La notizia rimonta alla fine di gennaio: in un importante museo inglese, la Manchester Art Gallery, per decisione della direttrice Clare Gannaway, un dipinto ottocentesco di un attardato pittore preraffaellita, John William Waterhouse (Roma, 1849 - Londra, 1917), è stato rimosso per una settimana dalla sala che lo ospitava. L’opera, realizzata sul finire dell’epoca vittoriana (risale, per l’esattezza, al 1896), rappresenta il mito di Ila e le ninfe: nelle Argonautiche di Valerio Flacco si legge che Ila, uno dei membri della spedizione degli Argonauti, nonché scudiero di Eracle, fu rapito dalle ninfe durante una sosta a terra, resasi necessaria per far rifornimento d’acqua. Le ninfe s’invaghirono dell’eroe greco e non lo lasciarono ripartire: così, la nave Argo fu costretta a salpare senza di lui. Waterhouse rappresenta il momento in cui le ninfe trascinano Ila per un braccio per coinvolgerlo nel bagno che stanno facendo in un laghetto.
John William Waterhouse, Ila e le ninfe (1896; olio su tela, 132,1 x 197,5 cm; Manchester, Manchester Art Gallery) |
Nel comunicato diffuso dal museo a seguito del ritorno dell’Ila e le ninfe nella sua sala, dopo la settimana d’assenza, si legge che la Manchester Art Gallery "ha lasciato uno spazio temporaneo nella galleria al posto dell’Ila e le ninfe di John William Waterhouse per stimolare la discussione sul modo in cui vengono mostrate e interpretate le opere nella collezione pubblica di Manchester". In effetti, i visitatori potevano lasciare un post-it coi loro pensieri sulla parete vuota, e sul sito web del museo era stato aperto uno spazio per i commenti, tuttora utilizzabile. La nota offriva poi ulteriori spunti di riflessione: “questa galleria presenta il corpo femminile sia come una ’forma di decorazione passiva’ sia nelle vesti di ’femme fatale’. Sfidiamo questa fantasia vittoriana! La galleria continua a esistere in un mondo pieno di problematiche, tra loro connesse, che riguardano genere, razza, sessualità e classi sociali e che coinvolgono tutti noi. L’arte può parlare secondo modalità più contemporanee e rilevanti? Quali altre storie potrebbero raccontarci le opere e i loro personaggi? Quali altri temi potremmo esplorare nella galleria?”. La rimozione del dipinto è stata poi filmata e diventerà parte dell’esposizione che l’artista Sonia Boyce, ideatrice dell’azione assieme a Clare Gannaway, terrà presso il museo di Manchester dal 23 marzo al 2 settembre del 2018. La direttrice, durante i giorni d’assenza del quadro dalla galleria, ha inoltre spiegato al Guardian che il suo intento non era quello di censurare, bensì d’accendere una discussione, e che sulla scelta hanno influito recenti campagne come Time’s Up e #MeToo.
Occorre sottolineare che una discussione è stata sì accesa: ma non s’è certo dibattuto della rappresentazione del corpo femminile nell’arte e dell’atteggiamento che i musei dovrebbero assumere nei confronti delle opere d’arte antiche che non corrispondono alla sensibilità odierna. Tutto il mondo s’è infatti interrogato sull’opportunità di rimuovere un dipinto dal suo contesto espositivo per accogliere le ragioni d’un movimento sorto in epoca contemporanea, e che porta avanti istanze ovviamente ben più che condivisibili, ma riferite alla realtà sociale e culturale del ventunesimo secolo. In altri termini: è legittimo discutere sulla mercificazione del corpo femminile, è più che giusto censurare e perseguire ogni comportamento considerato lesivo della dignità della donna, è corretto evitare che si continui a considerare la donna alla stregua d’un oggetto. Quello che forse non è né legittimo, né giusto, né corretto è applicare le categorie di giudizio contemporanee a un dipinto eseguito più di cent’anni fa. Tanto più che non si tratta né d’un dipinto in cui la donna viene oggettivizzata, né di un’opera in cui la donna subisce una violenza. Anzi, in questo caso è vero semmai il contrario, dacché secondo il mito furono le ninfe a sequestrare l’argonauta perché innamoratesi di lui: l’unica colpa dell’opera di Waterhouse sembra esser quella di dare immagine a una fantasia erotica che affolla l’immaginario d’una quantità innumerevole di maschi eterosessuali.
