È logico aspettarsi che un paese che vive di contraddizioni profonde finisce per esprimerle anche nei settori di offerta di cultura, dunque nel settore museale. In fin dei conti, l’ISTAT ci dice che l’Italia è un paese di potenzialità culturali inespresse, nel quale la domanda di servizi museale è esplosa per via dei flussi di turisti – chiamiamoli ‘cittadini temporanei’ – ed appare stagnante per i cittadini delle comunità locali – i cosiddetti ‘cittadini permanenti’. Può sembrare necessario chiedersi quali politiche adottare per cambiare questo trend di lungo periodo.
Agli occhi dell’autore di questo articolo, occorre una diagnosi asettica per arrivare alla cura seria di un ‘malessere’ o problema. Tuttavia, il primo campanello di allarme emerge nel modo in cui vengono riportati e dibattuti i dati sul fenomeno, anche dagli organi di informazione. E questo fa sorgere il bisogno di un’analisi delle caratteristiche ‘strutturali’ di mercato per poter proporre ipotesi alternative sulla natura di un problema.
Partiamo dalle banalità: un museo rappresenta una forma di ‘impresa’ che si muove in uno spazio di mercato. Pertanto, ci sono due tipi di interpretazioni consistenti con la correlazione di segno negativo emersa nel tempo tra la domanda di servizi museali espressa dai cittadini temporanei e quella che emerge dai cittadini permanenti. Un’interpretazione deriva dai fattori che determinano il comportamento della domanda di mercato. L’altra ha a che fare con le determinanti dell’offerta di mercato. In questo quadro, le preferenze dei fruitori – in particolare dei cittadini temporanei – emergono come l’anello debole della catena su cui il lato dell’offerta dei servizi museali può plausibilmente incidere in modo marginale. Ciò fornisce l’intuizione per una proposta da ‘shock’ di domanda di servizi museali: un’unione di forze del sistema privato e del mondo museale per acquisire le conoscenze e le esperienze pratiche necessarie per spingere le preferenze dei fruitori ad allinearsi nel modo che viene ritenuto più desiderabile dal punto di vista sociale. Non ci illudiamo: uno sforzo di questo tipo ha senso soltanto se gli obiettivi dell’offerta di servizi museali sono chiari.
Supponiamo di voler misurare la percentuale di “italiani al di sopra dei 6 anni” che abbiano “visitato almeno un museo o una mostra durante l’anno”. Ciò avviene in modo indiretto. Si seleziona un ‘campione’ di popolazione, si somministra un questionario in cui vengono rilevate le dichiarazioni delle scelte decisionali. Infine, si introduce un ‘ingrediente X’ nell’analisi: sotto specifiche ipotesi, la frazione intervistata che dichiara di aver visitato almeno un museo viene ritenuta ‘abbastanza rappresentativa’ dell’effettivo comportamento dell’intera popolazione italiana.
C’è un problema: tutte le ’stime’ sono soggette all’effetto di diversi tipi di errori, omissioni o scelte di misurazione che possono ridurre il grado di confidenza associato alla validità del nostro ‘ingrediente X’. Quando si è ’meno certi’ del fatto che il comportamento del campione limitato possa essere rappresentativo per l’intera popolazione, aumenta il grado di ‘incertezza’ della ‘stima del numero di italiani che hanno visitato almeno un museo’. In questo caso, riportare che soltanto l’8,9% degli italiani ha visitato un museo nel 2021 senza indicare una forbice o un intervallo di valori stimati – consistenti con un certo livello di ‘confidenza’ o affidabilità – può fornire un’informazione totalmente fuorviante. Perché? Se diciamo che l’8,9% degli italiani ha visitato un museo – in media – con una stima che può variare dal 4,9% al 12,9% per un dato livello di confidenza, diamo un messaggio chiaro: ci sono altri valori stimati con plausibilità ben diversi da 8,9%. In un esercizio di comparazione internazionale, il ranking tra paesi sulla base di stime di partecipazione alle attività museali può cambiare rispetto al caso in cui si considera soltanto una ‘stima puntuale’.
Tutto questo è noto agli istituti di statistica. Il problema è che il messaggio che deriva dalla piena comprensione dei dati non viene tipicamente passato dalla stampa al pubblico più vasto. Pertanto, la confidenza del pubblico nella ‘certezza’ su aspetti dei dati che potrebbe non aver senso leggere. E, poiché le politiche culturali vengono informate dai dati, ne può nascere un riflesso sul modo in cui vengono prese decisioni di lungo periodo.
