Non è nuova, né tanto meno originale, l’idea di ricostruire il tempio G di Selinunte, rilanciata ieri da Vittorio Sgarbi, che da novembre è il nuovo assessore alla cultura della Regione Sicilia e che per tutta la campagna elettorale ha sbandierato l’ipotesi di ricostruzione come suo cavallo di battaglia. Nelle scorse ore, lo storico dell’arte ferrarese ha diffuso le stime sui costi per rialzare le colonne del tempio, abbattuto da un sisma in epoca altomedievale, quando Selinunte era già disabitata e in stato di abbandono da secoli. E da quell’evento, del tempio G non è rimasto altro che un ammasso di rovine su cui svetta un’unica colonna, ribattezzata “il fuso della vecchia” dagli abitanti della zona.
Rimonta al 2011 l’ultimo tentativo di proporre all’attenzione dell’opinione pubblica l’idea d’una ricostruzione del tempio G: allora governatore della Sicilia era Raffaele Lombardo e principale testimonial della ricostruzione era lo scrittore e storico Valerio Massimo Manfredi. Il progetto fu subissato dalle critiche di buona parte del mondo scientifico, e produsse come unico risultato concreto un modello in legno di come doveva apparire il tempio quando ancora non era stato distrutto. Occorre però sottolineare alcuni aspetti della vicenda storica dell’edificio: si tratta infatti di un’opera che non fu mai completata. Più nel dettaglio, il progetto fu interrotto dall’invasione cartaginese di Selinunte, che nel 409 a.C. pose fine alle ambizioni degli abitanti: i nemici assediarono la città e, una volta entrati, la sottoposero a saccheggi e distruzioni, facendo strage dei suoi residenti. L’evento decretò, in sostanza, la fine della città: diversi abitanti in seguito vi fecero ritorno, ma Selinunte non riuscì mai a raggiungere lo splendore e l’importanza che ebbe prima della sconfitta contro Cartagine, e già nel 250 a.C. risultava in gran parte abbandonata. Il grande tempio rimase dunque incompiuto, e in più non sappiamo con certezza quale fosse il suo aspetto originario. Pertanto, l’unico progetto possibile per il tempio G potrebbe essere una anastilosi, ovvero quel particolare tipo di ricostruzione che prevede la ricomposizione di edifici o porzioni di edifici distrutti attraverso l’utilizzo dei pezzi originali che si sono conservati, ricollocandoli esattamente dov’erano in antico, e solo sulla base di dati sicuri.
Le varie carte del restauro emanate negli anni per disciplinare la materia forniscono precise indicazioni sull’anastilosi. La Carta italiana del restauro del 1972, in particolare, indica che sono ammesse solo le “anastilosi sicuramente documentate”, mentre la Carta di Venezia, redatta nel 1964, prescrive che “è da escludersi a priori qualsiasi lavoro di ricostruzione, mentre è da considerarsi accettabile solo l’anastilosi, cioè la ricomposizione di parti esistenti ma smembrate”. Nel caso del tempio G di Selinunte, è possibile parlare di una anastilosi sicuramente documentata? E soprattutto: l’immagine del tempio risollevato (perché solo a questa operazione si limiterebbe l’intervento, così com’è stato fatto per la criticatissima anastilosi del tempio E, avvenuta negli anni Cinquanta) sarebbe fedele a quella che si parava dinnanzi allo sguardo degli antichi, abituati a vedere le colonne non come finestre libere sul paesaggio, ma come cornice che racchiudeva le pareti del naos? Ma non sono questi gli unici rischi che un’eventuale anastilosi comporterebbe. Non sempre le anastilosi si sono rivelate rigorose, e spesso i materiali originali sono stati integrati anche con elementi di natura radicalmente diversa (ne è un esempio lo stesso tempio E, integrato con inserti in cemento armato). E ancora: le rovine giacciono inerti da secoli, abbandonate all’azione del tempo e degli agenti, che ne hanno comportato un’ulteriore rovina. Di conseguenza, anche se fossero rimesse in piedi, di sicuro avrebbero ben poco a che vedere con quello che doveva essere l’aspetto del tempio prima del crollo. Molti paventano dunque la ricostruzione di un falso storico: ma anche se un falso non dovesse risultare, prodigarsi in un’impresa titanica per ripristinare solo un’ombra sbiadita d’un tempio incompiuto è forse da ritenere operazione avventata, arrischiata e, quanto meno, di dubbia valenza scientifica.