L’azione della Manchester Art Gallery dev’esser certo valutata sotto tutti i suoi aspetti. Occorre intanto sgombrare il campo da equivoci e dar ragione a Clare Gannaway quando afferma che non si tratta di censura: tuttavia, il più grave errore della direttrice è stato quello d’aver dato vita a una campagna comunicativa decisamente ambigua e che s’è rivelata incredibilmente sbagliata e controproducente, dal momento che il museo è stato accusato proprio di censura dai media di mezzo mondo. L’aver poi associato l’idea alla campagna #MeToo, con le ovvie e scontate reazioni di sessisti e machisti d’ogni dove (ma anche dei moderati che hanno interpretato male le velleità dell’operazione), ha fatto il resto. L’operazione può esser giustificata in qualità di performance artistica di Sonia Boyce, che la si voglia condividere o meno: si tratta niente più che d’un tardivo esperimento di nouveau réalisme, simile agli impacchettamenti di Christo, e animato dallo stesso principio (che non passa mai di moda e che risulta sempre funzionante), ovvero il nascondere per sottolineare l’importanza d’un oggetto o d’un argomento. I dubbî nascono quando dalla performance si passa alla più banale pratica museale: è giusto dunque rimuovere un’opera per dar vita a un dibattito? È corretto voler ricontestualizzare l’arte del passato sulla base della sensibilità del presente? In altri termini: ha senso voler “sfidare una fantasia vittoriana”?
Il principale problema dell’operazione, oltre alle gravi lacune comunicative che hanno portato i più a travisarne il messaggio (l’azione compiuta da Clare Gannaway e Sonia Boyce è troppo raffinata per i mezzi di comunicazione di massa e al contempo troppo soggetta a possibili equivoci), è il fatto che s’è offerto un pericolosissimo precedente a quanti, dopo aver scambiato la volontà di discutere per volontà di censurare, in futuro potrebbero non farsi troppi problemi a chiedere la rimozione d’opere d’arte considerate offensive o sessiste. È pur vero che chi dirige un museo è tipicamente dotato di sufficiente raziocinio per evitare che una trasformazione di #MeToo in pruderie (quel tanto che basta per ritenere sessista un ignaro preraffaellita di fine Ottocento: non è il caso della direttrice della Manchester Art Gallery, troppo intelligente per essersi lasciata andare a considerazioni simili, ma esistono purtroppo dei precedenti) possa nuocere alle opere esposte. Tuttavia, è sempre possibile attendersi sorprese. Si sono già registrati casi di musei che hanno ceduto al politicamente corretto: valga l’esempio del Rijksmuseum di Amsterdam, che a fine 2015 ha cominciato a sottoporre tutte le sue opere a un massivo aggiornamento dei titoli ritenuti offensivi. Un’operazione che, se non passibile d’esser bollata come revisionismo storico, rappresenta comunque un qualcosa di molto simile.
Dunque, cosa fare? La risposta è una sola: tenere a mente quanto scriveva Roberto Longhi, ovvero che l’opera d’arte è sempre inserita in un sistema di relazioni, e di conseguenza contestualizzare. Si prenda l’opera di Waterhouse: forse sarebbe stato anzi il caso di dire che anche un’artista donna sua contemporanea, ovvero Henrietta Rae (Londra, 1859 - 1928) realizzò un dipinto raffigurante Ila e le ninfe. Un dipinto, peraltro, ben più sensuale rispetto a quello di Waterhouse: le ninfe di Henrietta Rae sono caratterizzate individualmente (al contrario di quelle di Waterhouse, che hanno tutte lo stesso volto), la composizione è più sciolta, i protagonisti sono molto più partecipi e l’erotismo è ben più palpabile. Nessuno, all’epoca della realizzazione (il 1910), si sarebbe sognato di porre l’opera al centro d’un dibattito: il nudo accademico era una pratica comunemente accettata, esistevano dipinti dove, al posto dei nudi femminili, figuravano nudi maschili certo non meno sensuali, e il corpo, tanto quello maschile quanto quello femminile, pur non mancando di solleticare le fantasie dei fruitori (nudi esotici abbondavano nelle abitazioni dell’epoca: e tuttavia non c’è assolutamente niente di male nello scorgere suggestioni erotiche in un dipinto), veniva apprezzato anche per la sua bellezza, la sua armonia, l’equilibrio delle sue proporzioni. Lanciarsi in operazioni arrischiate, senza fornire al pubblico gli strumenti adeguati per una riflessione ponderata, è azione fallita già in partenza. E il caso di Manchester è un esempio lampante di quanti danni possa fare una comunicazione incompleta o fraintendibile.
Henrietta Rae, Ila e le ninfe (1910; olio su tela, 142,3 x 222,8 cm; Collezione privata) |
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).