L’accordo tra la Sicilia e la Grecia sul prestito temporaneo finalizzato alla definitiva restituzione del frammento di una lastra appartenente al fregio orientale del Partenopee, il cosiddetto “Reperto Fagan”, attualmente custodito al museo Salinas di Palermo, è un chiaro esempio di strabismo in politica culturale internazionale della Regione, che applica in modo creativo l’articolo 67 del Codice dei Beni culturali con i fratelli ellenici e lo disattende a proprio svantaggio (!) con gli americani del Met, dovendo rinunciare, ogni 4 anni e per 40 anni, ai preziosi Argenti di Morgantina, costretti ad essere sottoposti a un pendolarismo che ne mette a rischio la conservazione. Oltretutto la Sicilia, in forza di una norma regionale, è l’unica regione in Italia in cui a decidere dei prestiti extra territoriali non sono i tecnici, ma la giunta di governo, assessori come quelli alla Salute, alla Famiglia, all’Agricoltura. Un assurdo sancito per legge.
Ma andiamo con ordine. Gli articoli del Codice che disciplinano l’“uscita temporanea” (e non definitiva) di beni e opere d’arte sono il 66 e il 67, in base al quale ultimo è stato appunto siglato l’accordo tra il Salinas e il Museo dell’Acropoli di Atene. Il primo articolo vieta il prestito in due casi: “per i beni suscettibili di subire danni nel trasporto o nella permanenza in condizioni ambientali sfavorevoli”; e per “i beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica”. Che non è, quest’ultimo, il caso del nostro frammento. Vale la pena sottolinearlo, dato che secondo la propaganda governativa l’iniziativa siciliana addirittura farebbe “da apripista sul tema del ritorno in Grecia dei reperti del Partenone, dando il proprio contributo al dibattito in corso da tempo a livello mondiale”. Il riferimento è soprattutto ai marmi del Partenone ateniese da inizio Ottocento al British Museum. Al di là della validità o meno del titolo d’acquisto da parte del museo londinese, oggetto di un infinito braccio di ferro tra i due Paesi, è evidente che i “Marmi di Elgin” costituiscano una delle principali attrazioni del museo, della cui privazione sarebbe fortemente menomato. Si possono, cioè, ricomprendere nella categoria dei “beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo”. Lo stesso non può dirsi per il frammento nel museo palermitano. Il frammento del Partenone non è nemmeno riconosciuto dalla Regione Siciliana come “testimonianza essenziale delle antiche civiltà”, né come “risorsa essenziale” del suo patrimonio culturale: non è inserito, infatti, nella lista dei 23 beni speciali a cui si riconoscono questi valori. Un unico frammento del piede di una dea, mentre “i marmi di Elgin” comprendono circa 17 statue provenienti dai due frontoni, 15 metope raffiguranti battaglie tra Lapiti e Centauri, e 75 metri del fregio interno del tempio. Rappresentano più della metà di quello che oggi resta della decorazione scultorea del Partenone, esposti nella galleria Duveen, costruita appositamente per essi. Quanto premesso per chiarire che il “precedente” siciliano difficilmente innescherà uno spirito di emulazione da parte degli inglesi.
Venendo, quindi, all’articolo 67, che disciplina “altri casi di uscita temporanea” (e non definitiva, ribadiamolo), tra l’altro prevede che sia autorizzata quella “richiesta in attuazione di accordi culturali con istituzioni museali straniere, in regime di reciprocità e per la durata stabilita negli accordi medesimi, che non può essere superiore a quattro anni, rinnovabili una sola volta”. Non più di otto anni in tutto, quindi. La notizia, infatti, non sta in quello che viene definito un “accordo di straordinaria importanza internazionale”, come battuto dall’Ansa, cioè un prestito temporaneo alla Grecia già avvenuto in diverse occasioni in passato, ma nella sua propedeuticità alla definitiva restituzione. Perciò quando la ministra della Cultura e dello Sport della Repubblica Greca, Lina Mendoni, ringrazia il Governo Siciliano e l’assessore Alberto Samonà “per aver intrapreso la procedura verso l’accordo legale ai sensi del Codice dei Beni Culturali della Repubblica Italiana, affinché questo frammento possa ritornare definitivamente ad Atene”, afferma ciò che il testo giuridico italiano non dice.
Ben altra questione, invece, rinunciare al diritto di proprietà: sarebbe un gesto di alto valore culturale e civico, volto a rinsaldare “un rapporto di fratellanza e di comuni radici culturali che uniscono la Sicilia con l’Ellade”, per usare le parole di Nikolaos Stampolidis, direttore del Museo dell’Acropoli di Atene. Ma per questo le interlocuzioni della Regione autonoma sono ancora in corso e proseguono, comunque, attraverso il MiC.
