Partiamo da una premessa: se è vero che negli ultimi anni si è intensificato il dibattito sui rapporti tra pubblico e privato nella gestione dei beni culturali e che l’uso retorico di tale coppia di termini gode di grande fortuna, i dati e l’esperienza ci mostrano una realtà che va in tutt’altra direzione.
Distinguiamo intanto in quattro diverse categorie di rapporti, a cui se ne potrebbero aggiungere molte altre: il cosiddetto mecenatismo, le sponsorizzazioni, il partenariato e l’affidamento di servizî. Sono fattispecie totalmente diverse che non possono essere ricomprese in un ambito univoco. Tuttavia tutte queste pratiche si sono affacciate all’inizio degli anni Novanta con l’introduzione di importanti novità dovute alla legge Ronchey e con il nuovo assetto degli enti locali. In assenza di una normativa specifica le pubbliche amministrazioni hanno cominciato a dotarsi di strumenti più elastici, di carattere privatistico, che consentissero una gestione più agevole di istituzioni e servizî e che, potenzialmente, aprissero alla partecipazione di privati, sia negli aspetti finanziarî che di governance; parallelamente il pubblico si aprì alla possibilità di ricevere sponsorizzazioni.
A cavallo del millennio si è assistito dunque al proliferare di soggetti variamente concepiti che rispondessero a queste caratteristiche: tra tutti il più diffuso è quello della “fondazione di partecipazione”. Tranne rarissimi casi, le aspettative di attrarre partecipazioni di privati è andata delusa e le compagini “sociali” si sono perlopiù limitate a soggetti pubblici (Stato, Regioni, Province, Comuni, Camere di Commercio). Nel 2010 si è registrata una radicale inversione di tendenza: con la legge 112 sono state introdotte una serie di limitazioni (riduzione a cinque del numero di membri dei cda dei soggetti partecipati, l’abolizione degli emolumenti per gli amministratori, limiti nelle spese per viaggi, divieto di sponsorizzazioni da parte di aziende pubbliche ecc.). Limiti che scoraggiarono definitivamente i privati, già poco inclini, ad offrire una propria partecipazione. Da allora è stato un susseguirsi di nuove norme, spesso incoerenti e contraddittorie, che hanno sempre più assoggettato queste istituzioni alle regole della pubblica amministrazione, riducendo progressivamente le ragioni stesse per cui erano state concepite. Senza peraltro che sia stata ancora varata una normativa specifica che riconosca le caratteristiche particolari delle “imprese culturali”.
La Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia (Fondazione Brescia Musei) |
Per quanto riguarda le sponsorizzazioni invece, queste si sono fin da subito strutturate come il loro esatto contrario; più che un vero rapporto sinallagmatico da parte dello sponsor, questa pratica è stata concepita come un’attività di pubbliche relazioni: io non spero in un reale ritorno di benefici commerciali dalla mia dazione, ma lo faccio per aprire un canale privilegiato con l’amministrazione beneficiaria. Quando poi il legislatore è andato a normare tali aspetti, lungi dal rimettere ordine in un settore in cui la misurazione dei benefici reciproci dovrebbe essere la base e la contrattazione la regola, si è limitato a registrare e a fissare una pratica distorta, introducendo l’obbligo dei bandi e della programmazione pluriennale.
Alla superfetazione normativistica sopra ricordata si sono poi aggiunti due macigni: il codice dei beni culturali e il codice degli appalti. E nella valutazione del combinato disposto di questi due provvedimenti ci viene in soccorso un ponderoso studio condotto dalla Corte dei Conti nel 2016. Certo non è aggiornato ad oggi, ma i dati che ne emergono sono eloquenti e l’analisi strutturale fotografa una situazione che non è mutata. Dallo studio risulta che la contraddittorietà delle disposizioni, unita alla carenza di una cultura di gestione dei funzionarî e all’assenza di reali prospettive di realizzare utili per gli investitori, anziché favorire ha generato la paralisi sia sul versante del project financing che su quello delle sponsorizzazioni.
Un segnale in controtendenza potrebbe essere rappresentato dall’Art Bonus, introdotto cinque anni fa per favorire donazioni da parte di privati a favore di istituzioni culturali. La norma prevede un credito d’imposta pari al 65% del contributo a favore del donatore. Ossia, per intenderci, dato un contributo nominale pari a 100 euro, 65 sono a carico dello Stato. Solo per inciso vale la pena ricordare che i primi a goderne sono stati i contributori storici, che hanno così ottenuto un vantaggio inatteso. Ne beneficiano enti lirici e istituzioni musicali, festival compresi, ed enti gestori di patrimonio pubblico. Restano dunque esclusi non solo tutti i soggetti privati ma anche quelli intermedî che, pur avendo un profilo di carattere privatistico, sono istituiti, finanziati e controllati dalla pubblica amministrazione. Sull’altro versante, secondo quanto riporta Antonio Leo Tarasco (dirigente MiBACT ), nel suo volume Diritto e gestione del patrimonio culturale, il gettito devoluto ai musei e ai siti archeologici in diretta gestione del Ministero oscilla intorno all’1% del totale!
Sul piano delle concessioni per la gestione e dell’affidamento di servizî, di nuovo, va registrata una carenza di visione imprenditoriale da parte dello Stato, che ha prodotto affidamenti con proroghe ultradecennali e confusione, spesso voluta, tra le due attività, con rendimenti che, tranne rari seppur significativi casi, diventano irrisorî.
Prima di concludere occorre fare un riferimento al molto citato “sistema anglosassone” assunto come modello da imitare. Nessuno degli esempî sopra riportati si avvicina a quanto succede negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, dove tutti gli investimenti in istituzioni culturali sono esclusi dal campo fiscale e quindi si è generato un sistema di fondi di investimento in cui confluiscono risorse che generano utili finanziarî, oltre che gestionali, in grado di sostenere il management di musei e altro. In quel contesto, peraltro, vi è un fondamentale rilievo reputazionale nella partecipazione a fondazioni culturali e benefiche, che si riverbera direttamente sulle attività aziendali del contributore. Di più: gli investimenti in quei paesi vanno sì a beneficio della collettività, ma restano in un ambito privato, non confluiscono mai nella finanza pubblica; anzi, come nel caso della recente ristrutturazione del MoMA di New York, è lo Stato che contribuisce con un proprio intervento finanziario all’attività del privato. Esistono buone pratiche in Italia? Certo, si contano sulla punta delle dita, e si potrebbe dire che sfidano una situazione ambientale ostile. Ne cito due particolarmente significative: il Museo Egizio di Torino, come modello gestionale-imprenditoriale, e la Fondazione Brescia Musei come esempio di governance allargata alle realtà imprenditoriali e alle comunità locali. Ci si chiede cosa bisognerebbe fare per migliorare questa situazione. Su questo esistono idee e proposte puntuali, ma trattarle richiederebbe più spazio.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 8 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.
L'autore di questo articolo: Umberto Croppi
Presidente della Fondazione La Quadriennale di Roma