Statua di una donna in Prato della Valle a Padova: perché no? Tre possibili nomi


Non ci sono ragioni storiche così forti per opporsi a una statua di una donna in Prato della Valle, che nulla toglierebbe. Tre possibili nomi: Chiara Varotari, Sibilla de' Cetto e Isabella Andreini.

Si può aggiungere la statua d’una donna in Prato della Valle a Padova, il meraviglioso pantheon laico della città, dove però i monumenti, fatta eccezione per il piccolo busto di Gaspara Stampa che affianca la statua di Andrea Briosco, celebrano esclusivamente uomini? È un tema di sicuro fascino, che merita d’essere approfondito. È possibile, intanto, sgomberare il campo dagli equivoci: non si sta qui parlando di cancel culture, dal momento che nessuno ha mai proposto di rimuovere o spostare l’esistente per lasciar spazio al nuovo. Un’eventuale nuova statua andrà pertanto ad aggiungersi a quelle che già s’elevano sui piedistalli del “Prà dea vae”: i monumenti che già ci sono non si muoveranno d’un millimetro. Né accadrà mai che la statua di Elena Lucrezia Corner Piscopia adesso all’Università sarà traslata, da un’ubicazione dov’è ben conservata, per venir esposta agli agenti atmosferici, all’inquinamento, all’azione degli animali: la soprintendenza non lo consentirà mai, ma occorre anche sottolineare che lo spostamento della scultura donata all’ateneo patavino da Caterina Dolfin nel 1773 non era negl’intendimenti di chi propone d’innalzare un monumento femminile nel Prato. E si può anche ragionevolmente escludere che si tratterà di un monumento privo di continuità col resto della piazza: anche in questo caso la soprintendenza si opporrà. Quindi, a meno di improbabili sconvolgimenti, non ci saranno “Spigolatrici bis” nella piazza più grande della città.

Le origini della proposta, avanzata dai consiglieri comunali Margherita Colonnello e Simone Pillitteri (che hanno lanciato l’idea di erigere un monumento a Elena Corner), sono ormai note: sulla scorta del censimento dei monumenti femminili in Italia operato in autunno dall’associazione Mi Riconosci, i due rappresentanti dei cittadini si son resi conto che in Prato della Valle ci sono 78 statue, tutte di uomini, e hanno dunque suggerito di elevare un monumento alla prima laureata al mondo nella piazza, utilizzando uno dei due piedistalli vuoti. Le varie voci che si sono avvicendate nel dibattito sin qui sono state egregiamente riassunte su queste pagine da Leonardo Bison, e l’articolo è un utile rimando per conoscere le diverse posizioni. Particolarmente interessante è quella dello storico dell’arte (nonché ex segretario comunale del Pd) Davide Tramarin, che pur accogliendo favorevolmente l’iniziativa di Colonnello e Pillitteri, scarta l’ipotesi di adoperare uno dei due plinti vuoti del Prato della Valle. L’idea di Tramarin è che ormai a suo dire l’evoluzione storica della piazza, essendo passati “139 anni” dall’installazione dell’ultima statua (in realtà di più: l’ultima scultura, quella di Francesco Luigi Fanzago, arrivò nel 1838, e non nel 1883), sarebbe compiuta e avrebbe portato a conclusione un “progetto preciso, anch’esso storico perché determinato in un’epoca specifica della Storia della nostra città e secondo un gusto predominante”, e di conseguenza i due basamenti liberi “non possono essere letti come un non compiuto da completare”, in quanto lì erano collocate le statue di due dogi abbattute dopo la caduta della Repubblica di Venezia. L’incompiutezza della piazza sarebbe dunque per Tramarin “un dato storico, fondamentale per la lettura e la comprensione del monumento, ed è parte integrante di un’evoluzione che nel corso di poco più di un secolo, ha attraversato delle fasi consequenziali ben precise iniziate e finite”. È un po’ come se, ha spiegato, le due basi vuote siano ancor oggi occupate virtualmente dalla storia di Padova. Di conseguenza, “qualsiasi aggiunta sarebbe sbagliata e fallace”.

