Perché l'Italia non può avere un museo o un centro di documentazione sul fascismo?


Un eventuale museo (o ancora meglio un centro di documentazione) sul fascismo non è incompatibile con i valori dell'Italia odierna. Perché allora tante discussioni? Perché l'Italia non può avere un museo sul fascismo? È un dissidio che la Germania ha risolto, noi cosa aspettiamo?

È noto che le strumentalizzazioni sfruttino confini molto labili: talvolta, quelli che corrono semplicemente tra due preposizioni articolate. Succede dunque che, a Roma, tre consiglieri comunali della maggioranza pentastellata (Gemma Guerrini, Massimo Simonelli e Andrea Coia) si facciano promotori d’una mozione che impegna la sindaca e la giunta, si legge nell’ordine del giorno per il consiglio del 4 agosto, “a realizzare un ‘Museo sul fascismo’ collegato ad un centro studi che utilizzi anche le nuove tecnologie, aperto ad un vasto pubblico; considerare, per tale Museo, uno dei siti archeologici industriali di Roma”. E succede, di conseguenza, che per gran parte della stampa il “museo sul fascismo” diventi automaticamente un “museo del fascismo”, e che il riferimento al centro studi annesso vada perdendosi per strada, a riprova del fatto che a molti interessa parlare più di politica spiccia e feriale che di storia. Ne sortiscono immediatamente vigorose polemiche, con l’Anpi e il Pd romano alla testa delle proteste.

“Immaginiamo quanti non vedano l’ora di poter dimostrare che il fascismo ha fatto anche cose buone”, prevede l’Anpi. “Un Museo che verrà realizzato e gestito dalla prossima consiliatura capitolina, sui cui valori antifascisti nulla possiamo oggi prevedere, quando nel nostro paese non ci si vergogna più di citare Mussolini e dove il fascismo si esprime addirittura formando partiti che esplicitamente ad esso fanno riferimento e che tardano ad essere sciolti”, aggiunge l’associazione dei partigiani. “Non permetteremo che Roma medaglia d’oro per la Resistenza ospiti un museo del fascismo”, tuona la sezione romana del Partito Democratico. La parola “fine” sulla discussione giunge dalla stessa sindaca Virginia Raggi: “Roma è una città antifascista”, dice, e con questa argomentazione s’oppone alla realizzazione dell’eventuale museo. Tanto che i tre consiglieri ritirano la loro mozione.

Il furibondo bailamme che s’è creato attorno alla notizia ha ben dimostrato come, in Italia, sia ancora difficile riuscire a intavolare una serena discussione pubblica sul fascismo. E certo non si può dire che i tre consiglieri del Movimento 5 Stelle abbiano fatto di tutto per facilitarla, questa discussione. Tutt’altro: nell’avanzare una proposta interessante, hanno commesso alcuni grossi peccati d’ingenuità. Primo, hanno utilizzato un’espressione (“museo sul fascismo”) che poteva prestarsi molto facilmente a fraintendimenti e strumentalizzazioni, circostanze che si sono poi puntualmente verificate (se si fosse parlato piuttosto di un “centro di documentazione”, forse la vicenda avrebbe preso una piega diversa). Secondo, nel presentare la loro mozione sono stati estremamente laconici e poco esplicativi, e su argomenti come un eventuale museo sul fascismo la chiarezza dev’essere massima. Terzo, hanno lanciato l’iniziativa all’improvviso e non hanno avviato alcuna discussione pubblica preventiva sul tema, e sono stati travolti dalla tempesta senza alcuna possibilità di gestirla. Naturale, dunque, che la proposta venisse sommersa dalle critiche.

Occorre però anche interrogarsi sulla consistenza delle critiche, partendo da un punto fermo: un eventuale museo sul fascismo non sarebbe incompatibile coi nostri valori antifascisti. Affermare il contrario significa solo due cose: abbandonarsi a speculazioni non dissimili da quelle che si rimproverano alla parte avversa, oppure cadere in un grosso equivoco sugli scopi e sulle funzioni d’un museo. Probabilmente, nelle menti di molti alberga l’idea secondo cui un museo equivale a un monumento e, pertanto, potrebbe assumere toni e caratteri celebrativi. Ma in realtà i musei non nascono per magnificare gli oggetti delle loro collezioni, tanto meno per esaltare la materia sulla quale sono specializzati, nel caso in cui si tratti di musei monotematici: nessuna definizione del termine “museo” contempera questa possibilità. L’attuale definizione dell’ICOM stabilisce in modo molto chiaro che il museo è un’istituzione “che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto”. Nessuno spazio, dunque, per eventuali inneggiamenti, nessuno spazio per prestare il fianco a interpretazioni distorte, nessuno spazio per confondere la storia con le mitografie o addirittura per confondere la ricostruzione storica col giudizio politico (come probabilmente pensa l’Anpi quando teme un museo che affronti il tema delle cosiddette “cose buone”): in questi casi, non si potrebbe parlare di “museo”. Ed è la ragione per cui in Germania esistono centri di documentazione sul nazismo come l’NS-Dokumentationszentrum di Monaco di Baviera o il Dokumentationszentrum Reichsparteitagsgelände di Norimberga: sono luoghi molto più focalizzati sulla ricerca e sulla formazione che sull’esposizione (per questo si parla di “centri di documentazione” più che di “musei”), dove si esamina in maniera critica la storia del nazismo, ai quali sono associati centri di ricerca e laboratorî, che vengono diretti e gestiti da storici dall’impeccabile curriculum accademico.