Ritorniamo alle possibili interpretazioni del ‘caso italiano’. Consideriamo il ruolo della ‘segmentazione’ di mercato. Questo fenomeno emerge da forme di differenziazione dei servizi offerti, le quali finiscono per trovare desiderabilità di fruizione nel lato della domanda. La segmentazione può sorgere anche dalle decisioni di consumo prese dai fruitori dei servizi museali, generando poi una risposta nelle decisioni del lato dell’offerta.
Un tipo diverso di ipotesi concerne il mancato incontro tra offerta e domanda di servizi museali. Questo introduce due possibili domande: ciò avviene perché le decisioni di offerta non hanno tenuto conto delle esigenze del lato della domanda, oppure è la domanda a non esprimere decisioni di fruizione del servizio offerto?
Una diagnosi della causa profonda di mancanza di domanda museale da parte dei cittadini permanenti richiederebbe uno lo svolgimento di uno studio con metodi di analisi scientifica. Ne emerge comunque un elemento di ‘legame debole’ tipicamente difficile da: si tratta del ruolo delle preferenze che guidano le scelte di (mancata) fruizione.
Perché intendo porre l’accento su questa variabile? Rispondo con una domanda provocatoria: ha senso aspettarsi che l’interpretazione delle preferenze dei fruitori su cui viene costruita un’offerta culturale si traduca nel tempo in decisioni consistenti espresse dai fruitori stessi?
Azzardo un altro elemento di analisi: la distorsione agli incentivi che possono caratterizzare le decisioni di un’impresa operante in un contesto di monopolio – o in una struttura di mercato percepita come tale. I musei sono forme di impresa ‘speciali’ perché spesso agiscono come ‘monopolisti’: se si vuole godere di una mostra su Leonardo lo si può fare soltanto nella/e struttura/e che offrono proprio questo. Il problema è che un monopolista è tale soltanto se il lato dei fruitori ha preferenze e risorse che portano a decisioni di consumo per il bene offerto. E ritorniamo al ruolo delle preferenze.
Convincere i cittadini permanenti delle comunità locali ad assegnare un grado di desiderabilità maggiore a favore dell’offerta museale include tratti simili rispetto a quelli che vengono valutati nei piani di marketing strategico delle imprese. Dal lato del museo, questo solleva sfide principalmente legate alla mancanza di conoscenze e alla necessità di strumenti di strumenti di indirizzo dei bisogni. Una via alternativa consiste nel ‘disegno di incentivi’ alle decisioni, i quali possono avere una natura monetaria o morale tra gli altri. Il nostro paese ha sperimentato diversi interventi di incentivi monetari con riduzione/azzeramento del prezzo dei biglietti di ingresso nei musei. Tentativi di incentivi di tipo morale emergono nelle offerte di servizi museali basate sulla ‘partecipazione attiva’ delle comunità locali, permettendo ai fruitori di contribuire alla formazione delle decisioni di offerta.
Forse serve uno shock esogeno a favore del mondo museale. Ecco una proposta: la costituzione di una partnership tra settore pubblico e settore privato per gli scambi di conoscenza finalizzati all’ampliamento della partecipazione culturale nel settore museale. Le imprese che operano nel settore privato vedono la creazione di bisogni secondo un’ottica strategica. Inoltre hanno – per via del loro scopo ultimo – la necessità di reindirizzare il soddisfacimento dei bisogni verso i propri prodotti. Non a caso, negli ultimi decenni, è stato il settore privato a creare gli strumenti tecnologici che sono stati alla base di persistenti aumenti di domanda sia di contenuti online, sia di contenuti on-demand: dopo aver identificato lo spazio di domanda, l’avvio dell’offerta è stato seguito dall’avvio della domanda. Dalla prospettiva dei musei, questo contribuirebbe a limitare un gap di conoscenze che difficilmente potrebbe essere colmato da attività di formazione teorica. Dall’altro lato, sulla base di quali elementi si potrebbero convincere le imprese del settore privato ritenute più rilevanti ad adoperarsi per una causa di beneficio sociale? Un motivo su tutti: il prestigio che deriverebbe dal vincere la sfida di contribuire al ‘brand Italia’, dimostrando capacità di riadattamento di strumenti di analisi in contesti di mercato meno competitivi e più rigidi. Non donazioni o sussidi, ma apporto di esperienza.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 19 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.