Sono argomentazioni sensate, ma alle quali si possono opporre altre osservazioni. Tre principalmente: la prima è il fatto che il momento storico della caduta della Repubblica ha già una sua rappresentazione, ovvero gli obelischi installati sulle testate dei ponti che conducono verso l’isola Memmia per sostituire le statue dei dogi abbattuti (le coppie Marco Antonio Memmo-Marco Antonio Giustiniani e Domenico Contarini-Alvise Mocenigo sul ponte settentrionale, la coppia Antonio Grimani-Francesco Morosini sulla testata interna del ponte occidentale). La seconda è la storia stessa del progetto, che già alla data del 1797 era ancora lontano dal suo completamento, e altre statue si sarebbero aggiunte a partire dal 1799 (in ordine cronologico: Andrea Navagero, scolpito nel 1799 da Luigi Verona; Giuseppe Tartini, opera del 1806 di Sebastiano Andreosi; Melchiorre Cesarotti, opera di Bartolomeo Ferrari del 1821; Albertino Mussato, opera del 1831 di Giuseppe Petrelli; Stefano Gallini e Francesco Luigi Fanzago, entrambe statue del 1838 di Giuseppe Petrelli). Inoltre, non sarebbe la prima volta che si propone di riempire le due basi rimaste vuote nel 1838: era già stata avanzata un’ipotesi simile nel 1865, anno del sesto centenario della nascita di Dante, quando il Comune propose, e inizialmente approvò, la proposta d’installarvi le statue di Dante Alighieri e di Giotto (qualcuno addirittura avanzò l’idea di rimuovere due delle “guglie”, cioè degli obelischi). Le sculture, poi realizzate da uno dei più grandi artisti del tempo, Vincenzo Vela, vennero infine posizionate sotto la Loggia Amulea. Inoltre, oggi non vediamo il Prato della Valle del 1838: la piazza è tuttora un organismo vivo, passato attraverso varie modificazioni. La fontana Memmia, presente nel progetto settecentesco di Andrea Memmo, fu aperta solo nel 1926. Sempre nell’Ottocento furono piantati platani, poi cresciuti nei decenni, tanto che, se si guardano le fotografie della piazza negli anni Ottanta, pare di vedere un bosco più che un prato: solo negli anni Novanta, con la rimozione dei platani, la piazza ha assunto l’aspetto attuale, certo più vicino a quello settecentesco, ma comunque privo di una parte non trascurabile della sua storia. Terza ragione, Andrea Memmo, il letterato cui spetta il progetto di Prato della Valle, non presentò una lista completa di tutte le 88 statue da inserire nella piazza: quando Memmo scompariva, nel 1793, Fanzago era praticamente un “neolaureato”, si potrebbe dire con termine moderno. Le statue erano semmai frutto delle idee e della generosità della cittadinanza, tenuta a sottoporre le proposte a un magistero creato ad hoc, la “Presidenza del Prato della Valle”, che il 10 febbraio del 1776 pubblicò un manifesto in cui veniva autorizzata l’offerta delle statue e venivano fissate le regole sui soggetti (rifiutate, per esempio, le statue di santi, per il motivo che i santi venivano già celebrati nelle chiese).

Prato della Valle. Foto di 	Alain Rouiller
Prato della Valle. Foto di Alain Rouiller
La pianta di Prato della Valle in una stampa di fine Settecento
La pianta di Prato della Valle in una stampa di fine Settecento
Prato della Valle all'inizio del Novecento
Prato della Valle all’inizio del Novecento
Prato della Valle negli anni Sessanta
Prato della Valle negli anni Sessanta

La storia della “Gran Pinacoteca, o sia raccolta di statue rappresentanti uomini illustri” immaginata da Memmo si può leggere nella Descrizione della General Idea concepita, ed in gran parte effettuata dall’eccellentissimo signore Andrea Memmo, opera pubblicata nel 1786 dall’abate Vincenzo Radicchio, dove s’apprende che l’idea era di spronare i cittadini generosi a farsi carico delle spese delle statue, andando a pescare personalità tra le tante illustrissime (cittadini padovani che “fecero grande figura nella Romana Repubblica”, signori medievali e rinascimentali, letterati e scienziati, militari, rettori universitari) della storia cittadina. Per dare un’idea dello spirito collettivo che portò alla nascita del progetto, si può apprendere dalla Descrizione che il Comune di Padova voleva pagare a sue spese una statua in onore di Andrea Memmo, ma questi per umiltà rifiutò, indicando che venisse anzi innalzata una statua a un suo antenato, Maffeo Memmo (la statua di Maffeo fu elevata nel 1776, ma nel 1794, dopo la scomparsa di Andrea Memmo, l’ideatore del Prato fu comunque omaggiato dalla Presidenza, con una scultura finanziata da Angelo Diedo e dai presidenti del Prato della Valle e commissionata a Felice Chiereghin). In definitiva, aggiungere la scultura di una donna illustre, in continuità estetica con gli altri monumenti della piazza, non andrebbe a snaturare la storia di Prato della Valle e si porrebbe in linea con lo spirito dal quale nacque la “Gran Pinacoteca”.

