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).