Popolo dei musei e delle mostre? Forse meglio parlare di popolo dei feticci e popolo dell'arte


L'altro ieri Antonio Natali tracciava una distinzione tra popolo dei musei e popolo delle mostre. Noi proponiamo anzi un'altra distinzione: popolo dei feticci e popolo dell'arte

L’altro ieri è uscito su Repubblica un bell’articolo in cui Antonio Natali, direttore degli Uffizi, scriveva che il popolo dei musei e il popolo delle mostre sembrano essere due entità differenti. In occasione della mostra su Pontormo e Rosso Fiorentino a Palazzo Strozzi, i visitatori degli Uffizi hanno diritto a uno sconto di metà prezzo sull’ingresso all’esposizione, e nel suo articolo Natali ha diffuso alcune statistiche: su 680.000 visitatori entrati agli Uffizi dalla data di apertura della mostra di Palazzo Strozzi, solo 2.850 di loro sono poi andati a vedere il Rosso e il Pontormo. Secondo Natali è segno di interessi diversi tra chi frequenta i musei e chi invece frequenta le mostre, e che “a distinguere i due popoli è la disposizione ideologica”, nel senso che ci sarebbe, da parte del popolo dei musei, la “bramosia d’affollare i luoghi mitici per venerare feticci” e, sulla barricata opposta, “la curiosità intellettuale di conoscere opere e artefici nuovi per far crescere la propria coscienza storica e affinare la sensibilità”, senza escludere però eccezioni, come gli adoratori della Ragazza con l’orecchino di perla che quest’inverno si sono riversati in massa a Bologna per vedere esposto il dipinto di Vermeer.

L’analisi di Natali è sicuramente interessante e merita una ulteriore riflessione. Intanto, io propongo di suddividere i visitatori di mostre e musei piuttosto nel popolo dei feticci, quello magistralmente descritto da Natali in relazione ai musei (è vero che, in proporzione, tale popolo affolla più i musei che le mostre, ma è Natali stesso a dire che ormai neppure le mostre sono immuni da questo fenomeno), e il popolo dell’arte: che è quello che frequenta sia le mostre che i musei perché vuole godersi le opere, perché ha desiderio di vedere dal vivo, conoscere e approfondire, o anche semplicemente perché vuole emozionarsi di fronte alle opere senza dover, per questo, adorarle in maniera acritica. Attenzione però: quello del “popolo dell’arte” è un concetto che potrebbe prestarsi a facili accuse di elitarismo, ma in realtà è quanto di più lontano da qualsiasi concetto di un’arte riservata a pochi. Questo perché il presupposto fondamentale che contraddistingue il popolo dell’arte non è una conoscenza approfondita ed esperta delle opere d’arte, bensì il modo in cui le persone che lo compongono si approcciano all’arte: per emozionarsi ma anche per saperne di più su un’opera o su un artista, per conoscere cose nuove, per arricchirsi e, come dice Natali, per “far crescere la propria coscienza storica e affinare la sensibilità”. Tutte operazioni che si possono condurre sia nei musei che nelle mostre, e che non necessitano di una preparazione da esperto d’arte. Lo diciamo sempre, del resto, che l’arte è e deve essere di tutti.

Code all'ingresso degli Uffizi
Code all’ingresso degli Uffizi

Il popolo dell’arte però ha bisogno di essere incoraggiato e sostenuto. Invece, sono sempre in numero maggiore le operazioni che si rivolgono più al popolo dei feticci. E quando è lo stesso Ministero dei Beni Culturali, con assurde campagne come "se non lo visiti lo portiamo via", a parlare al popolo dei feticci più che al popolo dell’arte, significa che c’è qualcosa che non va. Significa che il ministero punta più alle operazioni di cassetta che a educare i cittadini a un corretto approccio all’arte, perché quello del feticcio non è certo il modo consono per avvicinarsi alle opere dell’antico (e anche del contemporaneo). Il feticcio è diventato tale perché come feticcio è riconosciuto dalle masse: chi visita la Galleria dell’Accademia a Firenze (per continuare con l’esempio del David di Michelangelo) spesso esce dal museo senza sapere una virgola in più sul David rispetto a quanto ne sapeva una volta entrato, oppure le emozioni che prova non vanno al di là di una selfie scattata insieme all’eroe biblico, dato che ora il Ministero ha regalato al popolo dei feticci anche la possibilità di ritrarsi in improbabili autoscatti assieme ai loro idoli. Come fa notare Natali.

Serve quindi un’inversione di tendenza, ma se la tendenza ultima è quella del liberalizzare le selfie (e continuare invece a impedire a chi fa divulgazione in modo serio e rigoroso, ma guadagnandoci anche qualcosa sopra, di pubblicare le immagini delle opere d’arte), l’inversione tarderà ad arrivare. Il Ministero, insomma, punta più sul marketing che sulla conoscenza: ma c’è da domandarsi fino a che punto i grandi musei percorsi ogni giorno da centinaia, se non migliaia, di visitatori, abbiano bisogno di iniziative di marketing. La libertà di selfie è una gran bella iniziativa di marketing che forse farà bene ai musei più piccoli (benché molti di essi, già prima della nuova misura pro-selfie, di fatto non vietavano che si scattassero fotografie al loro interno dacché ritenevano che gli scatti del pubblico fossero un potente veicolo promozionale a costo zero), ma occorre forse riflettere sul fatto che nei musei più grandi e più gettonati dal pubblico dei feticci, il rischio è quello di creare una convivenza insostenibile tra chi visita i musei per adorare gli idoli e chi invece per godersi le opere.