In tutta questa faccenda, però, c’è una strana amnesia. Nelle comunicazioni ufficiali si tiene a sottolineare che l’accordo avviene in forza di legge, quell’articolo 67 del Codice. Ma come mai non si fa menzione della norma regionale che ha disciplinato le modalità di uscita del frammento del Salinas? Una norma voluta dallo stesso Governo Musumeci. Di più, firmata dallo sfortunato assessore Sebastiano Tusa. Il che suona come minimo singolare dato il richiamo esplicito fatto, appunto, a una legge statale. Il Decreto Tusa del 29 gennaio 2019 introduce, infatti, dopo anni di “fai da te” la disciplina della modalità dei prestiti (sulle controverse procedure e modalità di prestito di opere d’arte e beni nell’Assessorato siciliano abbiamo scritto qui). La si direbbe una buona notizia, se non fosse che fu proprio il tecnico Tusa a stabilire che si potesse fare a meno dell’autorevole parere proprio dei tecnici. Il decreto stabilisce che il prestito, sia “interno” che verso l’“esterno”, “è disposto con provvedimento del Dirigente Generale del Dipartimento dei Beni Culturali e dell’I.S., previo apprezzamento dell’Assessore dei Beni Culturali e dell’I.S., sentito il parere del direttore dell’Istituto prestatore e, ove necessario ai soli fini della salvaguardia dello stato di conservazione del bene, del direttore del Centro regionale per la Progettazione e il Restauro”. Tradotto, l’organo tecnico (DG) può avviare la procedura solo dopo che l’organo politico si è espresso favorevolmente. Di fatto, l’autorizzazione è stata rimessa in capo all’Assessore, quando, invece, la discrezionalità politica non dovrebbe interferire con le decisioni tecniche. Sparisce anche il parere dell’organo preposto alla tutela, la soprintendenza, rimpiazzata da un organismo tecnico-scientifico dell’Assessorato, il CRPR (come se fosse l’ICR di Roma a sostituirsi alle soprintendenze).
Quindi, delle due l’una: o nelle comunicazioni ufficiali si è richiamato solo l’articolo 66, per evitare di dire che il prestito del frammento del Salinas avviene “previo apprezzamento” dell’organo politico e senza che sia la Soprintendenza ad accertare le condizioni conservative del bene; oppure l’Assessorato ha istruito una pratica disattendendo una norma regionale tutt’ora in vigore.
Comunque sia, le interlocuzioni sono in corso. Come si suol dire, ciò che contano sono le intenzioni e la volontà, nonché la capacità, di concretizzarle. E così non può che balzare agli occhi la scarsa coerenza in politica culturale estera del Governo Musumeci, a cui va il plauso in generosità verso i greci, ma che scivola proprio sul tema dell’identità così cara al suo assessore leghista ai Beni culturali e, appunto, all’Identità siciliana, Samonà.
Gli Argenti di Morgantina. Malgrado, infatti, la promessa che si è assunto nel giugno del 2020, al loro rientro dal Met di New York ad Aidone di “operare nella direzione di una possibile revisione dell’accordo che porti alla collocazione stabile e definitiva degli argenti di Morgantina nella sede museale naturale di Aidone", i sedici pezzi (III secolo a.C.) che costituiscono il tesoro di Eupolemo, tra i 23 beni identitari della Regione, restano ancora in ostaggio di un accordo sbilanciato, per non dire punitivo nei confronti di una Regione “vittima” di sottrazione di beni oggetto di traffici illeciti accertati.
L’accordo del 2006 tra Governo italiano, Regione siciliana e Met, prevede, infatti, come contropartita della restituzione, un prestito periodico alternato per quarant’anni, durante i quali il tesoro dovrà essere inviato al museo di New York per quattro anni e per altrettanti, quindi, rimpatriato (della questione chi scrive se n’è occupata a più riprese oltre che su “Il Giornale dell’Arte”, anche su “The Art Newspaper”, n. 254, febb. 2014). Un intervallo concesso sul suolo patrio per far ripartire i quattro anni di prestito previsti dal Codice. Le voci dal territorio non hanno mai smesso di farsi sentire. In una lettera aperta del 30 dicembre 2020 diverse sigle del mondo associazionistico, da Legambiente all’Archeoclub, e poi “Ecomuseo: I semi di Demetra di Aidone”, “Comitato cittadino di Aidone”, “N.O.I.S. sede di Aidone”, insieme a diverse altre, richiamavano gli esiti della campagna di indagini diagnostiche dell’estate del 2014 che accertavano “uno stato di conservazione precario dei reperti”, che già basterebbe a far valere il succitato articolo 66 del Codice.