Il dubbio, semmai, è su chi omaggiare. Su Elena Corner molti sono contrari per il fatto che in città già è presente un monumento che la onora. Da scartare sicuramente monumenti a concetti astratti legati alla femminilità, oppure alle donne vittime di violenza, per quanto si tratti di idee nobili: Prato della Valle nasce come luogo destinato ai personaggi che hanno dato lustro a Padova e tale deve restare. Vittorio Sgarbi stamani ha lanciato tre proposte, ovvero la poetessa Vittoria Aganoor, Eleonora Duse e Gaspara Stampa. Si potrebbe aggiungerere diversi nomi. Per rimanere nell’ambito dell’arte, si potrebbe pensare a Chiara Varotari, pittrice padovana nata nel 1584, figlia di Dario, anch’egli pittore, e sorella maggiore del più noto e più talentuoso Alessandro, passato alla storia dell’arte col soprannome di Padovanino. Ai Musei Civici di Padova si conserva un nucleo significativo di opere di Chiara Varotari: sono le tele che appartenevano alla quadreria del conte Leonardo Emo Capodilista, lasciata in legato al Comune nel 1864. Fu stimata già in tempi antichi, anche se occorre comunque rammentare che l’elogio della virtù della donna al tempo era un topos letterario e si tendeva a esagerare i meriti: ad ogni modo, Carlo Ridolfi, nelle sue Meraviglie dell’arte del 1648, la descrive come “valorosa donna” della quale si ammirano “molti belli e somiglianti ritratti e altre lodevoli fatiche” capaci di rinnovare le memorie delle “donne illustri decantate dagli antichi scrittori”. Ridolfi poneva in particolar modo l’accento sul fatto che, in controtendenza rispetto ai suoi tempi, avesse rifiutato il matrimonio, mettendosi al servizio della “casa paterna”. Marco Boschini, nella Carta del navegar pitoresco, ne parla come “unica (se puoi dirlo) in far retrati”. Cristoforo Bronzini la inserì nel suo dialogo Della dignità et della nobiltà delle donne, che si inseriva nel dibattito sul ruolo della donna dei primi anni del Seicento (e Chiara Varotari si potrebbe ricordare non tanto per il suo talento artistico, ma proprio perché richiama quel preciso momento storico: fu anche presa a esempio da Ridolfi come artista in grado di dimostrare fino “a quale segno arrivi la perspicacia donnesca”).

Ma ci sono altre donne della storia padovana che meriterebbero un posto in Prato della Valle, forse ancor più della Varotari. Ne aggiungo due: Sibilla de’ Cetto, nobildonna che assieme al marito nel 1407 fondò l’Ospedale di San Francesco Grande. E Isabella Andreini, attrice, scrittrice e poetessa, nota in quanto fu una delle prime attrici della storia del teatro, ruolo rivoluzionario in un’epoca in cui l’opportunità di calcare un palcoscenico era di norma riservata soltanto agli uomini, e prima donna a comporre una favola pastorale, La Mirtilla, edita nel 1588. Lodata dai contemporanei per la sua cultura, nella Piazza universale di tutte le professioni del mondo, trattato del 1599, lo scrittore Tommaso Garzoni ne parlò definendola “la gratiosa Isabella decoro delle scene, ornamento dei Theatri, spettacolo superbo non meno di virtù che di bellezza”. L’ultima parola su un eventuale monumento in Prato della Valle, naturalmente, spetterà alla soprintendenza. Ma le aperture dei giorni scorsi fanno pensare a un esito positivo. E anche se non dovesse verificarsi l’eventualità di una statua nel pantheon dei padovani, un monumento a una donna che ha contribuito a render grande la città sarebbe un’idea del tutto praticabile. E non toglierebbe niente a nessuno.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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