I recenti ri-allestimenti di due importantissime collezioni europee di arte moderna e contemporanea, e cioè La Galleria Nazionale di Roma e il Van Abbemuseum di Eindhoven, hanno smosso in me un pensiero su quei due tiri diversi della stessa fune che oggi prevalgono nel dibattito sulle esposizioni d’arte. E cioè: un approccio alla collezione di tipo “esperienziale” (nel quale l’opera viene isolata dal suo contesto storico e intellettuale per favorirne una fruizione contemplativa) e un altro a stampo fortemente storicista (nel quale, al contrario, si esaltano quei processi storici dietro la produzione dei lavori e delle mostre). Ma mi hanno anche spinto ad interrogarmi su cosa vuol dire esporre una collezione storica e su quale sia la funzione del museo.
Negli ultimi dieci anni la proposta culturale dei musei europei è molto cambiata. I profondi tagli ai finanziamenti pubblici hanno fatto sì che un numero crescente di musei d’arte moderna e contemporanea dipendesse da donazioni e da sponsor spesso esterni al mondo dell’arte. Questi vincoli economico-finanziari hanno visto, da una parte, una forte reazione in senso inverso, dall’altra, un tentativo di adattamento più o meno intelligente. Sebbene si tratti di due realtà radicalmente diverse, sia per genesi che per contesto, i due musei custodiscono un importante patrimonio di arte moderna e contemporanea. La Galleria ospita la più grande collezione di arte contemporanea italiana (con circa 18mila lavori) ed è l’unico museo nazionale dedicato all’arte moderna. Il Van Abbe, museo di una piccola città, fu tra i primi in Europa a conservare una collezione di questo tipo. I rispettivi direttori entrati in carica, Cristiana Collu nel 2015 e Charles Esche nel 2004, hanno operato un intervento radicale nell’allestimento delle collezioni permanenti. Due lunghe mostre temporanee hanno aperto rispettivamente nel 2016 e nel 2017: Time is out of joint a La Galleria Nazionale e The making of modern art al Van Abbemuseum di Eindhoven.
Time is out of joint a La Galleria Nazionale di Roma
Ex-direttrice del MART di Rovereto, Cristiana Collu ha inaugurato la sua nomina a direttrice soppiantando l’allestimento in precedenza realizzato da Maria Vittoria Marini Clarelli, che rendeva più facile e suggestivo il percorso cronologico voluto da Sandra Pinto. È così che apre Time is out of joint, una mostra destinata a durare più di due anni. Coadiuvata dal curatore Saretto Cincinelli, Collu ha modificato il design del museo, imbiancando le pareti ed eliminando la boiserie, ma ha anche eliminato l’intero impianto cronologico dell’allestimento museale, inserendo sale tematiche a carattere del tutto personale e, quindi, a volte criptico (il tema non viene mai dichiarato né da fogli di sala, né da pannelli introduttivi). Infine, ha dismesso molte opere dell’Ottocento e inserito circa 40 lavori provenienti da prestiti esterni.
Tra i bizzarri accostamenti: Grande particolare di paesaggio italiano in bianco e nero (1963) di Schifano vicino a Alla stanga (1886) di Segantini (entrambi ritraggono il paesaggio italiano?). Crocifissione Contemporanea – Ciclo della protesta N.4 (1953) di Emilio Vedova e Grande Rosso P.N. 18 (1964) di Alberto Burri in sala con un lavoro di quasi un secolo prima, Battaglia di San Martino di Michele Cammarano del 1880 (richiamano a un’estetica del “disordine”?). Cleopatra, statua del 1874 di Alfonso Balzico è posta davanti al Nudo Sdraiato di Modigliani del 1918-19 (entrambi nudi?). Molte statue neoclassiche sono posizionate ad “osservare” dipinti come fossero parte del pubblico, oggetti di scena. Le Ninfee rosa (1897-99) di Monet sono accostate alle Ninfee (dettaglio n.7) (1991) di Stefano Arienti e alle Ninfee (2004) di Rento. Ma forse la sala più nota è quella che ospita Ercole e Lica (1795-1813) di Canova che si riflette nei 32 metri quadri di mare circa (1967) di Pino Pascali.