È ovvio che noi non siamo nessuno per dire al pubblico come deve avvicinarsi alle opere: ognuno lo fa nella misura che più gli si confà. Ma è anche vero che se il popolo dei feticci prende il sopravvento sul popolo dell’arte, chi ci rimetterà saremo innanzitutto tutti noi che vogliamo che i musei, gli enti, le organizzazioni, sappiano parlare in modo serio, e rigoroso (e, soprattutto, chiaro) a chi ama l’arte, sappiano organizzare mostre e allestire percorsi museali secondo progetti che incoraggino la qualità più che la quantità, sappiano insomma incarnare al meglio quella che dovrebbe essere la missione di un museo, ovvero produrre cultura. E, in secondo luogo, chi ci rimetterà sarà il sistema stesso della cultura: operazioni come “se non lo visiti lo portiamo via” incentivano il pubblico a riversarsi in massa nei musei abitati dagli idoli, lasciando invece che i centri minori (o i musei più piccoli) siano quasi spopolati. Per accorgersi degli effetti di questo modo di ragionare basta fare un giro nella stessa Firenze. Un mese fa, durante un fine settimana, eravamo proprio a Firenze: alle tre del pomeriggio la coda per entrare agli Uffizi aveva già raggiunto la sua lunghezza standard di una o due ore. E poco più lontano, la chiesa dei Santi Michele e Gaetano, peraltro a ingresso gratuito al contrario di tanti altri edifici di culto fiorentini, era completamente vuota. Eppure dentro a questa chiesa ci sono alcuni tra i più importanti dipinti del Seicento fiorentino, oltretutto rimasti ancora là nel luogo per il quale furono pensati e realizzati. Per non parlare del fatto che le cosiddette città d’arte sono sature fino all’inverosimile, e le città più piccole, ma non per questo meno interessanti, devono fare i tripli salti mortali per attirare visitatori.

La colpa di tutto questo è dovuta a diversi fattori. L’incapacità (o la non volontà) da parte delle istituzioni di diffondere vera conoscenza. La tendenza a considerare l’arte come un qualcosa da sfruttare al fine di ottenere profitto economico, piuttosto che come un modo per arricchire il pubblico. La nefasta e ormai stancante retorica del bello che ha fatto tantissimi danni, perché diamo per scontato che siamo circondati da cose belle e non ci curiamo di loro. Ma la colpa in parte è anche degli stessi musei che spesso non sono in grado di parlare una lingua comprensibile per il loro pubblico, e questo va a tutto vantaggio del popolo del feticcio. Spesso chi organizza mostre lo fa pensando a un pubblico di altri specialisti, o tuttalpiù di appassionati competenti. E questo modo di ragionare è del tutto sbagliato: si usa un lessico aulico anche per i pannelli didascalici, si usano tecnicismi che buona parte del pubblico non comprende, si omettono informazioni che uno specialista o un esperto dà per scontate, ma che agli occhi di una persona con poche conoscenze in materia si tratta di una pratica deleteria perché la sua comprensione di un’opera o di un artista sarà inesorabilmente mutilata. Il popolo del feticcio non si preoccupa tanto di questo: i loro idoli potrebbero benissimo non avere alcun pannello illustrativo e alcun apparato didascalico a corredo, e in molti non avrebbero la benché minima preoccupazione. Il popolo dell’arte, però, in mostre poco comprensibili rischia di trovarsi spaesato, comprende che chi allestisce i percorsi parla una lingua diversa, e questo, di certo, non aiuta la causa.

Questo problema ovviamente riguarda anche gli Uffizi: siamo stati l’ultima volta quest’inverno, in occasione della mostra sulla collezione Molinari Pradelli (intitolata Le stanze delle muse), sempre in un fine settimana. Fuori, solita coda di circa un’ora per entrare. Dentro, la calca davanti alle opere più gettonate, che non sto neppure a elencare perché tanto sappiamo tutti quali sono. Ma, nelle sale dedicate alla mostra sulla collezione Molinari Pradelli, il vuoto: non è che forse anche gli Uffizi fanno poco per attirare un pubblico più consapevole? Tant’è che raramente (per non dire “quasi mai”) vediamo fiorentini all’interno della galleria. Significa che il museo ha uno scarso appeal nei confronti degli abitanti della città in cui si trova. È vero che c’è, a monte, un problema di scarsa educazione all’arte (dove per scarsa educazione all’arte, ribadisco, non intendo le conoscenze in materia tout-court, bensì il come il pubblico si avvicina alle opere), ma è anche vero che spesso i musei non riescono a comunicare bene, non riescono ad attirare pubblico, non riescono a rendere appetibili le loro pur meravigliose e interessantissime mostre, come, appunto, quella sulla collezione Molinari Pradelli.

È necessaria, pertanto, una riflessione profonda, ma soprattutto è necessario lavorare: da una parte per una migliore e maggiore educazione, e dall’altra per una migliore comunicazione. Solo in questo modo si potrà aiutare il popolo dell’arte ad avere la meglio sul popolo dei feticci. O, forse ancor meglio, a trasformare parte del popolo dei feticci in nuovi membri del popolo dell’arte.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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