La Testa di Ade. Un pungolo a cui è rimasta sempre fedele anche l’archeologa Serena Raffiotta, oggi assessore alla Cultura di Aidone, protagonista, insieme a una funzionaria dell’Assessorato regionale, Lucia Ferruzza, della restituzione nel gennaio 2016 alla Sicilia da parte del Getty Museum di Malibù della Testa di Ade, terracotta policroma ellenistica di dimensioni pari al vero, trafugata alla fine degli anni Settanta dal santuario in contrada San Francesco Bisconti, nell’ennese. Vicenda dai risvolti mai del tutto chiariti, in cui la Regione, di nuovo “vittima”, ne esce con un ruolo di subalternità culturale e politica (cfr. “Il Giornale dell’Arte”, n. 362, mar. 2016, p. 12). Una restituzione in piena regola, ma che all’inizio si pensò di far passare come una donazione. Con l’assessorato siciliano che gioca un ruolo non ben chiaro, dove l’allora dirigente dell’ufficio interessato dalla “pratica”, Guido Meli, fu lasciato all’oscuro dell’identificazione a cui intanto si era già arrivati in terra di Sicilia. La restituzione partì, infatti, dal riconoscimento da parte di quella funzionaria regionale. Ferruzza, che aveva studiato la “testa” anni prima al Getty come Graduate Intern, capì che ad essa potevano appartenere i riccioli in deposito dagli anni ’70, prima nei magazzini di Agrigento, poi di Aidone, e che erano stati pubblicati dalla Raffiotta nella sua tesi di specializzazione. La prova del nove avviene nel 2012, quando si coglie l’occasione di una mostra lì allestita sul culto di Demetra a Morgantina per accostare alla “testa” il ricciolo, insieme ad altri tre recuperati nel 1988 nella stessa area del santuario del primo e rispuntati nel 2011, durante la sistemazione di un nuovo magazzino nel museo di Aidone. Ecco, quando si parla di piena collaborazione da parte dell’istituto americano, varrebbe la pena ricordare che per verificare la legittimità della richiesta da parte siciliana di restituzione del reperto, la motivazione ufficiale con cui i frammenti sono volati alla volta del museo di Los Angeles è stata una mostra, e non quella comparazione, la cui necessità poggiava pure su solide motivazioni scientifiche e non avrebbe avuto bisogno di altri pretesti. Tanto più che si trattava di un reperto “sospetto”, essendo pervenuto attraverso il dealer Symes. Tanto più che con quella mostra allestita tra l’aprile 2012 e il gennaio 2013, su un tema, peraltro, contiguo a quello che di lì a qualche mese sarebbe stato al centro della grande esposizione sulla Sicilia, tra aprile 2013 e gennaio 2014, prima al Getty e poi al Cleveland Museum of Art, nell’Ohio, si era in piena “operazione trasparenza”, lanciata nell’estate 2012 dal Getty per verificare la provenienza di tutta la collezione di antichità.
La normativa regionale in materia di prestiti. Furono proprio le mostre al Getty e al Cleveland la molla con cui la Regione tentò di riequilibrare la faccenda dei prestiti difettosi. Con scarsi risultati, però, sia in termini di contropartite e ancor più della sistemazione giuridica della materia. Risale all’epoca, infatti, il decreto, cosiddetto “blinda prestiti”, firmato ad hoc dall’allora assessore Mariarita Sgarlata, prematuramente scomparsa. Fu scritto in occasione del contenzioso sorto tra la Regione siciliana e i due musei statunitensi, per chiudere i rubinetti del prestito facile per la ristretta lista di 23 beni di cui si è detto, riconosciuti come “risorsa essenziale delle azioni di valorizzazione del patrimonio culturale in Sicilia”. O almeno così si disse allora. In realtà, è tutt’altro che una norma “blinda prestiti”, non facendo altro che allentare le maglie proprio per quella ristretta lista di beni identificativi della Regione. Grazie, infatti, a una deroga sposta la valutazione di questioni specialistiche dai tecnici alla Giunta di Governo, consentendo a quest’ultima piena libertà di movimento, a prescindere dalle questioni di opportunità sollevate dai primi. In altre parole, in Sicilia è rimessa alla discrezionalità di assessori come quelli alla Salute, alla Famiglia o dell’Agricoltura, di stabilire se una fragile pellicola pittorica o degli argenti in stato conservativo compromesso possano affrontare un viaggio.