Sala della mostra Time is out of joint. La Galleria Nazionale, Roma, 2017 |
Sembra tutto parte di una scenografia di cui apprezziamo l’effetto visivo, ma in cui azzeriamo completamente la genesi delle opere d’arte, ridotte a oggetti che costruiscono un personale discorso estetico del curatore. Se potevano funzionare in una mostra d’arte contemporanea, in un museo come La Galleria scelte del genere hanno suscitato non poche polemiche. Su Zero ci si chiede «quale […] comprensione potrà derivare al visitatore medio da questo riordinamento delle collezioni»; su Flash Art la mostra è descritta come «un’operazione dispotica e autocratica del ri-pensatore»; lo studioso Claudio Gamba ne intuisce «una forma di rottamazione che accontenta il clima di polemica anti-sistema e anti-intellettuale», mentre il curatore Vincenzo Trione (nel suo Contro le mostre, Einaudi 2017) sostiene come Collu «[sia] ricorsa a scelte decisamente arbitrarie, esito di una sorta di narcisistico impressionismo critico». Ma non è tutto. Due membri su quattro del comitato scientifico, Iolanda Nigro Covre e Claudio Zambianchi, hanno consegnato le loro dimissioni. Mentre la prima sostiene che «il problema non sono gli accostamenti diacronici, ma la mancanza di senso in questa operazione», Fabio Benzi (uno dei due membri restati in carica) scrive una lettera al MiBACT, in cui spiega come Collu abbia completamente ignorato i pareri del comitato inscenando di fatto una biennale. Nella lettera si legge: «Non posso concordare con l’allestimento attuale che obbedisce al principio di fondo in base a cui l’arte è sempre contemporanea, poiché contemporaneo è lo sguardo che la considera. Infatti, in conseguenza di tale presupposto attuato in modo esasperato e narcisistico, le opere sono decontestualizzate dalla loro storia e dalla loro genesi».
In un’intervista alla direttrice uscita per Finestre sull’Arte, Collu si difende così: «A volte seguire rigorosamente la cronologia scardina la sistemazione manualistica almeno quanto il volersene liberare. E poi, appunto, dove sta scritto che un museo debba pedissequamente funzionare come un manuale di storia dell’arte? […] Proprio a partire dal fatto […] che il passato non debba essere imbalsamato, ma possa (e anzi debba) essere riletto e reinterpretato, rivendico la legittimità del nuovo allestimento, come una stimolante lettura e reinterpretazione odierna della storia della Galleria e delle sue collezioni». Tuttavia, in questo caso non c’è alcuna «re-interpretazione», ma un completo annullamento del contesto e di qualsivoglia “passato”. Questa esclusione non può essere uno strumento efficace per l’esposizione dell’arte perché è proprio mostrando la storia e il contesto che non solo si forniscono gli strumenti per interpretare un’opera ma, soprattutto, si costruisce parte della risposta emotiva del pubblico. Qui il problema, infatti, sembra essere proprio la concezione che si ha non solo della storia (come strumento formativo) ma del pubblico: un “grande pubblico” mai troppo in grado di assaporare emozioni e storia insieme, come a dire che, per fare in modo che le «emozioni poss[a]no trasformarsi in un input capace di stimolare lo spettatore [hic] ad una ricerca personale», come sostiene Collu, bisogna annullarne curiosità e pensiero critico.
The making of modern art al Van Abbemuseum di Eindhoven
Clair Bishop (Museologia Radicale, Johan&Levi 2017) posiziona il Van Abbemuseum di Eindhoven tra quelle realtà che stanno plasmando uno scenario alternativo a quello degli alienanti musei d’arte contemporanea mainstream costruiti da archistar (come il Guggenheim di Bilbao). Charles Esche, curatore d’arte contemporanea, ha da anni orientato la curatela della collezione verso uno sperimentalismo e una visione più critica verso l’arte e le sue istituzioni. Ma cosa è successo alla collezione storica del museo?
La mostra The making of modern art può essere riassunta come un manuale di storia delle storie dell’arte e delle sue esposizioni. Come si legge sul sito: «la mostra problematizza il ruolo del museo ed […] esplora come l’arte moderna sia stata solo una parte di un mondo moderno più vasto». Alla domanda “cosa chiamiamo arte? Da quanto tempo?” la risposta dei curatori della mostra Christiane Berndes, Charles Esche e Steven ten Thije è proprio creare un discorso su come l’arte e la modernità siano un costrutto tipicamente occidentale. Nella prima sala (“Western Art”) si imposta infatti la mostra come un luogo di meraviglie, dove il team curatoriale si finge uno straniero proveniente dall’isola di Utopia, affascinato dall’Occidente e dalle sue forme di espressione artistica. Insomma, come sostiene Esche, si è voluto «imprigionare il modernismo per […] creare un panopticon che ci permetta di vederlo per quello che è». Purtroppo, però, la restituzione al pubblico non ha propriamente rispettato queste intenzioni. Da una parte, infatti, le scelte allestitive sono spiegate nei minimi dettagli: vengono ricostruiti gli allestimenti più significativi nella storia dell’arte come l’Abstrakt Cabinet, il mai realizzato Room of the now, la mostra Cubism and abstraction del MoMA, e tante altre, e ciò valorizza la contestualizzazione (storica e artistica) della collezione. Dall’altra, tuttavia, non viene data alcuna importanza all’opera singola, alle capacità immaginative ed espressive degli artisti e al loro rapporto con ciò che la mostra vorrebbe mettere in luce: e cioè la cultura e la società del loro tempo. Paradossalmente, tramite questa operazione di reenactment, i display ricostruiti perdono il loro ruolo di dispositivi culturali e l’intera collezione diventa un grande insieme fake a carattere freddamente documentale.