Jean Pierre Houël, Rovine del tempio grande di Selinunte (1782; inchiostro, pietra nera e gouache su carta, 35,1 x 54,5 cm; Parigi, Louvre, Cabinet des Dessins) |
È quanto pensava Ranuccio Bianchi Bandinelli al tempo in cui fu ricostruito il tempio E. Il grande archeologo scrisse, in tal senso, che “l’esempio più grave di iniziativa sbagliata è però offerto ora dalla ricostruzione del tempio E di Selinunte. Si è speso assai, oltre i cento milioni; si sono fatti, da parte della direzione dei lavori, miracoli di ingegnosità tecnica, che solo un’intelligente passione per il monumento antico poteva dettare; e tutto ciò per un risultato deplorevole. Deplorevole da vari punti di vista. Si è alterato un paesaggio ormai classico, sul quale sono state scritte pagine di alta poesia, un paesaggio che aveva ormai un suo valore culturale così come esso era; e questa distruzione di un valore culturale (evidentemente non sentito o ignoto a chi ha voluto il ripristino) avrebbe potuto essere giustificato, tutt’al più, da un preciso interesse scientifico archeologico, in modo che la perdita di un valore culturale fosse compensata dalla acquisizione di un altro. Invece, ricostruendo, come si è fatto, senza prima aver eseguito il rilievo dei frammenti pezzo per pezzo, si sono distrutte le possibilità di accertamento e di studio di quei particolari strutturali dell’architettura antica, che sono ancora oggetto di indagine e di discussione, specialmente per precisare i rapporti complessi e in parte ancora ignorati tra Grecia e Sicilia. Culturalmente e archeologicamente, quindi, il risultato è del tutto negativo”.
Esiste poi un serio problema d’opportunità: risollevare le colonne del tempio G equivarrebbe a cancellare con un colpo di spugna circa mille e quattrocento anni di storia. Sugli stessi argomenti s’erano espressi gli studiosi che avanzarono critiche, talvolta anche pesanti, sull’anastilosi del tempio E. A proposito di quest’ultima operazione, così s’era pronunciato Cesare Brandi: “anche se la ricostruzione fosse stata fatta in modo ineccepibile, senza quell’andare a tentoni sul modo di riempire le lacune, sicché il tempio si ostende come un campionario di tecniche surrettizie per lo più dissennate, sarebbe stato ugualmente un errore averlo ricostruito: perché non si attenta alla maestà di un rudere che la storia, attraverso più di venti secoli, ci aveva consegnato rivestito di tale tragica bellezza, che niente occorreva di più, anche per un profano, per fantasticarlo quale fosse - giacque ruina immensa - quando era in piedi”. Si pensi ai disegni, ai dipinti, alle stampe che ci hanno lasciato gli artisti del passato che visitavano Selinunte e che rimanevano colpiti alla vista di quanto la natura e i secoli avevano causato all’opera dell’uomo: la contemplazione delle rovine è certo lontana dalla nostra sensibilità, e sarebbe frutto di un tardivo revival romantico utilizzarla come argomento contro l’anastilosi, ma è altrettanto vero che una ricostruzione si configurerebbe come un intervento arbitrario contro una storia plurisecolare di cui quelle rovine sono parte integrante.
Un’eventuale ricostruzione del tempio G di Selinunte non avrebbe niente a che vedere con l’anastilosi degli affreschi della Basilica di Superiore di Assisi, crollati con le scosse del 1997 (un esempio che, nel corso d’un dibattito, il summenzionato Valerio Massimo Manfredi addusse per giustificare l’eventuale operazione sull’edificio sacro siciliano): ma nel caso di Assisi, si trattò di riparare danni recentissimi all’interno di un edificio ancora integro, oltre che di restituire alla comunità assisiate un suo simbolo riconosciuto.
Operazioni di questo tipo vanno certo valutare caso per caso, ma dare inizio alla ricostruzione d’un tempio crollato all’incirca quattordici secoli fa forse non è proprio una priorità per il sistema dei beni culturali della Sicilia. Non occorre enumerare l’elenco di quanti, negli ambienti scientifici e accademici, hanno ribadito la loro contrarietà all’evento (basti pensare che, quando l’ipotesi di ricostruzione fu ventilata da Lombardo nel 2011, Settis parlò di “opera di regime fuori tempo” e Giuseppe Voza di una “follia”, e addirittura negli anni Settanta - evidentemente la proposta è ciclica - un gruppo di docenti dell’Università di Palermo definì “nuovi vandali” i fautori del progetto): basti ricordare che gli interventi dovrebbero essere condotti per salvaguardare e per conservare, e non per dar vita a operazioni che con la storia hanno poco a che vedere.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).