Le contropartite difettose. E mentre la Sicilia è impegnata a dare lezioni all’estero, si è dimenticata di ciò che le era stato promesso. Nel 2015, infatti, sarebbe dovuta arrivare in Sicilia la Crocefissione di Sant’Andrea, del Caravaggio, da Cleveland per una mostra che il museo americano si impegnava ad allestire interamente a suo spese (c’era già pure il titolo: “Caravaggio e i suoi seguaci”), nell’ambito degli accordi di reciprocità tessuti dall’allora assessore Sgarlata col direttore David Franklin, in cambio dell’invio di gioielli della Regione come l’”Auriga” di Mozia e la “Phiale d’oro” di Caltavuturo.
Sul blog dell’ex assessore di Crocetta c’è pure una bella mappa intercontinentale che rende evidente l’”affare”: per due opere siciliane che avevano fatto le valigie ben nove ne sarebbero tornate dagli States. Strano accordo, comunque, perché, invece che mettersi in viaggio, tra il 2016 e il 2017 la “Crocefissione di Sant’Andrea” fu sottoposta a un delicato restauro. Da quel momento, poi, il museo americano non ha più concesso l’opera per alcuna mostra all’estero, per le condizioni conservative che non consentono alcuno spostamento. Mentre dalla Sicilia gli Argenti possono mettersi in viaggio a prescindere dal loro stato di salute.
Nel 2016 fu, invece, la volta di dieci preziose opere che lasciarono l’isola proprio alla volta del British per la mostra “Sicily: Culture and Conquest”, che sanciva come l’agognata reciprocità fosse ancora parecchio lontana dal raggiungersi. I patti originari furono mandati gambe all’aria. Prevedevano per la prima volta l’applicazione di un principio di reciprocità in base al quale prima si sarebbe organizzata una mostra in Sicilia, in alta stagione, e solo dopo si sarebbe passati al contraccambio. Ci si accontentò, invece, di mettere una firma al ribasso culturale, tra una royalty del 10%, derivante dalle vendite dei cataloghi e del merchandising e una serie di iniziative di promozione della cultura siciliana negli spazi del museo londinese, dall’ascolto di musica folk alla vendita dei prodotti dell’eccellenza gastronomica regionale, buoni giusto a rafforzare la solida equazione oltre Manica di una Sicilia=terra dei limoni. Per non parlare della comunicazione. Perché se il British si era impegnato a divulgare l’evento presso le principali testate e televisioni, britanniche ed internazionali e attraverso campagne pubblicitarie nei luoghi di maggiore affluenza di Londra, nonché a sostenere il viaggio, nei principali siti e musei siciliani di un gruppo di giornalisti di testate come il Financial Time o The Guardian (e, in effetti, da giornalisti spesati è difficile che venga licenziato qualcosa di diverso da un’immagine patinata del patrimonio siciliano), nell’isola, invece, proprio per quel principio di reciprocità anticipata per cui erano state allestite due mostre tra fine ottobre e metà dicembre precedenti (ma non in alta stagione), tra Siracusa ed Agrigento si era stati penalizzati dai limiti al battage pubblicitario imposto dal museo londinese che ancora doveva fare il suo lancio ufficiale. Fatto sta che la notizia è girata solo a ridosso delle inaugurazioni. Senza alcun impatto sul numero dei visitatori. Nella prima tappa della mostra dal titolo Tesori della Sicilia. Gli ori del British Museum a Siracusa, tra il 23 ottobre e il 23 novembre 2015, sono stati circa 2.600, più o meno quanti se ne erano registrati nello stesso periodo del 2014. Si è dovuto attendere, infine, solo il 2018 per vedere al Salinas i dodici disegni delle metope di Selinunte di Harris e Angell, nell’ambito sempre degli accordi col British. Ci si deve sforzare davvero a trovare un equivalente significato culturale tra una grande esibizione della durata di 5 mesi come quella londinese con prestiti importanti dai principali istituti dell’isola e brevi esposizioni qua e là in patria con pochi oggetti (la patera aurea e due anelli di Sant’Angelo Muxaro alla Biblioteca Lucchesiana, a cui si erano aggiunti i gioielli del ripostiglio di Avola al museo Orsi, i disegni al Salinas) e non legate dal fil rouge di un unico progetto espositivo adeguatamente comunicato.
Nel 2013 l’assessore Sgarlata diceva: “dobbiamo interrogarci: quanti hanno gioito in questi anni per la presenza dei nostri “gioielli di famiglia” a Londra si sono forse chiesti se il British accorderebbe con altrettanta generosità il prestito di qualche lastra del fregio del Partenone a un museo siciliano? Penso che questi rapporti asimmetrici abbiano fatto il loro tempo”. Nel 2022 la Sicilia resta generosa, questa volta per una buona causa, ma quanto a simmetria la strada è ancora lunga.
L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza
Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e dal compianto Folco Quilici nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).