Sala che ricostruisce “Cubism and Abstraction” del MoMA, nella mostra The making of modern art, Van Abbemuseum, Eindhoven, 2018. Ph. Credit: Peter Cox. |
Alla domanda di Lucy Byatt (direttrice dei National Programmes, Contemporary Art Society) “a chi è rivolto il museo e i suoi programmi?”, Esche risponde in modo molto diretto. Premette che, finanziariamente, il museo dipende dai “politici locali” (65 % del budget) e istituzionalmente deve rispondere ai “gusti” (?) del pubblico locale. «Il problema – aggiunge poi – è che la maggior parte di questi politici è concentrata sul suo mandato e non vuole essere abbandonata dai suoi elettori alienati». Dichiarando subito dopo di volersi tenere alla larga da mostre blockbuster che altrimenti ucciderebbero il museo, risponde alla domanda e dice «mi piacerebbe incoraggiare le persone ad aumentare le loro capacità immaginative e a pensare in modo diverso, per sviluppare idee progressiste e affrontare i problemi politici ed economici. Voglio supportare una cultura vivace e critica intorno a me e vedo l’arte e il museo come strumenti adatti a questo fine. Questo è il motivo per cui ho iniziato ad interessarmi all’arte […] e vedo l’arte come strumento per creare delle possibilità in un mondo in cui queste sembrano mancare». Una risposta ineccepibile che esprime valori precisi. Ma allora perché in tutto l’allestimento appare un rifiuto costante a parlare di arte? Perché appare una continua negazione di questo potere trasformativo dell’arte e un rifugio verso un estremo materialismo storico che, miope, non può andare oltre a realtà materiale esso stesso. Come potrebbero le opere in collezione sprigionare un potere trasformativo se spinte ad essere considerate “artefatti” senza alcun valore aggiunto se non quello storico e materiale? Era il caso di improntare la storia delle mostre (tra l’altro parziale) come cuore del progetto espositivo invece che come supporto dell’esposizione delle opere?
La missione è chiara: si vuole «de-modernizzare» l’arte. Meno chiaro è come da ciò si passi automaticamente a una desiderabile «de-artizzazione». Le “passioni umane”, gli stati emotivi personali (elementi che si vogliono dichiaratamente annullare nella fruizione della collezione), infatti, hanno poco a che vedere con la devozione verso il “sacro” essendo piuttosto capacità del tutto umane, le quali nel contesto dell’arte dovrebbero essere valorizzate.
Anche questa mostra non è stata esente da critiche provenienti non solo dal mondo dell’arte (sul giornale NRC si parla di «un freddo lunapark [che] allontana lo spettatore») ma anche da quello delle istituzioni politiche. Come riporta Bishop, il partito Social Democratico ha infatti minacciato il museo di un taglio al budget del 28%, ridotto poi all’11%, a causa della scarsa attrazione di visitatori. Seppur criticabile come misura, questo evento ha messo senz’altro in luce il fatto che il museo non sia stato ancora in grado di «penetrare nella cultura locale di Eindhoven e nella regione» (Bishop).
Insomma, siamo di fronte a due modi molto diversi di leggere, ma soprattutto percepire, l’arte e la sua storia. La Galleria riproduce un tipico allestimento white-cube che fa fuori il contesto storico, il Van Abbe inscena un’analisi fortemente neo-marxista dell’opera d’arte, che diventa quindi semplice artefatto. Tuttavia, troviamo un punto in comune: la sparizione della singola opera come oggetto d’analisi e della sua relazione con chi la osserva. Il primo ne garantisce una fruizione molto superficiale, il secondo la vede solamente come prodotto culturale storicamente determinato (senza però spiegare bene dove e come), dove l’individualità e le sensibilità diversissime tra un artista e l’altro sono da eliminare. Ma può l’arte parlare solo di sé stessa, limitandosi ad auto-raccontarsi? Non essendo, di fatto, più arte – come il Van Abbe sostiene si debba iniziare a fare? Proporre idee allestitive nuove significa avvicinarsi all’autoreferenzialità?