Adolfo Wildt, Maschera di Mussolini (il Duce) (1924; marmo di Carrara, 60 x 49 x 22 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)
Adolfo Wildt, Maschera di Mussolini (il Duce) (1924; marmo di Carrara, 60 x 49 x 22 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)

Chiarito questo punto, evitando di cadere nella scorrettezza di attribuire ai fautori improbabili pulsioni nostalgiche, e senza farsi prendere dalla tentazione di mescolare le carte (come quando si dice che a Roma esistono già il Museo di via Tasso e le Fosse Ardeatine: al di là del fatto che questi siti, ovviamente preziosi e indispensabili, si configurano come luoghi della memoria più che come musei storici, è fin troppo ovvio rilevare che sono centrati su eventi molto più circoscritti di quelli di cui s’occuperebbe un più ampio museo dedicato alla storia del movimento e del partito fascista), le critiche più sensate riguardano l’opportunità di aprire un museo sul fascismo nell’Italia del 2020. In altri termini, la domanda che in tanti si fanno suona più o meno così: può un passato che è ancora oggetto di aspra contesa politica diventare il tema centrale di un museo, in un paese dove non di rado emergono tentazioni riduzionistiche sulle dialettiche tra fascismi e antifascismi, dove si dànno ancora, da una parte e dall’altra e in maniera più o meno velata, letture apologetiche di ampî brani della nostra storia, dove lo stesso passato coloniale dell’Italia è ancora argomento estremamente faticoso, e dove anche gli opinionisti più mediaticamente pervasivi hanno spesso dato prova d’incapacità d’affrontare col dovuto distacco le vicende del Ventennio?

Se pensiamo a un museo sul fascismo come a uno strumento di ricerca e conoscenza, la risposta non può che essere affermativa. Anzi: un serio museo, o ancor meglio un centro di documentazione sulla storia del fascismo (o entrambe le cose) che eviti d’aprire spiragli di qualsiasi tipo, sarebbe uno strumento estremamente utile per cominciare a correggere alcuni dei punti che, in queste ore, portano molti a interrogarsi sulla sua opportunità. E saremmo anche pronti per metterlo in piedi, dato che non mancano certo le figure (storici, storici dell’arte, storici dell’architettura, architetti, urbanisti, esperti di tecnologia e comunicazione) che potrebbero dare vita a un museo sul fascismo scientificamente fondato. Si dà ovviamente per scontato che un eventuale museo sul fascismo non possa prescindere da strumenti e organi (relativi al progetto scientifico, agli apparati, alla governance) in grado di renderlo un’operazione ben piantata su basi solide e rigorose, e si dà parimenti per scontato che, come nel caso dei centri tedeschi, un simile istituto dovrebbe nascere da un progetto condiviso e da un percorso di lunga durata in grado d’interrogarsi a lungo anche sul taglio stesso da dare al luogo (un museo sull’intera storia del fascismo potrebbe essere un progetto fin troppio ampio, e quindi passibile di diventare dispersivo).

Certo, non stiamo parlando di un museo che nascerà da una proposta molto naïf di tre consiglieri comunali, lanciata di punto in bianco una manciata di giorni prima di una seduta agostana dell’assemblea capitolina. Stiamo parlando di un progetto che, intanto, dovrebbe avere un respiro nazionale (e per il quale, peraltro, Roma potrebbe non essere neppure la sede adatta, dal momento che il fascismo nasce e muore a Milano), che dovrebbe avere una governance capace di mettere l’istituto al riparo da qualsiasi uso strumentale (il museo potrebbe dunque avere una qualche forma di avallo o di presenza del Ministero dei Beni Culturali), che sorga da un dibattito pubblico serio e duraturo (quindi non come quello ssorto attorno alla proposta dei consiglieri grillini, con argomenti risibili da una parte e dall’altra, e che è destinato a durare lo spazio di qualche ora), e che dovrebbe inscriversi nel solco d’una strategia ampia e che non s’allontani da alcuni punti fermi: il dialogo costante con altri istituti diffusi sul territorio che hanno l’obiettivo di documentare la storia dell’Italia del periodo bellico e interbellico, il dialogo con gli istituti internazionali, la possibilità di fare ricerca continua, dotazioni organiche sufficienti e che consentano al museo d’operare con efficienza.

La prima vera sfida sarà quella della discussione pubblica sul progetto. E qui starà ai media impostare il dibattito in modo serio, senza dar agio a quegli indecorosi teatrini cui abbiamo troppo spesso assistito negli ultimi tempi su temi riguardanti la storia di quel periodo, ed evitare che un istituto del genere diventi motivo di scontro politico. Per affrontare una discussione simile occorrono maturità e volontà (e, anche se forse a molti non sembra, non mancherebbero né l’una né l’altra): altrimenti i danni della cattiva informazione stroncheranno tutto ancor prima della partenza. Sarà poi necessario che il costituendo istituto chiarisca fin da subito le sue finalità e le modalità con le quali intenderà operare. Se tutto comincerà da queste basi, ogni pericolo verrà automaticamente scardinato e potremo finalmente cominciare a ragionare su temi che potrebbero aiutarci a fare, seppur tardivamente, quei cosiddetti “conti con il nostro passato” che troppo a lungo abbiamo rimandato.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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