Se la street art diventa caricatura di se stessa: il caso del Banksy Museum


Ha senso far riprodurre opere di street art dentro i musei? È quello che sta facendo una catena di musei dedicata a Banksy. Ma se una forma d’arte nata per strada viene riprodotta per essere esposta, il rischio è che diventi caricatura di se stessa.

La rinomata e vivace Canal Street, situata nel cuore di Soho a Manhattan, è stata selezionata come sede per il nuovo Banksy Museum. Inaugurato lo scorso maggio, il museo è stato fondato da Hazis Vardar ed è interamente dedicato al celebre street artist e writer britannico. Il team museale ha scelto di riprodurre “l’esperienza della strada” all’interno dello spazio espositivo, all’interno del quale sono state riprodotte circa 160 opere dell’artista, da quelle più famose a quelle meno note. Tutto molto interessante, se non fosse che la realizzazione di queste riproduzioni delle opere di Banksy è stata commissionata dal museo ad altri street artist, rimasti anonimi.

Particolarmente interessante è la dichiarazione del curatore dell’istituto, che ha giustificato la scelta affermando che “Poche delle sue opere sono accessibili al grande pubblico... sapevamo che dovevamo creare una mostra per riportare l’arte di Banksy davanti al pubblico”. Questa decisione, che si collega alla più ampia tematica circa la musealizzazione della street art, conduce a diversi interrogativi: può esistere un museo con sole riproduzioni? La street art funziona ancora quando viene rimossa dalla strada? E, soprattutto, può un artista essere anti-establishment e allo stesso tempo vendere milioni di dollari all’asta?

Il Banksy Museum non può essere considerato un museo nel senso tradizionale del termine: è un museo allo stesso modo in cui lo sono le tante, troppe, mostre immersive che campeggiano in numerose città, un’esperienza a pagamento dove il contenuto è dubbio. Tra graffiti artificiali, sirene della polizia e segnali di pericolo che circondano le opere, l’atmosfera all’interno del Banksy Museum ricorda più quella di un’escape room e l’ingresso costa ben 30 dollari per gli adulti, in linea con il prezzo del MoMA per i non residenti. Ma almeno al MoMA il Van Gogh è autentico.

Museo Banksy a Barcellona. Foto: Wikimedia/Enric
Museo Banksy a Barcellona. Foto: Wikimedia/Enric

Il Banksy Museum è l’ultimo di una serie di musei dedicati allo street artist che Hazis Vardar ha aperto in diverse città del mondo, a partire dal suo primo esperimento a Parigi nel 2019. Attualmente ne sono aperti quattro, ma l’industria commerciale legata a Banksy è ben più estesa e comprende una serie indefinite di mostre non autorizzate e vendita di false riproduzioni di opere d’arte, come nel caso delle riproduzioni legate all’evento “Dismaland”. Il nuovo museo newyorkese è la dimostrazione che l’arte è diventata inseparabile dal commercio, e se Vardar afferma che “La street art appartiene all’ambiente grezzo delle strade, ma se la gente non può vederla, è arte?”, potevamo aspettarci solamente questo.

Il dibattito sulla street art e sulla sua musealizzazione resta senza dubbio uno dei temi più caldi della scena artistica contemporanea. Bisogna tenere a mente che la street art è molto spesso nemica delle istituzioni e, soprattutto, è concepita per non durare nel tempo. E queste sono caratteristiche inalienabili. Una pratica così effimera che viene istituzionalizzata per ragioni economiche è quanto di più sbagliato possa esistere e quando assistiamo alla nascita di realtà come il Banksy Museum, accade che essa si trasforma in una caricatura di sé stessa e perde la propria vis polemica. Se poi aggiungiamo che non sono presenti le vere opere di Banksy ma delle copie eseguite da altri artisti, ancora peggio.

Il caso di Banksy poi è emblematico: l’artista, celebrato come il Robin Hood contemporaneo, non ha mai esitato a creare opere destinate al mercato collezionistico, tradendo così lo spirito della street art e facendo sì che il suo messaggio venga spesso recepito come qualcosa di fortemente contraddittorio e conflittuale. Non bisogna tuttavia fraintendere: le idee di Banksy sono assolutamente corrette e condivisibili, ma la sua visione morale è relativamente semplicistica: i bambini sono buoni, il governo è cattivo e il denaro è stupido.

Le opinioni sono varie e contrastanti: c’è chi pensa che opere di street art non concepite e realizzate per un contesto urbano non appartengano alla street art, anche se a produrle sono noti street artist; altri ritengono che una possibile musealizzazione di tali opere possa salvaguardarle da un futuro danneggiamento.

Una cosa è certa: la declinazione museale di Banksy ci pone davanti ad una condizione assai nota all’interno del sistema dell’arte, ossia che esistono street artist che vengono santificati dalle istituzioni museali e questa condizione mette all’oscuro il lavoro di molti artisti che, al contrario, continuano ad alimentare l’esistenza quotidiana e la carica simbolica di un’arte che appartiene alle strade, ai muri e a coloro che continuano ad interrogarsi passeggiando per la città.


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Federica Schneck

L'autrice di questo articolo: Federica Schneck

Federica Schneck, classe 1996, è curatrice indipendente e social media manager. Dopo aver conseguito la laurea magistrale in storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Pisa, ha inoltre conseguito numerosi corsi certificati concentrati sul mercato dell’arte, il marketing e le innovazioni digitali in campo culturale ed artistico. Lavora come curatrice, spaziando dalle gallerie e le collezioni private fino ad arrivare alle fiere d’arte, e la sua carriera si concentra sulla scoperta e la promozione di straordinari artisti emergenti e sulla creazione di esperienze artistiche significative per il pubblico, attraverso la narrazione di storie uniche.



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