In ogni caso, è bene fare un secondo discorso. E cioè vedere come i due curatori hanno avuto un pensiero non solo sulla collezione affidata loro, ma, più in generale, sulla funzione del museo. Mentre Collu ha riprodotto un “museo-esperienza”, Esche ha dato luogo a un colorato reenactment, dove convivono senza problemi opere originali, riprodotte e rappresentate da artisti contemporanei, e dove la storia, genesi dell’opera, diventa genesi di sé stessa. Qual è quindi il ruolo del curatore istituzionale e perché è sempre più frequente il rischio di sfociare in personalismi estetico-ideologici? Le ragioni storiche di questa recente museografia sono da ricercare proprio in quella forsennata apertura verso il “grande pubblico” che ebbe luogo negli anni in cui le istituzioni artistiche americane e inglesi subirono fortissimi tagli ai finanziamenti. Come spiega bene David Balzer nel suo ultimo libro Curatori d’assalto. L’irrefrenabile impulso alla curatela nel mondo dell’arte e in tutto il resto (Johan&Levi 2016) «il curatore “potente” o “star” degli anni novanta fu quindi il diretto corollario dell’incertezza di istituzioni sotto attacco», quando «le masse e i finanziatori divennero un’ancora di salvezza».
Per questo motivo, la vera criticità non risiede tanto nelle visioni estetico-filosofiche dei curatori né nel concetto di inclusione/esclusione dei pubblici. Riguardo quest’ultimo punto, infatti, va detto che entrambe le mostre si propongono come accessibili ai più: da una parte, Collu ha operato in nome di un maggior coinvolgimento del «pubblico generico o generalista» senza troppe pretese, dall’altra l’allestimento di Esche appare molto semplificato, e tutte le idee espresse dal curatore sono comunicate in modo impeccabile dai fogli di sala: un approccio super-didattico. Se è vero però che il tipo di pubblico che oggi abbiamo davanti è forse diversissimo da quello di anche solo quindici anni fa, non per questo il museo ne deve emulare “liquidità” e “massificazione”, le quali sono, piuttosto, sfide da saper leggere e superare e non tendenze da assecondare. Il punto, qui, è proprio chiedersi quale sia la funzione di un’istituzione culturale e pensare al museo pubblico come luogo che sappia produrre senso critico in chi lo visita proprio perché mostra molteplici visioni sul mondo, tramite un racconto per immagini del passato. Democraticizzare la sua collezione vuol dire promuovere partecipazione e condivisione e non spettatorialità. Se, poi, lo spettacolo coincide con una visione negante di quella che è la verità e la natura della collezione (parole che una certa cultura post-moderna vorrebbe relativizzare all’infinito fino a renderle prive di senso), l’intrattenimento verrà meno e subentrerà la mistificazione. Di conseguenza, parlare di democraticità di un’istituzione culturale, significa prefigurare una cura per una forma di conoscenza più approfondita possibile, indipendentemente dalle future scelte individuali del visitatore.
Proprio per questo, l’allestimento di una collezione ha un amplissimo raggio d’azione in termini di creatività e di possibilità, ma il discorso prettamente curatoriale deve restare funzionale alle collezioni pubbliche (specialmente se così ricche!) e non viceversa. Le personali visioni e creatività del curatore museale possono trovare una dimensione di lavoro proprio nell’istallazione e nei metodi comunicativi, ma non nei contenuti, e cioè nella selezione arbitraria di cosa vada o non vada esposto, proprio perché la disponibilità dell’informazione, del contenuto cioè di una collezione pubblica (che per definizione appartiene al cittadino, alla comunità), dovrebbe essere sempre massimizzata. Come sostiene Anthony Huberman «una mostra non è interessante perché sperimenta una nuova forma o struttura, ma perché trova il modo di condividere il contenuto di un’opera d’arte inventando la cornice appropriata per tale contenuto». Questa è la più grande differenza tra l’allestimento di una collezione storica permanente e l’ideazione di una mostra d’arte contemporanea, una fiera o una biennale. Se è vero che i musei devono superare la loro forma di manuale di storia dell’arte, devono men che meno rifiutare di trasformarsi in mis en scène di teorie o ideologie, le quali rischiano di allontanare il pubblico o di avvicinarlo in modo superficiale.
L'autrice di questo articolo: Giulia Carletti
Storica dell'arte, specializzata in curatela e museologia critica a Milano (con tesi When will we come clean about our purposes?), insegna storia dell'arte nelle scuole secondarie a Roma. Interessata alle politiche culturali e ai loro strumenti di attivazione e trasformazione di una comunità, porta avanti i suoi studi sui beni culturali come beni comuni, collaborando con associazioni attive sul territorio e curando mostre con artisti emergenti a Roma e a Milano, come Ho fissato uno sguardo che stava per scomparire (2017) e Studio. Before but Around (2018).