La petizione di Vittorio Sgarbi: iniziativa interessante, ma da impostare in altri termini


Vittorio Sgarbi lancia una petizione contro l'esportazione abusiva di opere d'arte all'estero: iniziativa interessante, ma che andava impostata in altri termini.

Forse non è ancora il caso di preferire Vittorio Sgarbi nelle vesti di “traslocatore di opere d’arte”, come lo ha recentemente definito Tomaso Montanari, ma di sicuro possiamo dire che, in qualità di polemista, il buon Vittorio par difettare di quella raffinatezza che un ruolo tanto delicato dovrebbe richiedere. E non mi riferisco solo ai modi del nostro tenace castigatore, che stavolta c’entrano poco: mi riferisco ai contenuti della sua ultima, pittoresca trovata, ovvero la petizione per impedire “l’esportazione abusiva dei capolavori italiani”. Ora, posto che esistono tutti gli strumenti giuridici e legislativi per impedire che i capolavori italiani fuoriescano illecitamente dai confini nazionali, e posto che compito di combattere tale reato appartiene alle autorità competenti, l’unico senso che il sottoscritto riuscirebbe ad attribuire alla sgarbiana raccolta di firme, potrebbe essere quello di sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema di grave importanza.

Tuttavia, se anche l’obiettivo fosse, come mi auguro, quello di sensibilizzare, ritengo che il modo peggiore per raggiungerlo sia proprio quello di puntare, come fa Sgarbi, il proprio agitatissimo dito contro un ristretto novero di docenti universitari, e dimenticare che esistono già leggi identiche a quelle che si auspicano. Ammettiamo che sia vero che i vari Caglioti, De Marchi, Tanzi, Pizzorusso, Romano, Bentini, Morselli e soprattutto Benati (contro il quale Sgarbi ha di che insistere parecchio) abbiano “umiliato il loro ruolo di pubblici ufficiali” e “prestato la loro opera prezzolata a mercanti d’arte”: dovremmo innanzitutto supporre che tutte le loro Università abbiano accettato che i succitati ricoprissero incarichi in aperto conflitto d’interesse con il loro ruolo pubblico, e questo in barba a tutte le leggi sul lavoro nel pubblico impiego. Oppure, che i docenti abbiano ricoperto incarichi di consulenza illeciti all’oscuro dei loro atenei. Tuttavia, il buon senso mi induce a ritenere che tutti gli studiosi citati da Sgarbi abbiano agito nel pieno rispetto delle regole: il che, tradotto, significa che i suddetti hanno presentato una richiesta di autorizzazione alle loro Università onde ricevere il permesso di ricoprire un incarico esterno, e che le Università, accertata la mancanza di conflitto d’interesse, abbiano rilasciato l’autorizzazione.

Ma anche ammettendo che tutti abbiano agito nella più misera, tetra e totale illegalità, non si comprende quale relazione concreta, secondo Sgarbi, leghi le perizie degli studiosi all’esportazione illecita delle opere. Quando infatti Sgarbi definisce Benati "esportatore abusivo di opere d’arte", non solo rischia un processo per diffamazione, ma affibbia anche allo studioso un ruolo ben diverso da quello, infinitamente più morbido (e soprattutto lecito) del perito che firma un’attribuzione di un dipinto. E questo è ciò che Sgarbi contesta ai docenti: aver firmato perizie su dipinti in possesso di privati. Orbene, sarebbe parecchio interessante sapere quale sia la fattispecie giuridica che rende un perito che firma un’attribuzione complice di un esportatore abusivo: perché chi esporta abusivamente un’opera non è chi firma una perizia dando quindi un parere sul suo valore, bensì chi possiede l’opera e decide pertanto quali canali farle prendere. E, ovviamente, qualora il proprietario dell’opera abbia loschi intenti, lo studioso che ha periziato il capolavoro, a meno che non sia dotato del potere di leggere nell’altrui pensiero (o a meno che non contribuisca a far uscire l’opera dall’Italia attribuendole un valore di molto inferiore a quello reale: ma non si tratterebbe dei casi citati da Sgarbi, tanto che neppure lui nella sua petizione lo scrive chiaramente), non è tenuto a conoscere cosa il proprietario voglia fare della sua proprietà.

