Qualche sera fa discutevo su uno degli argomenti che vanno per la maggiore quando ci si ritrova a prendere un aperitivo con amici che hanno la tua stessa passione per la storia dell’arte, ovvero l’ennesima trovata di Marco Goldin, da sempre visto come l’emblema della mostra commerciale e del marketing applicato all’arte.
Il procedimento goldiniano è pressoché sempre lo stesso. Si sceglie un titolo che includa i nomi di artisti che conoscono anche i sassi: per esempio, Da Cézanne a Mondrian, Gauguin-Van Gogh. L’avventura del colore nuovo, oppure più di recente Da Vermeer a Kandinsky, Raffaello verso Picasso, Da Botticelli a Matisse. Da notare che spesso e volentieri il nome della mostra va da qualcuno a qualcun altro, quasi come se si volesse tracciare una sorta di percorso: un probabile espediente per suggerire al visitatore il fatto che la mostra sia una vera esperienza, un qualcosa in divenire, e questo dinamismo non può far altro che accrescere il carico di emozioni che il visitatore proverà durante l’esposizione perché, com’è risaputo, l’obiettivo principale di Goldin è suscitare emozioni. Lo stesso Goldin dichiarava in un’intervista del 2010: “Io mi batto sempre per dire che prima di tutto questo viene l’emozione davanti alle cose, l’emozione che ci fa vivere in modo diverso rispetto ad altre persone la bellezza della letteratura, della pittura, della musica, della filosofia, della cultura”1. Il procedimento continua poi con la scelta una città del Veneto o delle immediate vicinanze (Conegliano, Belluno, Treviso, Vicenza, Verona, Brescia, Passariano, ma è capitato comunque di vedere mostre goldiniane anche a Genova e a Rimini), segno che Goldin conosce in modo profondo il pubblico di queste zone, sa quali sono le sue aspettative e i suoi desideri e confeziona pertanto una mostra “su misura”, dove affiancati ai grandi nomi come quelli menzionati poco sopra, non è raro (anzi, accade pressoché sempre) trovare dipinti di scuole locali, meglio se dipinti paesaggistici, così che il pubblico, oltre a emozionarsi di fronte ai dipinti, possa anche riconoscersi in essi ritrovando luoghi familiari e, perché no, trarne motivo di vanto e orgoglio, perché gran parte del pubblico goldiniano probabilmente non sa che, nel Cinquecento, operavano nella sua terra artisti come il Moretto o Savoldo (che c’entrino poco -anzi, niente- con Picasso o Kandinsky, non è il punto).
Il tutto senza che ci siano particolari criteri scientifici o filologici, proprio in virtù del fatto che a Goldin non interessa molto che il pubblico, oltre a emozionarsi, si ponga delle domande sui dipinti che vede o provi a comprenderne il significato o il perché un artista ha operato certe scelte stilistiche, e via dicendo. Magari Goldin potrebbe essere anche un ottimo curatore di mostre ad alto interesse scientifico e filologico: il fatto è che non si cura di questo perché sa bene cosa vuole il suo pubblico, ovvero emozioni. Goldin conosce bene il pubblico con cui ha a che fare, quindi a mio avviso le classiche critiche che gli si rivolgono (per esempio, Montanari: “Ecco l’ultima frontiera del tradimento della storia dell’arte, ridotta a strumento per opporre le emozioni alla conoscenza, e il popolo all’élite. [...] Questa retorica prevede che alle obiezioni scientifiche non si risponda con argomenti razionali e verificabili, ma con l’appello ad ineffabili e incontrollabili emozioni”2), sono ovviamente fondate ma lasciano un po’ il tempo che trovano. Primo, perché Goldin continuerà a curare mostre secondo il suo paradigma e continuerà ad avere successo. Secondo, perché non è Goldin il problema.
Il problema principale sta nell’incomunicabilità tra gli storici dell’arte e il pubblico: i primi sono visti dal secondo come un gruppo di puristi in papillon abituati a disquisire di questioni che non toccano minimamente il pubblico, e quest’ultimo invece viene visto come una massa informe di trogloditi da stupire con effetti speciali. Lo storico dell’arte se la prende con Goldin, e dal suo punto di vista probabilmente fa anche bene, ma è necessario che inizi a pensare, per prima cosa, che il problema non è tanto far sì che il pubblico smetta di vedere le mostre di Goldin (anche perché probabilmente percepisce bene che la mostra goldiniana è un momento di svago, sebbene falsamente percepito come “culturale”), ma far sì che vada a vedere le mostre organizzate con criteri scientifici (non necessariamente di ricerca, ma anche di divulgazione). Compito dello storico dell’arte è far passare il messaggio che non si può parlare di cultura solo perché in un palazzo ci sono dei quadri antichi appesi a un muro: non tutte le mostre (così come non tutti i film e non tutti gli album musicali) sono classificabili come cultura, non tutte le mostre lasciano qualcosa al pubblico, e dalle mostre di Goldin il pubblico non esce arricchito, perché probabilmente all’uscita saprà sul Moretto e su Savoldo quello che sapeva all’ingresso.
Però potrà uscire dalla mostra di Goldin con uno stimolo, quello di voler approfondire il Moretto e Savoldo, ma se nessuno pone il visitatore goldiniano nelle condizioni di poter approfondire il proprio bagaglio culturale attraverso un’opera di seria divulgazione (che in Italia, per quel che riguarda la storia dell’arte, manca a un livello tale da raggiungere un pubblico vasto), Goldin registrerà sempre più successo e visitatori. Sono convinto che si tratta dello stesso pubblico che affolla le tante pagine Facebook che ogni giorno postano decine di immagini di opere d’arte, guardandosi bene dal dare al pubblico informazioni sulle opere che non siano il titolo e l’autore (e talvolta museo e datazione). Pagine che sono un po’ la trasposizione virtuale delle mostre goldiniane: dipinti di facile presa, perlopiù di pittori impressionisti, decine di migliaia di fan e visitatori, un tripudio di “bellissimo”, “meraviglioso”, “stupendo”, “splendido”, “fantastico”.
Con una divulgazione seria, il visitatore goldiniano sarà in grado di essere guidato verso esposizioni più sofisticate, che possano arricchirlo culturalmente, oltre a emozionarlo, perché non è affatto vero che le emozioni debbano essere contrapposte alla conoscenza (“Credo nelle emozioni, non nella conoscenza per pochi sapienti”3 è quanto Goldin avrebbe dichiarato all’anteprima della sua mostra Raffaello verso Picasso), anche per il fatto che la conoscenza di per sé è già un qualcosa di estremamente affascinante. Ci sarà certo sempre una gran parte del pubblico goldiniano che rimarrà goldiniano, è inevitabile, ma un’altra parte di questo pubblico sarà spinta a trarre beneficio da mostre rigorose. Tutto questo per dire che è inutile prendersela con Goldin, come detto poco sopra: forse sarebbe più utile che gli storici dell’arte incanalassero i propri sforzi nel tentativo di porsi in discussione, nel cercare di scrollarsi di dosso gli stereotipi che affliggono la categoria, nel tentare una comunicazione con il pubblico di chi ha la passione per l’arte.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).