Vittorio Sgarbi
Vittorio Sgarbi. Foto di Giovanni Dall’Orto

Occorre comunque ricordare che lo Stato italiano possiede diversi strumenti atti a fermare, o quanto meno a ridurre, i tentativi di esportazione illecita: a cominciare da quello stesso diritto di prelazione che Sgarbi vorrebbe diventasse oggetto di una normativa europea. Bene, in Italia il diritto di prelazione per i beni culturali riconosciuti d’interesse pubblico esiste già. Cosa significa? Significa che quando è in atto una cessione di un’opera d’arte a cui lo Stato attribuisce un notevole interesse, lo Stato stesso, in base al Codice dei Beni Culturali, può esercitare il diritto di prelazione, ovvero, detta in termini molto banali, può avvalersi di una priorità rispetto ad altri potenziali compratori interessati allo stesso bene, e questa “priorità” dura sessanta giorni dal momento in cui viene resa nota l’intenzione del proprietario di cedere l’opera.

Ci si potrebbe dunque domandare: come fa lo Stato a sapere quali opere vengono cedute, e dunque come fa a sapere su quali opere può esercitare il suo diritto di prelazione? Il Codice dei Beni Culturali prevede due importanti istituti: la dichiarazione dell’interesse culturale e la denuncia di trasferimento. La prima, formulata dalla soprintendenza, stabilisce se un bene ha “interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”, sulla base degli indirizzi del Ministero dei Beni Culturali. Quando un bene è sottoposto a tale dichiarazione (... volgarmente, quando un bene diventa “notificato”, perché alla dichiarazione segue una notifica al proprietario del bene), le cessioni devono essere denunciate allo Stato. Ed ecco dunque cos’è la denuncia di trasferimento: un atto attraverso il quale i proprietari di un bene rendono esplicita al Ministero dei Beni Culturali l’intenzione di cedere la loro opera. Inoltre, un bene notificato non può essere spostato fuori dai confini nazionali senza specifica autorizzazione. E la cosa più buffa della petizione di Sgarbi, è che tra coloro che hanno commentato figurano anche diverse persone che lamentano il fatto che questo iter sia troppo macchinoso, richieda tempi eccessivamente lunghi, e limiti la libertà di movimento di mercanti e collezionisti.

La vera mercificazione non è quella intesa da Sgarbi, dacché la compravendita d’opere d’arte è sempre esistita, e le opere che sono sul mercato sono oggetti che, piaccia o meno, hanno un’intrinseca natura commerciale: la mercificazione, ovvero la riduzione a oggetto di scambio di beni che di per sé non dovrebbero esserlo, è quella che interessa il patrimonio pubblico spesso svenduto per due spiccioli in occasioni dai ritorni magri ed effimeri (quando presenti, beninteso), oppure trasferito, esposto e dunque sottoposto a rischi per celebrare le velleità culturali di manifestazioni ed eventi che in realtà trattano l’arte come lussuoso orpello decorativo, come mero apparato scenografico. Il tutto mentre diversi beni pubblici corrono incontro al degrado nel disinteresse generale: giusto per fare qualche esempio, se certe amministrazioni fossero state più accorte, il Tabernacolo di Boldrone a Firenze non sarebbe stato trasformato in una pattumiera, la Biblioteca dei Girolamini di Napoli non sarebbe stata depredata dei suoi beni, e non ci sarebbe stato spazio per figure come quella di Marcello Dell’Utri, lui sì conclamato esportatore abusivo d’opere d’arte all’estero, ovviamente ammesso che le accuse mosse nei suoi confronti dagli inquirenti trovino conferma in tutti i gradi di giudizio.

L’iniziativa di Sgarbi è, pertanto, lodevole nell’intento di porre l’attenzione su un tema che dovrebbe richiamarci a una cura maggiore del nostro patrimonio storico-artistico. Ma a mio avviso le sue buone intenzioni si avvalgono di argomentazioni che sono da rivedere quasi in toto: a essere messo in discussione non dovrebbe essere il ruolo di docenti universitari che hanno ricoperto incarichi di consulenza, immagino con l’autorizzazione dei loro atenei. Dovremo piuttosto domandarci se tutti facciamo abbastanza per il nostro patrimonio.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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